BIAGIO MOLITERNI

LA CAMPANA di TORTORA  e le altre campane

La presentazione dell’ultimo libro di don Giovanni Mazzillo, avvenuta il 30 giugno scorso, è stata anche l’occasione per celebrare i cinquecento anni della più grande delle tre campane innalzate sul campanile della chiesa matrice di Tortora.

Il suo peso è pari a circa 10 quintali, un nulla rispetto alla “campana dello zar”, che con le sue circa 200 tonnellate è la più grande del mondo. Tuttavia, a differenza della nostra, rimasta in ottima salute, nonostante la sua veneranda età, la campana russa, essendosi rotta immediatamente dopo la sua realizzazione (1733), non ha mai battuto un colpo. Perciò resta esposta nella piazza moscovita del Cremlino, a testimonianza di un primato di grandezza, ma non di efficienza.

La campana tortorese è alta 90 cm., 110 cm. se si considerano anche gli agganci alla trave di sostegno, ha alla base una circonferenza di 2,5 metri ed è di tipo fisso, ovvero resta immobile mentre viene percossa da un battaglio o batacchio che, tirato da una corda, la colpisce dall’interno. E anche se, dal 1989, la percussione è prodotta esternamente da un elettrobattente, il suo timbro è rimasto esattamente quello di cinque secoli fa: la nota Re, con suoni armonici, in cui orecchie professionali avvertono anche oscillazioni armoniche verso il Do.

Il timbro delle campane dipende dalla loro forma, dimensione e peso, oltre che, naturalmente, dal materiale di cui sono fatte, il bronzo, una lega di rame e stagno dall’elevata sonorità ma dall’altrettanto facilità a rompersi.

Ed è proprio quest’ultima caratteristica che, prima o poi, determina la lesione e la conseguente perdita di sonorità delle campane, come è già successo a quelle tortoresi del 1606 e del 1633, che ventiquattro anni fa furono staccate dal campanile di Tortora, e si trovano attualmente nei depositi della chiesa matrice, in vista della sempre auspicabile apertura di un museo parrocchiale. Normalmente, però, le campane rotte sono destinate a essere rifuse, secondo un procedimento immutato da secoli: si crea un modello di campana in mattoni e argilla, con all’interno un’intercapedine, nella quale viene colato il bronzo, liquefatto ad altissime temperature. A raffreddamento avvenuto, si ha la campana vera e propria, la quale, dotata di un battaglio in ferro, viene finalmente issata nella cella campanaria. Così, ad esempio, fu fatto nel 1786 per la rifusione della celebre “campana maggiore” di San Pietro, in Vaticano.

La vita media di una campana è di qualche secolo, a meno che eventi bellici non la rendano più breve. Infatti, per una sfortunata coincidenza, le campane sono fatte dello stesso materiale dei cannoni, alla cui produzione vengono normalmente sacrificate in tempo di guerra. Cessate le ostilità, a volte, si compie l’operazione inversa, come è avvenuto a Rovereto, dove la “campana della pace” è stata ottenuta con il bronzo di alcuni cannoni utilizzati nel corso del primo conflitto mondiale.

La campana tortorese ha superato indenne le prove del tempo e la stupidità guerrafondaia degli uomini e, ancora oggi, continua ad annunciare gli eventi gioiosi e luttuosi della vita: liturgie, morte e, tre volte al giorno, l’Angelus. Nei secoli passati ebbe anche una funzione civile, annunciando, il 15 agosto di ogni anno, le riunioni della Platea dell’Università, una sorta di Consiglio comunale dell’epoca, mentre nel corso della II guerra mondiale è stata utilizzata per lanciare l’allarme contro le incursioni aeree degli anglo-americani, quando la nostra popolazione locale correva a nascondersi “sotto le grotte”. Queste sono al di sotto del plateau roccioso su cui il paese sorge, erigendosi, soprattutto in corrispondenza della chiesa parrocchiale, come per un miracolo al di sopra di esse.

La campana è dedicata a san Pietro apostolo, titolare della parrocchia, le cui tipiche due chiavi incrociate vi sono impresse sopra, accanto alla scritta: Petrus apostolus intecedat pro nobis: “l’apostolo Pietro interceda per noi”. L’iscrizione riferisce anche che il manufatto fu realizzato il 10 luglio 1513 dal Magnifico Paolo Martino di Rivello: Mag(nificus) Paulus Martinus de Rivello f(ecit) 1513.X. Iulii, e riporta il versetto 3 del salmo 29: Vox Domini super aquas - Deus maiestatis intonuit - Dominus super aquas multas: “Il Signore tuona sulle acque, il Dio della gloria scatena il tuono, il Signore sull’immensità delle acque”.

Nella cultura cristiana, infatti, le campane sono considerate “la voce di Dio”, da quando, intorno all’anno 420, san Paolino da Nola ebbe l’idea di utilizzarle a scopo liturgico, per annunciare ai fedeli gli eventi più importanti della vita, oltre che del culto liturgico. Da allora iniziò la lenta diffusione di quelle che, in virtù della loro forma, simile a recipienti rovesciati, incominciarono a essere note come “i vasi della Campania” (vasa campana, in latino)  o “vasi campani”, divenuti poi, più semplicemente, le nostre “campane”.

La loro diffusione capillare nelle chiese si ebbe però intorno all’anno Mille, creando non pochi problemi di ordine pratico e teologico. I primi riguardavano le difficoltà di trasporto dai conventi, dov’erano inizialmente prodotte, ai luoghi di destinazione. Per ovviare al gran numero di campane che risultavano irrimediabilmente lesionate nel corso degli accidentati viaggi verso le loro sedi definitive, nacque infatti la figura dei costruttori itineranti, che si spostavano da un luogo all’altro per realizzarle direttamente sul posto. Il rivellese Paolo Martino era, appunto, uno di questi: la tradizione orale ci ha infatti tramandato che la campana di Tortora fu fusa nella piazza antistante la chiesa matrice e che alcuni cittadini buttarono nel crogiolo piccole quantità di monete d’oro e di argento a scopo beneagurale.

Dal punto di vista teologico fu invece stabilito che, dovendo rappresentare la “voce di Dio”, le campane dovessero essere battezzate, nel corso di una fastosa cerimonia, da un vescovo che, come in un normale rito battesimale, utilizzava l’acqua e il sale, pronunciava l’esorcismo contro il demonio, ungeva la campana con il sacro crisma e, con il concorso dei padrini, imponeva ad essa il nome di un santo o di un beato: la campana tortorese ebbe, appunto, il nome del Principe degli apostoli.

Inizialmente le campane potevano essere suonate esclusivamente dai sacerdoti che, in seguito, delegarono tale incombenza ai cosiddetti “campanari”, persone che, col tempo, furono in grado di elaborare tecniche per l’esecuzione di veri e propri concerti. Quello del campanaro è un mestiere che, purtroppo, è andato gradualmente scomparendo, soprattutto in seguito alla sempre più frequente elettrificazione delle campane. A Tortora però, in occasione della manifestazione del 30 giugno, ci ha pensato il signor Antonio Lacava a far rivivere gli antichi e tradizionali ritmi, con una suonata manuale delle tre campane: due con le mani e la terza, “la festeggiata”, con il movimento della gamba.

Gli ha fatto eco il maestro Gian Vito Tannoia, docente di Organo e Canto Gregoriano al Conservatorio di Potenza, che ha dedicato all’evento una magistrale esecuzione all’organo della “Toccata in do maggiore” di Johann Sebastian Bach (bwv 564).