Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

G. Mazzillo

Presentazione della Lumen Gentium

Costituzione dogmatica sulla Chiesa
del Concilio Ecumenico Vaticano II

(Praja a Mare, Parrocchia San Paolo 15/01 -22/01-29/01/2004)

 

Struttura

1° Incontro: Chiesa, realtà scaturita dal mistero dell’amore di Dio
che tende continuamente alla comunione tra gli uomini

2° Incontro: Chiesa popolo di Dio in cammino 

3° Incontro: Chiesa della Trinità, popolo delle beatitudini


 

1° Incontro
Chiesa, realtà scaturita dal mistero dell’amore di Dio
che tende continuamente alla comunione tra gli uomini

 

1. Introduzione

1.1              L’importanza del Vaticano II e la sua recezione

Discorso di apertura di Giovanni XXIII:

 

<<Opportunità di celebrare un concilio>>

<<39*  C'è inoltre un argomento, venerabili fratelli, che è non inutile confidare alla vostra considerazione. Cioè, a rendere più completo il Nostro santo gaudio, vogliamo proporre davanti a questo grande consesso la consolante constatazione delle felici circostanze in cui incomincia il concilio ecumenico>>.

<<40*   Nell'esercizio quotidiano del Nostro ministero pastorale Ci feriscono talora l'orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita, e come se al tempo dei concili ecumenici precedenti tutto procedesse in pienezza di trionfo dell'idea e della vita cristiana, e della giusta libertà della chiesa.
<<41*  A Noi sembra di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo>>.

<< 45* Fine principale del concilio: difesa e diffusione della dottrina [che] abbraccia l'uomo intero, composto di anima e di corpo, e, a noi pellegrini su questa terra, comanda di tendere alla suprema patria. … 47*…[ma sì]  da adempiere i nostri doveri di cittadini della terra e del cielo, e da conseguire il fine stabilito da Dio…. 48*  [ci sono stati e ci devono essere cristiani che]  con tutte le forze la pratica della perfezione evangelica, non trascurano di rendersi utili alla società: di fatto, dal loro esempio di vita, costantemente praticato, e dalle loro iniziative di carità prende vigore e incremento quanto di più alto e nobile c'è nell'umana società.  49* [Ma la Chiesa] deve anche guardare al presente, alle nuove condizioni e forme di vita introdotte nel mondo odierno 55* … lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze >>.

 

Promulgazione della Lumen gentium, il 21.11.1964 con la firma di Paolo VI.

Un sinodo straordinario è stato celebrato nel 1985 per una valutazione dell’impatto di questo grande Concilio nel mondo attuale e nella stessa realtà ecclesiale. Ribadito il valore senza dubbio positivo di quell’evento ecclesiale e di questi primi decenni applicativi.

Ma il punto è anche questo. Il Vaticano II non è un puro e semplice direttorio ecclesiale.

La sua novità consiste in un modo nuovo di impostare il grande tema della fede e della salvezza, della rivelazione di Dio e della solidarietà che la chiesa avverte con tutto il genere umano,

metodo nuovo di porsi di fronte a Dio e agli uomini,

superamento di ogni spirito di rivalsa e di ogni desiderio di privilegi e di affermazione di sé, insieme con la ricerca sincera e serena della verità, i cui spezzoni vengono con umiltà riconosciuti in ogni uomo e in ogni cultura,

ed infine l’amore autentico, disinteressato, profondo per gli esseri umani fanno di questo Concilio un avvenimento epocale, che segna una vera svolta culturale e teologica.

Con il Vaticano II le gioie e angosce degli uomini sono entrate del Denzinger, la summa della dottrina cattolica ufficialmente canonizzata, non potrà capire il Concilio chi ha il cuore lontano da quei problemi e da quegli aneliti di speranza.

Fondamentale in questa rilettura è la costituzione dogmatica sulla chiesa, la «Lumen gentium», che presenta la chiesa nella sua identità e nella sua missione nel mondo, dove la chiesa è chiamata spesso «popolo di Dio».

 

1.2              Amore per l’uomo e in primo luogo per i poveri

Intorno alla costituzione dogmatica sulla chiesa ruotano inoltre i grandi temi conciliari, che sono pertanto, come temi satelliti, tutti influenzati dalla sua ecclesiologia[1]. Ma dopo la riflessione sulla chiesa stessa, la riflessione ad intra[2], il Vaticano II completa l’analisi, ad extra, con la costituzione pastorale Gaudium et spes: solidale compartecipazione, con cui la chiesa si pone di fronte agli uomini:

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (GS 1: EV/1, 1319).

Dimensione «antropologica» della teologia conciliare. La chiesa è attenta all’uomo, fino a sentirne la corresponsabilità: ciò che è autenticamente umano sta a cuore anche ai discepoli del Signore, sicché «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (ivi).

Il motivo: la con-vocazione alla vita unitrinitaria di uomini riuniti in un popolo. È il popolo che, seguendo Cristo e sotto l’influsso dello Spirito, cammina verso il regno. Per questa ragione cammina anche insieme con il genere umano in tutta la sua storia:

«La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (ivi).

A ragione si deve perciò parlare della chiesa del Concilio come «chiesa estroversa»[3]:

i bisogni e le speranze di tutti ed in primo luogo dei poveri. dove sono i tratti del Signore. La scelta preferenziale per i poveri, prima ancora di essere fatta dalla chiesa[4], è stata fatta da Cristo[5].

La Lumen gentium afferma a riguardo:

«Cristo è stato inviato dal Padre “a portare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore ferito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10); similmente la chiesa circonda di amore quanti sono afflitti da infermità umana, anzi nei poveri e nei sofferenti riconosce l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne la miseria, e in loro intende servire Cristo» (LG 8: EV/1, 306).

La chiesa del concilio intende restare fedele a queste consegne e pertanto compie un’opzione storica, ma che nasce da un’opzione cristologica: la scelta per i poveri nasce da una più radicale scelta di Cristo. In tutto ciò il popolo di Dio vive la sua dimensione cristologica ed antropologica nello stesso tempo, è solidale con l’uomo ed è fedele a Cristo.

 

2. Il mistero della chiesa nel mistero di Dio e in riferimento al mistero dell’uomo

2.1.            In che senso la chiesa è mistero?

I primi otto numeri della Lumen gentium, componenti il primo capitolo, sono sotto il titolo: «De ecclesiae mysterio». Il concetto «mistero» applicato alla chiesa è centrale. Mysterium e sacramentum hanno all’inizio  una fondamentale identificazione, sotto vi è il greco musthérion.

Della chiesa si dice ripetutamente che è sacramentum, affermando nell’apertura della Lumen gentium che la chiesa è «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1 EV/1, 284). Ma va detto subito che se «sacramento» sottolinea nel testo conciliare lo strumento e la mediazione rivelativo-salvifica della chiesa, «mistero» si riferisce più specificamente a Dio svelato in Cristo, e resta pertanto un principio non immediatamente visibile.

In altre parole: la chiesa riguardando a se stessa, scopre di essere abitata da una Presenza che è insieme «misteriosa», cioè da cogliere nella fede, e parimenti «luce delle genti». La «luce delle genti» è infatti Cristo e non la chiesa:

«La luce delle genti è Cristo; e questo santo sinodo, riunito nello Spirito Santo, desidera ardentemente illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che si riflette sul volto della chiesa, annunciando il Vangelo ad ogni creatura» (ivi).

La luce di Cristo è una luce che non elimina, anzi rende palese il mistero. In Cristo avviene lo svelamento della dimensione più profonda della chiesa.

La chiesa si radica in Dio, Mistero di comunione interpersonale e sorgente di ogni relazione. Si radica nell’Unitrinità per la sua origine, come chiesa che proviene dall’Unitrinità, per la sua natura, come comunione impiantata nell’esemplarità unitrinitaria e per la sua meta, essendo destinata alla stessa Unitrinità[6], tanto che se la vita unitrinitaria è origine e patria della chiesa, questa può essere chiamata, sua “icona”, una denominazione sulla quale converge la riflessione ecumenica attuale sulla chiesa, che giudica con molto favore l’ecclesiologia “di comunione” del Vaticano II[7].

La stessa luce di Cristo che svela la provenienza e la destinazione della chiesa, svela anche la via, i destinatari e l’orizzonte del suo agire. Ne svela l’economia e il metodo. Da Cristo la chiesa apprende che proprio perché viene dalla comunione unitrinitaria e a questa tende, deve necessariamente essere mossa dallo stesso dinamismo salvifico. Ciò manifesta che la chiesa è imparentata doppiamente con il mistero. In analogia e in continuità con Cristo, si radica nel mistero di Dio ed abbraccia quello dell’uomo. Abbraccia l’uomo come mistero e si radica in Dio che ne è il fondamento. Ma ciò significa anche che il «mistero» non è un enigma, ma fondamentale riferimento ad una ricchezza inesauribile che si perde in Dio stesso. La strada dell’uomo e la strada della chiesa vengono così a convergere, perché entrambe hanno origine da un unico principio: l’ineffabile ed inafferrabile profondità di Dio. Perciò la Gaudium et spes può affermare:

«nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature, il concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo» (GS 10 EV/1, 1351) ed inoltre: .

 

2.2.            Nel mistero della chiesa il mistero dell’uomo

Il mistero dell’uomo presuppone un’accezione sostanzialmente positiva e trasparente del suo stesso concetto. Secondo K. Rahner, il mistero,

«non può essere ritenuto in partenza come semplice negazione di comprensione e di trasparenza, come concetto limite rispetto alla concezione concepita; bensì è dato nell’esperienza trascendentale dell’essenza ultima dello spirito»[8].

Infatti, affermata la presenza di una realtà di cui l’uomo non dispone e che pertanto si palesa come impossedibile, si deve concludere che

«la ragione deve venire considerata non come facoltà di abolizione del mistero (almeno come tentativo che si realizza solo all’infinito), bensì semplicemente come facoltà del mistero stesso»[9].

Ciò vale già per la ragione umana, che perviene con stupore alla soglia di ciò che avverte come incatturabile e solo così afferra il proprio “mistero”, o meglio ne resta afferrata, perché non può né potrà mai possederlo. Ma vale a maggior ragione per la fede, con la quale scopriamo che il mistero dell’uomo ha origine e consistenza nella sua somiglianza con Dio. Cristo porta in sé non solo i tratti dell’uomo, l’immagine di lui, ma anche la vera umanità e la vera divinità; e pertanto è colui che svela la fondamentale «misteriosità» di entrambi e ciò fa ulteriormente comprendere il senso di uno dei pilastri dottrinali del Vaticano II, che afferma:

«In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22: EV/1, 1385).

Trovare vera luce non significa cancellare il mistero, significa evidenziarlo, trasformarlo da enigma a vocazione a una sorte “divina”. Ciò vale sia per l’essere umano singolo che per gli esseri umani raccolti insieme, vale per il popolo di Dio, in cui ogni singolarità comprende meglio se stessa:

«Tutto ciò che di bene il popolo di Dio può offrire all’umana famiglia, nel tempo del suo pellegrinaggio terreno, scaturisce dal fatto che la chiesa è “l’universale sacramento della salvezza”, che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (GS 45: EV/1, 1463).

Con queste parole la Gaudium et spes unisce in reciproco riferimento mistero e sacramento e addita la realizzazione del mistero umano nell’aprirsi dell’uomo all’amore di Dio.

Mistero della chiesa per questo suo duplice riferimento:

a Dio in quanto mistero assoluto, e all’uomo in quanto essere aperto al mistero di Dio: le sue radici in un’inesauribile ricchezza, al cui limite estremo non ci sono il nulla e la morte, bensì la pienezza dell’essere e della vita.

Le caratteristiche esteriori del popolo di Dio, le sue strutture visibili, sono come i rami di un albero: sono anch’esse importanti, come le foglie ed i rami per una pianta, ma non sono le sue radici. Queste invece sono piantate lì dove sgorga la vita, dove affiora l’esistere, un esistere denso d’immortalità e sorgivamente proteso alla relazione: Dio stesso comunità sussistente, che in Cristo e attraverso lo Spirito Santo stende la sua ala per raccoglierci, accoglierci e portarci fino a sé.

3     La comunione unitrinitaria e la chiesa

«Duplice elemento, umano e divino» - afferma la Lumen gentium, citando la Mystici Corporis - (LG 8: EV/1, 304). La chiesa è corpo di Cristo, ma come in Cristo dimorano il Padre e lo Spirito Santo, analogamente è anch’essa inabitata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Il riferimento al Padre ci fa meglio comprendere come la chiesa si estenda anche al popolo di Dio dell’Antica Alleanza e si protenda verso tutti gli uomini figli di Dio. Il riferimento al Figlio ribadisce la centralità del mistero pasquale e il fatto che grazie ad esso il mistero della sofferenza dell’uomo riceve una luce nuova che promana dalla risurrezione di Cristo. Il riferimento allo Spirito Santo dà una fondazione teologica all’unità tra i diversi ministeri e i differenti carismi e motiva ulteriormente la vocazione di tutti verso i sentieri della santità. Non in astratto o per misticismo di comodo, disincarnato e fuori della storia, ma in vicende che lo impegnano continuamente nella sequela, perché

«come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e nella persecuzione, anche la chiesa è chiamata a prendere la stessa via, per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8 EV/1, 306).

La via della sequela è, come abbiamo già visto, la via sulla quale il popolo di Dio realizza la comunione con l’Unitrinità, la vive al suo interno e verso ogni uomo.

3.1. La chiesa come comunione

Il Sinodo straordinario sul Concilio ha individuato nella comunione uno dei temi e delle caratteristiche più importanti della chiesa conciliare:

La realtà della “comunione” è alla base della pluriformità dei ministeri ed ha un valore sostanzialmente dinamico, sul quale non solo la Lumen gentium, ma anche gli altri documenti conciliari ritornano di tanto in tanto[10].

La “comunione” viene indicata, sostanzialmente, come vocazione a partecipare alla vita di Dio (cfr. DV 2: EV/1, 873), attraverso l’essenziale mediazione di Cristo:

«A questa unione con Cristo luce del mondo sono chiamati tutti gli uomini: da lui siamo, per lui viviamo, verso di lui tendiamo» (LG 3: EV/1, 286).

Non si tratta solo di immagini metaforiche, ma di una realtà «teologale», potremmo dire «teoantropologica», nel senso che il destino dell’uomo è assunto fino alla soglia della divina Unitrinità e qui, attraverso la porta che è Cristo, l’uomo entra come figlio nel dinamismo comunionale che lo rende «partner» dialogante, amante e vivente di Colui che è sua origine e fine, suo spessore e ragione stessa dell’esistere, senso ultimo in cui egli riceve senso.

La comunione ecclesiale non riguarda le questioni organizzative o la gestione di questo o quell’altro potere nella chiesa, ma l’armonia di un corretto rapporto tra unità e pluriformità nella chiesa. Se infatti la comunione è una realtà teologica, ha a che fare non solo con la vita unitrinitaria di Dio, ma con i sacramenti che la comunicano e soprattutto con Cristo che è il tramite fondamentale del rapporto tra il divino e l’umano[11].

Un’impostazione di servizio reciproco che offre l’unico valido correttivo a quelle forme che potremmo chiamare «patologiche» nell’esercizio del munus,  come esercizio del potere come tale, ispirandosi a criteri che non sono più teologici, ma societari e mondani.

3.2. La pluriministerialità nel popolo di Dio

Molteplicità complementare ed organicamente intercollegata di varie componenti e di differenti soggetti.

Un’osservazione concerne le formulazioni immediate sul tema della diversità dei ministeri e dei diversi soggetti ecclesiali, che sembrano, almeno nel linguaggio, ancora legate a dei binomi tradizionali, come gerarchia-laicato», «religiosi-non religiosi».

La koinonìa mutuata dal Nuovo Testamento, è familiarità con Dio, alimentata dalla preghiera e dall’ascolto della Parola, anche la familiarità e la condivisione reciproca[12].

I non aventi un “ministero ordinato” (i «laici») nella stessa ottica di una ministerialità che se ha sempre il dono divino per origine, ha il servizio reciproco, il bene della chiesa e la salvezza degli uomini come obiettivi primari. Più fedele al Concilio l’ecclesiologia di comunione nei termini di «comunità-carismi e ministeri», invece di quella tradizionale di «gerarchia-laicato».

La koinonìa come prassi di unità e pluriformità dei ministeri e dei carismi non contrasta con la dottrina tradizionale che parla di una distinzione tra il sacerdozio comune e quello ministeriale «non solo di grado, ma anche di essenza»[13]. I diversi ministeri sono tali, perché voluti da Cristo e suscitati dallo Spirito Santo e pertanto non sono semplici funzioni che una chiesa si dà come sua autostrutturazione. Essi sono senz’altro diversi, e perciò non si intacca la dottrina tradizionale della differenza tra i compiti dei laici e il ministero sacerdotale, visto nei suoi tre gradi (episcopato, presbiterato e diaconato: LG 27: EV/1, 351ss; 28, 354ss; 29, 359ss). E tuttavia tutti i ministeri, come del resto tutti i carismi, provengono ugualmente da Dio e partecipano, sebbene secondo gradi diversi a quella realizzazione di una salvezza “storica” che corrisponde all’unico progetto di pace cui l’Unitrinità ha da sempre pensato e che continua a coltivare per il mondo.

Le conseguenze di quest’ecclesiologia pluriministeriale, detta anche totale, sono tante. Una di queste è che grazie a una ministerialità partecipata e condivisa, si può superare il «cristomonismo» che qualcuno temeva subentrasse nell’ecclesiologia, dopo l’abbandono della visione della chiesa come società perfetta. L’ecclesiologia ministeriale consente anche il superamento della distinzione eccessiva, diventata talora separazione, tra sacerdotalità e laicità, perché valorizza pienamente il fatto che tutto il popolo di Dio è insieme sacerdotale e laicale. È sacerdotale per il suo riferimento fondamentale a Cristo sacerdote, di cui parla spesso anche la Lumen gentium; è laicale, per il suo passaggio nel «secolo» e per le sue precise responsabilità storiche (da laos, popolo)[14].

3.3. Il «ministero della comunità»: vescovi, presbiteri, diaconi

Il Concilio non adotta la terminologia ministeriale nelle applicazioni pastorali e pratiche della sua ecclesiologia incentrata sulla comunione, contiene però passaggi che non si devono sorvolare, pensando che non abbia detto, a riguardo, alcunché di nuovo. Fin dall’inizio del capitolo III, sulla gerarchia, la Lumen gentium afferma:

«Per pascere e accrescere sempre più il popolo di Dio, Cristo Signore ha istituito nella sua chiesa vari ministeri che tendono al bene di tutto il corpo. Dotati di sacra potestà, i ministri sono a servizio dei loro fratelli, affinché tutti coloro che fanno parte del popolo di Dio e perciò godono della vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e giungano alla salvezza» (LG 18: EV/1, 328).

C’è pertanto nel popolo di Dio un «ministero della comunità», ministerium communitatis, come si esprime il Concilio (LG 20: EV/1, 333) trattando della costituzione gerarchica della chiesa. È un ministero affidato ai vescovi, quali successori degli Apostoli, ed esteso anche ai loro collaboratori, sacerdoti e diaconi (ivi). Ma è altrettanto ovvio che tale ministero non è al servizio della comunità in senso astratto, ma in tutte le sue situazioni storiche concrete. È al servizio della chiesa, anche nel conferimento e riconoscimento dei ministeri non ordinati (cf LG 33: EV/1, 370ss) perché discende dalla comunione come principio architettonico della ministerialità del popolo di Dio. Lo ribadisce la dottrina conciliare della comune responsabilità e della sollecitudine che tutti i vescovi devono avere per tutta la chiesa, ma preferenzialmente per i poveri, per quanti sono più deboli, infelici e perseguitati. Pur essendo preposti per una «porzione» di popolo di Dio,

«in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, i vescovi sono tenuti, per istituzione e per comando di Cristo, ad avere sollecitudine per tutta la chiesa: sollecitudine che, sebbene non esercitata mediante atti di giurisdizione, contribuisce tuttavia sommamente al bene della chiesa universale. Tutti i vescovi infatti devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la chiesa, educare i fedeli ad amare tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente le membra povere, sofferenti e quelle perseguitate a causa della giustizia (cf. Mt 5,10)» (LG 23: EV/1, 339).

In quest’ottica il ministero dell’insegnamento (LG 25, LG 344ss) della santificazione (LG 26: EV/1, 348ss) e del governo (LG 27: EV/1, 351ss), se nella sua triplice ripartizione discende dal triplice riferimento a Cristo, maestro, sacerdote e pastore, è proprio, in forza di ciò, «un vero servizio, che nella sacra Scrittura è chiamato significativamente ‘diaconia’, cioè ministero» (LG 24: EV/1, 342).

Strettamente collegata alla motivazione cristologica della comunione è quella della sinassi eucaristica. Il Concilio lo afferma in più luoghi, come, ad esempio, quando parla della pienezza dell’ordine di cui è insignito un vescovo, presentato come «il dispensatore della grazia del sacerdozio supremo», «specialmente nell’eucaristia che lui stesso offre, o che fa offrire, e con cui la chiesa vive e cresce senza sosta» (LG 26, 348). L’eucaristia, inoltre, fonda la comunione tra chiesa universale e le cosiddette «Chiese particolari»:

«In esse la predicazione del Vangelo di Cristo raduna i fedeli, e vi si celebra il mistero della cena del Signore, “affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore si rinsaldi l’intera fraternità del corpo”» (LG 26: EV/1, 348).

Il Concilio inoltre afferma la sacramentalità dell’episcopato, venendo a dire una parola definitiva su un problema che era ancora rimasto aperto (LG 21: EV/1, 334ss), ma afferma anche la profonda unità esistente tra vescovi, presbiteri e diaconi in forza della stessa eucaristia. Dei presbiteri si dice, infatti:

«Partecipando alla funzione di Cristo unico mediatore (cf. 1Tm 2,5) secondo il grado del loro ministero, essi annunciano a tutti la parola di Dio. Ma esercitano la loro sacra funzione soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro capo; e nel sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore (cf. 1Cor 11,26) l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè il sacrificio di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre quale vittima immacolata» (LG 28: EV/1, 354).

Dei diaconi si afferma infine che stanno «in un grado inferiore della gerarchia» e che hanno ricevuto l’imposizione delle mani «non per il sacerdozio, ma per il servizio». Ciononostante è ugualmente esplicito il riferimento cristologico, fonte della carità e del servizio «in comunione col Vescovo e i suoi sacerdoti». Sono invitati a ricordare il monito di S. Policarpo: essere «Siano misericordiosi, attivi, camminino nella verità del Signore il quale si è fatto servo di tutti» (LG 29, 359).

 

3.4.            Funzione “sacerdotale” dei laici ed universale vocazione alla santità

Il capitolo IV della Lumen gentium è dedicato interamente ai laici. Si apre con un esplicito riferimento alla teologia del corpo mistico e della conseguente complementarità delle membra. È una dottrina che va al di là del semplice funzionalismo fisiologico, già noto ai Greci e ai Romani, prima ancora di Paolo, e trova la sua ultima giustificazione nella comunione: comunione con Cristo e, suo tramite, con tutti coloro che gli appartengono (LG 30: EV/1, 361).

Il battesimo incorpora i laici a Cristo e li rende «partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale» di lui, sicché essi «esercitano nella chiesa e nel mondo, per la parte che li riguarda, la missione di tutto il popolo cristiano» (LG 31: EV/1, 362). Ne discende la loro funzione sacerdotale, che vissuta nella quotidianità, nell’impegno e nell’operosità, oltre che nelle sofferenze e nelle prove della vita, il tutto vissuto nell’eucaristia, dove la vita stessa diventa oblazione nell’unica oblazione di Cristo (LG 34: EV/1, 373).

La funzione profetica e testimoniale ha il suo momento privilegiato nella famiglia, dove i genitori affermano la dimensione escatologica dell’esistenza,

«dimostrano di essere figli della promessa, se, forti nella fede e nella speranza, mettono a profitto il tempo presente (cf. Ef 5,16; Col 4,5), e attendono con pazienza la gloria futura (cf. Rm 8,25)» (LG 35: EV/1, 374).

La funzione profetica coinvolge però tutta la sfera dell’attività professionale e temporale, sicché

«la fede cristiana viene fatta penetrare nella pratica della vita, per trasformarla ogni giorno più» (ivi: EV/1, 376).

I laici sono, in questo contesto, portatori di un servizio regale, che si esplica come liberazione della creazione dal peso della caducità e dalla servitù del peccato, un compito al quale Cristo chiama tutta la chiesa, per un impegno ad una progressiva umanizzazione della creazione (LG 36: EV/1, 378ss). In questo modo,

«Ogni laico deve essere davanti al mondo testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e segno del Dio vivente» (LG 38: EV/1, 386).

Ma qui tocchiamo un punto determinante del Concilio, l’universale chiamata alla santità, cui è dedicato il capitolo V e sul quale ritorneremo parlando del popolo di Dio come di un popolo convocato da Cristo come popolo delle beatitudini. Basti qui solo sottolineare la funzione ecclesiale di tutti i membri del popolo di Dio, chiamati a seguire Cristo in qualsiasi stato di vita e a compiere, proprio come i soggetti ecclesiali aventi un ministero ordinato, l’opzione preferenziale per i poveri (LG 41: EV/1, 390) .

Sicché l’intero popolo di Dio è al seguito di Cristo e in esso religiosi e non religiosi, ministri ordinati e non ministri, ma per esprimerci meglio, tutti, ciascuno con il suo ministero e con il suo carisma, procedono attraverso lo scomodo passaggio della croce (AG 1: EV/1, 1080), confortati dall’esempio di Maria, verso la sua patria definitiva (LG 68: EV/1, 444).

 

3.4.            Chiesa e comunione interumana

Le radici della chiesa, si è detto, affondano nel mistero di Dio comunione di persone. Non un Dio solitario, ma un Dio che è Unitrinità beata, nella quale la comunione è perfetta, sempre sorgiva, e perennemente protesa all’amore, sempre piena e realizzantesi nella risposta e nella donazione totale di ogni singola divina Persona.

Se la chiesa è icona dell’Unitrinità, non è solo una sua parabola, ma segno sacramentale di un’unità che tende alla comunione dell’intera chiesa con l’Unitrinità e all’unione dell’intero genere umano. Le radici degli uomini, infatti, sembrano non toccarsi tra loro, ma è un’impressione di superficie. Più in profondità non solo si sovrappongono e si aggrovigliano tra loro, ma sembrano venir fuori da un unico ceppo comune. È quel ceppo che chiamiamo «misteriosità» dell’uomo, capacità costitutiva di apertura alla trascendenza e possibilità di una riposta d’amore a una proposta di comunione. La chiesa è «sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1: EV/1, 284), perché evidenzia le comuni radici degli uomini tra loro e con il comune fondamento che è Dio, da cui ogni uomo ha origine e verso il quale tende. Essa consolida tali legami e vi fa scorrere la linfa della vita che riceve da Cristo.

La chiesa avvicina l’uomo al suo simile, come avvicina un popolo ad un altro popolo, nella misura in cui si avvicina a Cristo, purificando se stessa, perché «santa e insieme sempre bisognosa di purificazione» (LG 8: EV/1, 306). La sua forza consiste non nei suoi mezzi umani, ma in quella linfa vitale che le viene dalla sua unione con Cristo, unione come di sposa con lo sposo (Cfr. LG 6: EV/1, 291ss). È pertanto corpo del Signore e martoriato corpo di un’umanità che anela alla giustizia dei cieli nuovi e della nuova terra. È campo ove cresce l’umanità che si rinnova secondo la Parola di Dio. È ovile e gregge di un popolo che dalla dispersione passa alla ricerca dell’unificazione. È edificio e tempio di Dio perché in essa dimora lo Spirito Santo. È, infine, città celeste, dove la convivenza di figli liberati liberi e liberanti, diventa traguardo e sprone al superamento di ogni forma di asservimento di un uomo all’altro, di un popolo all’altro e dello stesso creato alla caducità. Se queste sono le immagini della chiesa, ciò che ne costituisce la sua intima essenza è quel legame profondo e inscindibile che essa ha con il cuore di Dio e con il cuore dell’uomo.


 

[1] Può essere di una certa utilità la sintesi che si rinviene, tra gli altri, in B. Forte, attraverso tre «riscoperte» come linee portanti del messaggio conciliare: a) l’iniziativa di Dio nella chiesa; b) l’ecclesiologia di comunione; c) la modalità dialogica tra la chiesa e il mondo Adista/Dossier 14 (1985) 4-5]. I punti fondamentali di questa sintesi ricorrono in altri contesti e con ulteriori approfondimenti nelle sue opere ecclesiologiche, tra le quali segnaliamo: B. Forte, La Chiesa icona della Trinità. Breve ecclesiologia, Queriniana, Brescia 1986 e Id., La chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della chiesa comunione e missione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995.

[2] Cf. l’intervento di Sünens del 4. 12. 1962: Acta Synodalia I, IV, 223.

[3] S. Dianich, Chiesa estroversa..., cit.

[4]Lo ha ribadito Giovanni Paolo II, che, ad esempio il 21.12.1984, nel Discorso ai cardinali e alla curia romana ha affermato che la chiesa ha solennemente proclamato di far sua l’opzione preferenziale per i poveri. Ha precisato spesso, nei suoi interventi sulla materia, che tale opzione non deve essere considerata in senso esclusivo e che i "poveri" non sono solo quanti mancano dei beni economici, ma sono anche i defraudati della libertà e dei loro diritti civili. La scelta preferenziale per i poveri è successivamente ripresa anche in altri suo testi magisteriali, tra i quali la Laborem exercens e la Sollicitudo Rei Socialis.

[5]Cf. Lc 4,16-21 e Is 61,1-2, parallelismo che è sullo sfondo anche della missione della chiesa.

[6] B. Forte, La Chiesa icona..., cit., 21ss.

[7] «La chiesa è l'icona della Trinità, e la Trinità è il principio interiore della comunione ecclesiale. Dalla risurrezione alla parusia, la comunione è voluta dal Padre, realizzata nel Figlio, e causata dallo Spirito in e per mezzo di una comunità. Ogni comunità autenticamente cristiana condivide questa comunione e fa parte del mistero di Dio rivelato in Cristo e nello Spirito. Così la realtà escatologica è già presente e la comunione ecclesiale esprime "la comunione dello Spirito Santo". Allo stesso tempo la chiesa ha un dinamismo interno verso quell'unità che è fondata nello Spirito Santo. Secondo le parole di Cipriano, la chiesa si presenta come "un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"» (Gruppo misto cattolici-CEC, Appendice A. la chiesa: locale e universale, Enchiridion Oecumenicum Supplementi , 1523).

[8] K. Rahner, «Mistero», in Dizionario Teologico II, Queriniana, Brescia 1967, 330.

[9] Ivi.

[10]È anche vero che il termine ricorre talora in qualche significato diverso da quello teologico qui indicato anche in qualche testo conciliare, come ad, esempio, quando si parla delle «molte comunioni cristiane», ma in questo caso il riferimento è inequivocabilmente alle diverse confessioni cristiane: «Il ristabilimento dell'unità da promuoversi fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro sinodo ecumenico Vaticano II. Da Cristo Signore la chiesa infatti è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo; tutti si professano di essere discepoli del Signore, ma la pensano diversamente e camminano per vie diverse, come se Cristo stesso fosse diviso» (UR, 1: EV/1, 494).

[11]«Questa comunione si ha nella parola di Dio e nei sacramenti. Il battesimo è la porta ed il fondamento della comunione nella Chiesa. L'eucaristia è la fonte ed il culmine di tutta la vita cristiana (cf. LG 11). La comunione del corpo eucaristico di Cristo significa e produce, cioè edifica l'intima comunione di tutti i fedeli nel corpo di Cristo che è la Chiesa (1 Cor 10,16). Pertanto l'ecclesiologia di comunione non può essere ridotta a pure questioni organizzative o a problemi che riguardino semplicemente i poteri. Tuttavia l'ecclesiologia di comunione è anche fondamento per l'ordine nella Chiesa e soprattutto per una corretta relazione tra unità e pluriformità nella Chiesa» (Sinodo dei vescovi , Relazione..., cit., EV/9, 1800).

[12] I testi vi si riferiscono almeno nei motivi ispiratori basilari, così ad, esempio: «Tutti i discepoli di Cristo quindi, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cf. At 2,42-47), offrano se stessi come oblazione vivente, santa, gradita a Dio (cf. Rm 12,1), diano ovunque testimonianza a Cristo, e rendano ragione, a chi lo richieda, della speranza di vita eterna che è in loro (cf. 1Pt 3,15)» (LG, 10: EV/1, 311); «E da ultimo Dio ha mandato anche lo Spirito del suo Figlio, signore e vivificante, che per l'intera chiesa e per i singoli credenti è il principio che riunisce e unifica nella dottrina apostolica e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni (cf. At 2,42 gr.) (LG 13, EV/1, 318).

[13] «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado (essentia et non gradu tanto), sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poichè l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo» (LG 10, EV/1, 312). L’espressione «per essenza e non solo per grado» si fa risalire a Pio XII, che in un discorso del 1954, voleva evidenziare la non riducibilità del sacerdozio ministeriale alla delega da parte della comunità (cf. Magnificate Dominum, del 2. 11. 1954. La Mediator Dei, cui fa riferimento il testo conciliare è sulla stessa linea anche se non ha però quella formula precisa: AAS 39 (1947) 553.

[14] Cf. G. Mazzillo, «Il popolo di Dio e la laicità sacerdotale», in Presenza del Carmelo s. a. (1987) n. 41, 52-58; G. Lazzati, «Secolarità e laicità», in Il Regno / Attualità (1985) n. 12, 333-339; S. Dianich - B. Forte, «Laicità: tesi a confronto», in Il Regno / Attualità (1985) n. 16, 459-461. Sul laicato cf. anche Rivista Pastorale Liturgica 140 (1987/1), dedicata a I Laici nella chiesa e nelle celebrazioni; G. Lazzati, Il laico, Roma 1986; R. Goldie, Laici, laicato, laicità. Bilancio di trent’anni di Bibliografia, Roma 1986. Cf. anche «Laico», in Dizionario Teologico, cit., 122s.