Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Nuove prospettive nel dialogo tra Cristianesimo ed altre religioni?[1]

0.     Introduzione al tema e sua delimitazione

La domanda di fondo della quale di occupiamo presuppone che si affronti un doppio interrogativo e cioè che cosa pensino del cristianesimo le altre religioni e che cosa il cristianesimo stesso pensi delle religioni. È comunque in gioco una questione che si connota con i caratteri della reciprocità e che si pone non tanto e non solo come problema preliminare, ma che accompagna l’intero processo del dialogo e, per ciò che ci riguarda, condiziona la stessa trattazione del nostro tema. D’altro canto, la stessa prima domanda può essere declinata in maniere differenti, scivolando dal piano valoriale a quello storico. Sicché, ad esempio, ci si può chiedere che cosa si pensi di Cristo nelle altre religioni, oppure del patrimonio dottrinale del cristianesimo, ma anche che cosa si pensi di quest’ultimo sul piano storico. Ma anche chiariti questi due differenti versanti della questione, occorre precisare se tali opinioni provengano da voci appartenenti alle altre religioni o se provengano da una nostra ricostruzione cattolica di alcune di quelli voci. Qualcosa di questo secondo tipo è ancora reperibile nella trattazione esplicita di ambito cattolico o cristiano in genere, perché è si rinviene, sebbene senza la necessaria sistematicità, in saggi che vanno, ad esempio, da quelli di H. Waldenfels[2] al ponderoso volume di H. Küng ed altri[3], che contiene anche «una risposta cristiana per le tre grandi religioni considerate (islamismo, induismo e buddhismo). Oppure compare in una contestualità di dialogo che affronta il tema delle convergenze e disparità tra le religioni, a partire da quelle cosiddette abramitiche[4], per allargarsi a quelle orientali[5] e alle religioni in genere[6] In tutto ciò bisogna ancora tenere presenti gli interventi autorevoli sopraggiunti nell’ambito del cattolicesimo[7], non dimenticando che ancora più interessante sarebbe interpellare direttamente i rappresentanti delle altre religioni per sapere che cosa effettivamente pensino del cristianesimo, ma tale studio ci sembra che rimanga per buona parte da compiere. Eppure, parlando tanto di dialogo, ci sembrerebbe un buon inizio l’interpellanza e l’ascolto degli altri, da condurre in un rispetto reciproco. Se esistono qua e là risposte a singole questioni e da parte di alcuni che non si sa nemmeno quanto siano rappresentativi delle religioni di appartenenza, uno studio sistematico ci sembra che resti tutto da compiere.

In ogni caso, allo stato attuale delle cose e delle nostre conoscenze, l’approfondimento sistematico su un piano di reciprocità, più che di pura comparazione o peggio di competizione, non ci è possibile[8], possiamo pertanto di accostare l’argomento da un altro punto di vista, che si presenta a noi più congeniale e che certamente ha addentellati sistemici con quanto finora detto. Riguarda il valore di Cristo nell’esperienza religiosa dell’uomo e quindi delle religioni storiche, ma dalla prospettiva cristiana. Non tanto dunque come le religioni guardano a Cristo, ma come noi cristiani guardiano alle altre religioni. A partire da questo approfondimento propedeutico ci sembra diverrà più agevole e certamente più sufficientemente motivato anche l’altro itinerario. Data la centralità di Cristo per la fede cristiana, il problema diventa allora di sapere come e in che misura Cristo sia Salvatore e punto di riferimento dell’esperienza religiosa dell’uomo in genere e delle religioni in particolare. In questo caso possiamo parlare di «religioni», più che di «appartenenti alle religioni», perché la riflessione si snoda sul valore del riferimento e non tanto dei referenti. Si tratta di Cristo e di come sia possibile comprenderlo in rapporto alle religioni o più semplicemente alla religione, che noi consideriamo sotto l’accezione di esperienza religiosa[9]. Per esattezza, dovremmo dire «rispetto a ciò che con nostra terminologia occidentale-latina chiamiamo religione», concetto che non è affatto presente nelle stesse modalità e persino nella stessa autocoscienza del fenomeno in tutti coloro che hanno un’esperienza assimilabile a quella che noi, per non dover tacere del tutto, preferiamo chiamiamo «esperienza religiosa»[10].

In questa seconda accezione, e con le dovute cautele, possiamo recepire quanto si è andato recentemente scrivendo sul pluralismo religioso per la teologia cristiana. Viene in mente immediatamente J. Dupuis, con il suo ampio volume (pp. 583), dal titolo significativo: Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso[11]. Si tratta di uno studio che rimane sorprendentemente ancora sub iudice, nonostante le reiterate precisazioni dell’autore, tra le quali il suo più recente articolo apparso su Rassegna di teologia sul quale torneremo[12].

Ciò che intendiamo qui trattare si situa in definitiva oltre l’approccio storico («che cosa dicono le religioni di Cristo?») e plana verso quello teologico, ma forse sarebbe più esatto dire pre-teologico, perchè intende restare più sul piano fenomenologico – che cercheremo di chiarire nel corso della trattazione – anziché dogmatico. Non solo per evitare le strettoie terminologiche che sembra abbiamo nuociuto e facciano ancora ristagnare il dibattito, ma perché il nostro interesse precipuo tocca la teologia fondamentale, incluse la scienza e la teologia delle religioni. Il tema diventa quindi: «Che effettivo valore hanno per la teologia cristiana le religioni in riferimento a Cristo?» E, in maniera derivata: «Quali nuove prospettive si aprono nel dialogo interreligioso?».

Queste precisazioni previe ci sembrano oltremodo utili, anche per fugare eventuali frantesi. Sia ben chiaro: non vogliano renderci ben accetti a tutti i costi alle altre religioni allargando il più possibile gli spazi di intesa e sottacendo quelli più difficoltosi. Intendiamo piuttosto cogliere qualcosa di fondamentale (che identifichiamo nel riferimento a Cristo attraverso lo Spirito Santo), presente nelle religioni e che va al di là dei rivestimenti culturali, storici e ambientali con le quali esse si presentano, pur nella loro molteplicità e secondo le loro tante forme. Restando del contesto dei cosiddetti «elementi trans-culturali», considerati come i mattoni fondamentali senza dei quali non esiste alcuna religione e andando alla ricerca di ciò che possiamo ricondurre a Cristo come cifra ed emblema di quanto consideriamo costitutivo dell’esperienza religiosa, ravvisiamo quest’ultimo nell’esperienza dell’incontro: l’incontro tra l’esistenzialità umana e la sua Ulteriorità. Preferiamo chiamare così ciò che si esperisce (più che si sperimenta) nell’esperienza religiosa, partendo da due presupposti. Il primo é la particolare natura bifocale dell’esperienza religiosa (i cui fuochi sono l’esistenza umana e ciò che essa coglie come sua Trascendenza). Il secondo è un’indicazione di tale trascendenza in termini non vaghi, ma sufficientemente ampi da non escludere per principio esperienze simili al buddhismo, che almeno nella loro forma più rigorista, rifuggono non solo alla personificazione della Trascendenza, ma persino dalla sua concettualizzazione. Dicendo Ulteriorità pensiamo di non escludere quelle forme religiose che rifiutano un’idea esplicita di divinità, a tutto vantaggio di ciò che essi trovano nella profondità di se stessi o in esperienze di natura simile. Ulteriorità è quindi da intendersi come superamento della percezione più fisica e più banale della realtà, ciò che insomma consente all’uomo di attingere al suo cuore, andando al di là del suo stesso cuore.

Con queste premesse il riferimento a Cristo nelle religioni attraverso lo Spirito Santo può sembrare una formulazione non del tutto felice e lascia effettivamente pensosi, perché è comunque di parte. Ma non è un gran male, sia perché lo dichiariamo fin dall’inizio, sia perché non ci sembra un’idea inutilizzabile. Al contrario, comporta una sorta di sottinteso che, pur essendo abbastanza determinato, lascia tuttavia uno spazio di ricerca piuttosto ampio. Il sottinteso è che lo Spirito Santo agisce nelle e attraverso le altre religioni. Da parte cattolica, è un dato teologico che ormai non dovrebbe allarmare più nessuno, ma al quale sarà bene fornire almeno una qualche documentazione sul piano della pur lenta crescita dottrinale magisteriale e su quello ben più accelerato delle proposte teologiche, alcune delle quali abbastanza avanzate rispetto ad essa.

Giunti a questo punto, lo spazio di ricerca che si apre si può riassumere: «Dove e come ritrovare l’azione dello Spirito che rapporta a Cristo le altre religioni?». Il questo senso la ricerca può percorrere fondamentalmente due strade: quella valutativa e teologicamente più problematica della presenza, “quantità” e qualità della «rivelazione» nelle altre religioni oppure quella, dell’esperienza religiosa come esperienza, per sua stessa natura, immancabilmente pervasa di esperienza di Cristo. Optiamo decisamente per la seconda alternativa, con la precisazione che non intendiamo riprendere il tema delle religioni come vie verso Cristo, ma pensiamo di considerarle modalità, che pur essendo storicamente e culturalmente condizionate, sono espressioni autentiche dell’esperienza religiosa e pertanto sono anche il luogo in cui Cristo si rende presente, tramite il suo Spirito. Si rende presente in quanto realtà fontale e insuperabile dell’incontro tra Dio e l’uomo. Articoliamo il contributo in tre punti: 1) l’esperienza religiosa come esperienza dell’incontro; 2) l’azione di Cristo nello Spirito nell’esperienza religiosa 3) Cristo riferimento qualitativamente determinate di ogni esperienza religiosa.

1.     L’esperienza religiosa come esperienza dell’incontro

Partiamo da un presupposto, che qui non possiamo adeguatamente dimostrare, ma dobbiamo presupporre, e cioè che l’essenza più autentica dell’uomo consista nell’incontro: l’incontro interpersonale del singolo con altri soggetti, in quanto persone come lui, e l’incontro con soggetti non proprio identici a lui, ma tuttavia simili, almeno per alcune caratteristiche fondamentali che contraddistinguono la soggettività, e che sono la capacità di comunicare con lui e la libertà di poterlo fare. Dopo aver illustrato per somme linee l’esperienza come realtà di relazione costitutivamente protesa all’incontro, vedremo l’elemento religioso come realizzazione di esso e la differenziazione delle religioni sulla base della stessa esperienza religiosa.

1.1. Non c‘è esperienza senza incontro

È un presupposto che indica chiaramente una determinata scelta antropologica, quella che dalla filosofia del dialogo in poi si è sviluppata nella nostra area culturale occidentale. Essa dice in sintesi che il mio io essere più vero consiste in un incontro. Superando le secche e la deriva di un essere occidentale monologico, individualista e violento, coraggiosamente denunciate da autori di provenienza ebraica come Buber, Lévinas, Jonas, Stein e da altri autori europei come Metz e Moltmman o extraeuropei come De Las Casas, Dussel Gutiérrez e Balasurya (solo per citare i più noti), partiamo dall’idea che l’altro non è, né deve essere (più) un avversario, un concorrente o un nemico, ma piuttosto quella parte di me che mi consente di diventare non solo uomo, ma anche me stesso[13]. Senza di lui non sarei me stesso. L’altro è la mia trascendenza in un doppio senso antropologico: mi consente di realizzare la mia umanità nella co-umanità dell’altro; mi rilancia continuamente al di là di me stesso, perché realizzi la mia grandezza umana, che porto nella mia profondità come tensione ad andare oltre me stesso[14]. In questa seconda accezione si affaccia l’esperienza religiosa, che almeno in una prima fase è molto vicina, fino a confondersi con esse, con esperienze che noi chiamiamo esperienza estatica, poetica, profetica, mistica e artistica.

In ogni caso l’esistenza umana appare come protesa al di là di sé e sembra realizzarsi quando si incontra con l'alterità, in una qualsiasi delle sue forme, purché sia esperienza autentica di alterità incontrata con libertà, con rispetto e con amore. Questa nostra impostazione generale può essere condivisa o meno. Anche quando non lo fosse nel senso forte che noi le attribuiamo, ciò non dovrebbe inficiare la riflessione che stiamo per sviluppare soprattutto sul piano dell’esperienza religiosa, perché la religione è comunque esperienza di un incontro.

Il succo del discorso è che, data la rilevanza antropologicamente fondamentale dell’incontro senza del quale non si può comprendere la realtà umana, la religione non può non intercettare questo piano, pena una sua marginalità più che nella vicenda umana, nella sua stessa sensatezza antropologica. Ciò presuppone ovviamente che sia ancora possibile ipotizzare una sensatezza generale e universale della vita umana e quindi esclude che ci si attardi sui pendii sempre più sdrucciolevoli dei sensi parziali che rinunciano a priori a una sensatezza complessiva. È anche questo un presupposto. Lo vogliamo e dobbiamo indicare per onestà intellettuale, perché se non c’è almeno lo sforzo di far fronte a un eventuale sistematico “pensiero debole”, si preclude la strada verso un’effettiva rilevanza dell’esperienza religiosa anche solo per il fatto che si negherebbe una sua sensatezza universalmente valida.

Fatte queste premesse, occorre passare a giustificare l'adozione dell’esperienza religiosa come sufficientemente espressiva del fenomeno religioso, in quanto ne costituirebbe la sua quintessenza, cioè la sua tipicità e il suo valore determinante. Da dove partire allora? Si può prendere l’avvio da una considerazione che crediamo facilmente condivisibile. L’esperienza religiosa consta di due elementi: l’esperienza e il religioso. Rispetto all’esperienza, si dovrebbe poter ammettere senza particolari difficoltà che essa è sostanzialmente un incontro: un incontro certamente non sempre e non solo nella forma interpersonale precedentemente indicata, ma pur sempre un incontro, che seppure possa più genericamente essere un dischiudersi ad un evento nuovo ed inedito, rimanda comunque a un rapporto interpersonale, almeno per la sua recezione, verbalizzazione e comunicazione. Come già Max Scheler aveva efficacemente dimostrato[15], anche l’assenza di ulteriori esemplari umani per un individuo che viva in completa solitudine, rimanda pur sempre, almeno per un innato riferimento strutturale, alla comunicazione e all’altro come incontro non compiuto, ma non per questo non desiderato. Se l’esperienza è l’apertura incondizionata di fronte al dato[16], ciò indica che l’essere umano è costituzionalmente aperto e pertanto disponibile al nuovo o a ciò che talora viene indicato come il “dato” esterno all’uomo stesso. Ciò implica la relazione e la relazionalità come apertura comunicativa che si affaccia alla trascendenza, aprendosi verso l’altro, in tutte le sue forme: verso l’altro simile a me e verso Colui che è stato talora chiamato il Tutt’altro. Siamo così arrivati al religioso. La religione, di conseguenza, può essere indicata come l’avvertenza e la rispettiva formalizzazione in un sistema di credenze e atti della vita di ciò che eccede il livello più immediatamente percettivo e immanente della vita stessa. È l’apertura alla Trascendenza o a ciò che abbiamo più semplicemente chiamato Ulteriorità.

1.2. L’esperienza religiosa come base di ogni religione

Se l’incontro tra l’essere umano e ciò che ne costituisce la sua Ulteriorità è l’essenza dell’esperienza religiosa, le prime conseguenze che concludono questo rapido approccio fenomenologico sono duplici e riguardano ancora una volta i due versanti dell’incontro tra l’uomo e la sua trascendenza. In primo luogo, l’esperienza religiosa costituisce la più intima natura della religione, perché come le scienze relative alla religione e alle religioni confermano, tutte possono essere ricondotte a questa base minimale senza della quale non esiste questa realtà, comunque essa venga chiamata[17]. In secondo luogo, passando – per quel che ci riguarda - dal dato fenomenologico alla riflessione teologica su di esso, appare anche evidente che, attraverso l’esperienza qui descritta, Dio può raggiungere e di fatto raggiunge ogni singola esistenza umana e anche i contesti storico-sociali che l’accompagnano e la sorreggono. Ciò avviene certamente con la luce della sua grazia e secondo forme e modalità che alla teologia è dato di indicare sulla base di ciò che Dio stesso ha manifestato con la sua rivelazione. In questo caso parliamo ovviamente della rivelazione giudaico-cristiana. Né possiamo fare diversamente, non esistendo un luogo assolutamente neutrale ed equidistante dal quale trattare la questione. Da questo punto particolare di osservazione ci domandiamo se, in che maniera e in che misura, ci sia l’azione, attraverso il suo Spirito, anche nelle altre religioni e quali prospettive possano qui dischiudersi. È la domanda di fondo del nostro intervento.

2. L’azione di Cristo nello Spirito e l’esperienza religiosa

L’affermazione di una presenza e di un conseguente agire dello Spirito Santo anche al di fuori della Chiesa istituzionalmente considerata non richiede alcun atto di particolare coraggio. La ritroviamo, sebbene con modalità di volta in volta più marcate o più sfumate, nella tradizione dottrinale cattolica e nelle testimonianze di non pochi teologi. Considerando l’azione dello Spirito di Dio, diventa evidente per la teologia cristiana una particolare presenza di Cristo, che non si può disgiungere dal primo, né prima né dopo la sua incarnazione. Prima dell’incarnazione infatti l’azione dello Spirito si deve ritenere collegata all’illuminazione del Logos, i cui effetti sono su ogni essere umano che viene sulla terra[18]. Dopo l’incarnazione, l’azione dello Spirito è da ritenersi inscindibilmente collegata alla particolarissima condizione del Cristo Risorto, il cui Spirito è contemporaneamente Spirito del Padre e del Figlio, ma anche - proprio per questo –Spirito del Risorto[19] È vero, resta tuttora dibattuta la questione dell’interpretazione dell’azione del Logos e dall’agire dello Spirito Santo ad incarnazione avvenuta. Non poche delle obiezioni mosse a J. Dupuis riguardano questo punto[20], che rimanda a sua volta all’esigenza di una maggiore precisazione sul rapporto tra l’azione universale dello Spirito e quella del Cristo. La sua riposta ne tiene conto e precisa che si tratta di una rapporto che non affianca, ma unisce i due protagonisti della salvezza, sul modello di Ireneo che li paragonava alle due mani delle quali Dio si serve per salvare gli uomini[21]. Inoltre l’autore precisa di non voler isolare né il Logos, né il Cristo, ma piuttosto prendere sul serio l’unità tanto del soggetto (è il medesimo, pur nella considerazione di due differenti momenti) che dell’azione universalmente salvifica di Dio (la salvezza è comunque opera dell’intera Trinità, pur nella distinzione delle modalità storiche in essa riscontrabili)[22]. A noi sembra che all’interno di un dinamismo divino “comunitario” scaturente dalla circolare e reciproca azione salvifica unitrinitaria il legame tra il Verbo e il Cristo appare ancora più evidente dopo la risurrezione. Senza poterci inoltrare oltre in questo specifico problema, riterremo l’azione salvifica di Dio in questa unitarietà che non separa, pur distinguendole, l’azione delle Persone divine in questione. Quanto al nostro intento, occorre ritornare all’azione del Cristo risuscitato, che attraverso il suo Spirito porta – perché uomo - le religioni e gli uomini ivi coinvolti all’incontro con Dio, così come porta - perché Dio - Dio stesso all’incontro con l’uomo. Consideriamone brevemente la sostenibilità di quest’assunto nei sui fondamenti dottrinali, distinguendo tra dati biblici, testimonianze dei padri ed affermazioni magisteriali, per arrivare a una prima sintesi sul riferimento a Cristo come qualitativamente rilevante per ogni esperienza religiosa .

2.1. Dati biblici

Le affermazioni dottrinali dei padri e del magistero si fondano entrambe su un primo dato biblico più evidente, che si rinviene già nell’Antica Alleanza e che si può riassumere nella testimonianza che Pietro, primo papa, prima figura istituzionale della chiesa, rende di fronte al pagano Cornelio e alla sua famiglia: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10-34-35). Il suo è innanzi tutto un atto di umiltà. Come a dire: «Chi sono io ad osare di oppormi all’azione dello Spirito Santo?». La sua è un’affermazione rafforzativa, che rimanda alla predicazione e all’agire di Gesù, ma anche a indiscutibili indicazioni bibliche, del tipo «Dio non fa preferenza di persone, né si lascia impressionare dalle appartenenze religiose e sacrali esteriori» (cf. Dt 10,17; Gal 2,6; Rm 2,11; 1Pt 1,17). Del resto Giovanni Battista aveva potuto proclamare agli Ebrei accorsi per il suo battesimo «non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre» (Mt 3,9). Una sferzata profetica sulla quale era sintonizzato certamente Gesù, quando concludeva, non senza amarezza, che pubblicani e prostitute avrebbero preceduto i farisei osservanti della legge (Mt 21,31), che grande era la fede della donna siro-fenicia (Mt 15,28), che la fede del centurione pagano di Cafarnao era più grande di ogni altra trovata in Israele (Mt 8,10). Egli aveva così apprezzato la fede di figure e di popoli tradizionalmente pagani come la Regina del Sud, venuta dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone (Mt 12,42) e come il popolo di Ninive, convertitosi alla predicazione di Giona (Mt 12,41). Il tutto si basava già nel Maestro su un irrinunciabile principio che oppone quelli che professano una fede puramente formale a quanti invece praticano la Parola di Dio e ne vivono l’intima dimensione della carità operosa: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

L’idea della presenza e dell’agire di Dio anche tra i pagani ricorre ancora nell’Antica Alleanza nel celebre passo in cui si parla di Ciro, come del pastore di Dio (Is 44,28) e suo eletto (Is 45,1) con l’impiego di termini usati di solito per i consacrati in Israele o per lo stesso popolo eletto. E del resto persino il dono della liberazione non è appannaggio esclusivo di Israele, ma è un dono che Dio fa anche ad altri popoli. Così ad esempio, troviamo in Amos: «Il Signore, Dio degli eserciti, colpisce la terra ed essa si fonde e tutti i suoi abitanti prendono il lutto; essa si solleva tutta come il Nilo e si abbassa come il fiume d'Egitto [...] Non siete voi per me come gli Etiopi, Israeliti? Parola del Signore. Non io ho fatto uscire Israele dal paese d'Egitto, i Filistei da Caftòr e gli Aramei da Kir?»(Am 9,5-7). Così troviamo in Isaia:

«Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno. Il Signore percuoterà ancora gli Egiziani ma, una volta colpiti, li risanerà. Essi faranno ritorno al Signore ed egli si placherà e li risanerà. In quel giorno ci sarà una strada dall'Egitto verso l'Assiria; l'Assiro andrà in Egitto e l'Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l'Egitto e l'Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l'Egiziano mio popolo, l'Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”» (Is 19,21-25).

Se ci chiediamo in forza di cosa ciò avvenga e sulla base di quali fondamenti, troveremo che l’universalismo di Dio è collegato ad alcuni elementi centrali della teologia biblica quali la Parola, la Sapienza e la Ruach di Dio, cioè il suo Spirito. Sapienza e Parola, da una parte e Ruach dall’altra sono però per la teologia cristiana stadi dottrinali che precorrono la figura del Logos, la Parola di Dio fattasi carne, in quanto Verbo incarnato, e la realtà dello Spirito Santo che sarà conferito (per la verità alitato) da Gesù agli apostoli la sera di pasqua (Gv 20,22-23), lo stesso che si effonderà visibilmente sulla chiesa nascente nel giorno della successiva pentecoste. Si tratta comunque di aspetti dell’agire di Dio nella storia indirizzato a tutta l’umanità e a tutto il cosmo. Il cosmo era stato creato appunto dalla Parola e in forza dello Spirito che aleggiava sulle acque primordiali (cf. Gen 1,1ss), attraverso la medesima Sapienza che era con Dio fin dal principio (Pr 8,27-31); la stessa che «attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti» (Sap 7,27) e in forza della quale Dio nulla disprezza di ciò che ha creato perché tutto ama e tutto conserva in vita (Sap 11, 23-26).

Quanto allo Spirito di Dio, lo si vedeva agire anche al di fuori dei confini istituzionali, già nell’Antica Alleanza. A Giosuè che avrebbe voluto impedire l’esercizio profetico di Eldad e Medad, Mosè aveva risposto augurandosi il dono della profezia per tutti: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!». Ma non era nemmeno prerogativa esclusiva del popolo d’Israele. Lo Spirito di Dio aveva ispirato anche pagani, come ad esempio era successo con Balaam (Nm 22,24-23,30), del quale si dice più volte: «Il Signore andò incontro a Balaam, gli mise le parole sulla bocca e gli disse...» (Nm 23,16). Del resto la promessa salvifica di Dio vale per tutti gli uomini: «io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3,1). È una promessa che Pietro vede realizzata il giorno di Pentecoste (At 2,14-18). È comunque lo Spirito del Signore che riempie l’universo (Sap 1,7; cf. Sal 139,7ss.) e che rinnova la faccia della terra (Sal 104,30).

2.2. Testimonianze patristiche

Alcuni padri della chiesa dei primi secoli, impegnati nel dialogo con la cultura ellenistica, dalla quale spesso provenivano, non hanno fatto mistero di una concezione della salvezza e della stessa rivelazione di Dio certamente più universalistica di quella che troviamo nei secoli successivi. Tra questi il più citato è Giustino, anche a motivo di una sua concezione più corposa sul Verbo (il Logos), che egli non ha esitato a presentare come consacrato (e dunque come Cristo) fin dalla fondazione del mondo. Dal momento che Giustino attribuisce tutti gli interventi di Dio nel mondo al Logos, la conseguenza è che il Logos ha funzioni non solo storiche, dovute alla redenzione, ma anche cosmologiche. La presenza di Cristo nella storia degli uomini è affermata pertanto già nella creazione e rimane in atto attraverso i secoli anche prima dell’incarnazione. Ma si potrebbe coerentemente aggiungere che è in atto anche dopo di essa, perché la persona del Verbo ormai fatto uomo e risuscitato agisce anche nei popoli non cristiani, per il solo fatto che questi sono uomini. In sintesi Giustino ammette una manifestazione di Dio nel Verbo al di là dell'economia salvifica esplicitamente cristiana, perché si è realizzata ancor prima dell’incarnazione, tanto per i Giudei che per i greci; insomma laddove sono vissuti esseri umani conformemente al Verbo[23] e pertanto meritevoli del nome di cristiani[24]. Giustino non si limita al principio. Porta l’esempio degli stoici, dei poeti e degli uomini saggi dell’antichità (come Socrate, Platone ed altri), ricorrendo alla celebre dottrina dei «semi del Verbo», (spérma toû lógou), o della semente della Parola di Dio, «innata (émphuton) in tutto il genere umano»[25], sebbene in forma non completa, dato che la completezza si ha nell’incarnazione della stessa Parola. Gli elementi fondamentali dell’universalismo di Giustino ritornano in una concezione più organica alla storia della salvezza in Ireneo, che li articola intorno alla dottrina del Logos rivelatore. Egli scrive

«Poiché sin dall’origine [il logos] è col Padre; è lui che ha fatto vedere al genere umano la visione dei profeti e i diversi carismi, [...] ha compiuto tutta quest’economia, mostrando Dio agli uomini, presentando l’uomo a Dio, preservando l’invisibilità del Padre [...], ma peraltro rendendo Dio visibile agli uomini con numerose teofanie [...] Perché la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio»[26].

La funzione rivelatrice del Verbo, commenta a sua volta Ireneo, non riguarda solo l’era cristiana,

«come se il Verbo avesse cominciato a manifestare il Padre solo quando è nato da Maria, ma è presente alla totalità del tempo. Sin dall’inizio in effetti il Figlio, presente alla sua creazione, rivela a tutti il Padre, a coloro cui vuole, quando vuole e come vuole. Ed è per questo che per tutti non c’è che un solo Padre, un solo Figlio e un solo Spirito»[27].

I commentatori annotano che non si tratta della pura e semplice conoscenza naturale di Dio. Essa non può essere infatti separata dall’attività del Verbo, che si rivela come tale a tutti gli uomini perché essendo «innato negli animi, li muove e rivela loro che c’è un solo Dio, Signore di tutte le cose»[28].

Il dottrina del Logos ha in Clemente d’Alessandria un ulteriore e qualificato rappresentante. Egli distingue la comune conoscenza di Dio attraverso la ragione umana (il logos della mente) da quella che invece è sotto l’influsso del Logos di Dio. Tale influsso si è esteso e si estende al di là dell’ebraismo-cristianesimo, sì da ritenere che i profeti del mondo pagano hanno parlato in forza di esso[29], sino ad essere un «modo di avanzamento» «alla perfezione della fede» predisposto da Dio. Egli ha dato per questo scopo la legge agli Ebrei e la filosofia ai Greci. L’una e l’altra sono testamento di Dio (diathéke) per essere la base della «filosofia» cristiana[30]. Clemente non limita il campo dell’azione del Verbo alla sola filosofia greca. Lo vede all’opera anche tra gli altri saggi e le altre dottrine fiorite nell’umanità. Vi include i gimnosofisti e gli stessi buddhisti dell’India[31], ritenendo che ciò avviene perché il Logos è «luce per gli uomini»[32] e invitando infine tutti i pagani ad affidarsi interamente a Lui[33].

2.3. Affermazioni magisteriali e interpretazioni teologiche

Con l’interpretazione della dottrina dei padri veniamo all’ultimo punto di questa seconda parte. Per non pochi autori il ruolo teologico della sapienza umana, e in questo contesto anche delle religioni che la mediano, non era ritenuto estinto dai padri dopo venuta di Gesù. Tutto ciò ha fatto parlare di un’interpretazione abbastanza larga della «promulgazione del Vangelo», che tuttavia era stata oscurata nelle posizioni magisteriali dei secoli successivi, si potrebbe dire fino ad arrivare al presente. Di fronte al problema se gli uomini appartenenti alle altre religioni potessero lasciarsi effettivamente guidare dal Logos – pur sempre nel suo storico riferimento al Cristo e quindi all’incarnazione - fino a conseguire la giustificazione, è da registrare nella teologia contemporanea innanzi tutto una posizione più restrittiva del pensiero dei padri. È quella di chi ritiene che si tratta ancora di una giustizia imperfetta e intermedia[34]. Altri, come Congar, hanno affermato la presenza della stessa grazia nei cristiani e nei pagani predisposti a Cristo, sebbene ci sia una differenza di «regime» e di «qualità di doni spirituali»[35]. Altri infine sulla base di una teologia della storia hanno potuto vedere, al pari di De Lubac, un’effettiva rivelazione cosmica nella posizione dei padri, che vedevano come fondative di tale rivelazione soprattutto le prime due alleanze (quella di Adamo e di Noè) ritenendo di carattere più storico la terza (quella sinaitica di Mosé) e la quarta (quella di Cristo)[36]. In questa prospettiva sono da inquadrare le origini della Chiesa spinte da alcuni padri fino ad Abele e da altri fino a Adamo, due posizioni che al Vaticano II sono – sebbene di passaggio – recepite entrambe[37].

In sintesi, si può dire che nei secoli successivi ad Agostino e a Cipriano le aperture dei padri precedenti subiscono una restringimento d’orizzonte, anche perché il problema si complica con quello della valutazione teologica degli eretici, oltre che con l’adozione del cristianesimo come religione dell’impero. L’assioma «fuori della chiesa non c’è salvezza», fatto risalire a Cipriano, sembrava dovesse valere solo per gli eretici, perché non risolveva il problema della salvezza di quanti erano invece lontani da ogni istituzione ecclesiastica non per loro colpa. Tra i padri successivi, non ammettono alcuna salvezza per i non cristiani coloro che come Ambrogio, Gregorio di Nissa e lo stesso Giovanni Crisostomo partono dal presupposto di una chiusura ostinata a Cristo da parte dei pagani e degli Ebrei[38]. Sebbene diversamente interpretato, un passo di Agostino parla di alcuni che, pur sembrando fuori della Chiesa, sono invece al suo interno e viceversa[39]. Alla prova dei fatti egli però ritiene i pagani africani a lui noti al di fuori della salvezza, a motivo della loro indegnità. Lo stesso avverrebbe dei bambini, a motivo della loro colpa originale. È una posizione esclusivista non peregrina, che però non fu condivisa dal suo discepolo Prospero, per il quale valeva anche per i pagani un principio, che solo dopo secoli la chiesa avrebbe rivalutato e che recita:

«Non abbiamo alcun dubbio che, nel giudizio nascosto di Dio, è stato fissato un tempo anche per la loro chiamata, allorché udranno ed accetteranno il vangelo che per ora rimane loro ignoto. Anche ora essi ricevono la quantità di aiuto generale che il cielo ha sempre concesso a tutte le persone»[40].

Si deve dire che le affermazioni magisteriali, da quelle del Lateranense IV (1215) alla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, sono preoccupate del problema dell’unità della chiesa e che le loro accentuazioni rigoriste sembrano indirizzate principalmente verso obiettivo. Sono contro gli eretici. Sembrano riprendere le affermazioni restrittive di Cipriano e di Fulgenzio di Ruspe, simili a quelle che troviamo nel Decreto per i copti del Concilio di Firenze (1442). Sul valore dogmatico delle affermazioni sull’indispensabilità della Chiesa gli interpreti ritengono che non siano da intendere nel senso che sono esclusi dalla salvezza tutti coloro che si trovano al di fuori della chiesa istituzionale.

Al contrario, già al Concilio di Trento si è affacciata la teologia del desiderio della chiesa, sebbene nella forma dei suoi sacramenti fondamentali quali il battesimo e l’eucaristia. Il chiarimento magisteriale definitivo sul senso da dare all’extra ecclesiam nulla salus veniva però molto più tardi, con la lettera del Sant’Ufficio all’Arcivescovo di Boston, dell’8 agosto 1949. Prendendo posizione contro le affermazioni restrittive riguardo all’appartenenza alla Chiesa collegate all’enciclica di Pio XII Mystici corporis, si affermava che tale appartenenza non richiede indispensabilmente il desiderio esplicito della Chiesa stessa (come ad esempio nel caso di catecumeni che si preparano al battesimo), essendo sufficiente il “desiderio implicito” (votum explicitum ). Ciò avviene sulla base della precisazione che sembra invece costante nel magistero: l’affermazione dell’azione della Grazia e della salvezza anche al di fuori dei limiti visibili della Chiesa[41]. La conseguenza è che ritenendo valide le due affermazioni fondamentali Dio salva anche al di fuori dei limiti visibili della Chiesa e fuori della Chiesa non c’è salvezza, si deve ammettere anche un’appartenenza misteriosa – sebbene imperfetta - dei non cristiani alla stessa Chiesa.

Sulla base di queste affermazioni si opera il passaggio di prospettiva teologica magisteriale, che ci porta alla dichiarazione Nostra Aetate del Vaticano II. Nel concilio si parte dal riconoscimento che al fondo di ogni manifestazione religiosa c’è

«una certa sensibilità di quella forza arcana che è presente nel corso delle cose e degli avvenimenti della vita umana»[42]

Si fanno espliciti riferimenti ad alcune religioni mondiali, ricordando l’Induismo con il suo senso di mistero e con «la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia» per la «liberazione dalla angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza». Si menziona il Buddhismo, nel quale «viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo materiale e si insegna una via, per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi e con l’aiuto venuto dall’alto». Ed infine si riconosce che «anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano» (ivi).

Il Concilio parla inoltre della religione islamica, della quale riconosce alcuni valori e i punti di particolare vicinanza al cristianesimo, quali il monoteismo, la misericordia, la creazione, la remunerazione dopo la morte, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore riconosciuto alla Vergine Maria come sua Madre, la preghiera, il digiuno, l’elemosina[43]. Pur non nascondendo le ombre del passato, invita a una reciproca comprensione e all’assunzione di un comune impegno «per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà»[44] Della religione giudaica, e del comune patrimonio spirituale che il cattolicesimo ha con essa, il concilio tratta nel paragrafo successivo, affermando, con Paolo, che «gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento»[45]. Cancellando qualsiasi accusa agli Ebrei relativamente all’uccisione di Gesù, il concilio afferma che essa non può essere imputata «né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo»[46].

Il Vaticano II rivisita pertanto la teologia delle religioni, vedendo in esse l’azione dello Spirito di Dio, che richiama gli uomini ai valori spirituali ed eterni. Per queste ragioni vede nelle religioni stesse un legame con la Chiesa, considerando ordinati ad essa (pertinent vel ordinantur), «in vari modi», tutti «quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo»[47]. L’unico popolo di Dio peregrinante nella storia e nel mondo è pertanto punto di riferimento teologico per cristiani e non cristiani[48]. Il motivo teologico è il seguente: se «sono pienamente incorporati nella società della Chiesa» quanti hanno anche una comunione visibile ed un’affettiva perseveranza nella carità operosa[49], la Chiesa sa di essere congiunta - pur senza un’«incorporazione piena» e tuttavia reale - non solo con i non cattolici, ma anche con i non cristiani. L’azione di Dio passa dunque anche attraverso le diverse forme religiose, che sono un avviamento pedagogico al Vangelo[50] e vie per la salvezza. Lo conferma la Lumen Gentium:

«quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salute eterna»[51].

La precisazione riguarda «quanti senza colpa non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio e si sforzano, non senza la grazia divina, di raggiungere la vita retta». È quella situazione delle religioni che la Chiesa ritiene una preparazione ad accogliere il Vangelo e che viene da colui che illumina ogni uomo, perché abbia la vita.

Appare così ribadito il dato della rivelazione che Dio salva gli uomini tramite la mediazione di Cristo, che attua la salvezza mediante la chiesa, definita dal Concilio «sacramento universale di salvezza»[52], anche al di fuori dei suoi confini istituzionali. Ma perché ciò possa avvenire, occorre aderire a Dio con la propria disponibilità esistenziale, con il «cuore» e non semplicemente con un'appartenenza formale o anagrafica, con il «corpo». Ciò vale anche per quanti sono fuori della Chiesa istituzionale? Il Concilio lo afferma parlando di «vie misteriose» di Dio, con le quali egli conduce alla fede - senza della quale è impossibile piacere a lui - gli uomini «che ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa senza propria colpa». Sono vie misteriose, ma sulle quali i non cristiani incontrano Cristo che agisce in loro attraverso il suo Spirito.

2.4. Cristo riferimento qualitativamente determinante di ogni esperienza religiosa.

Si può ulteriormente precisare il misterioso legame con Cristo delle religioni non cristiane, menzionando ciò che il Vaticano II ha affermato dei valori religiosi e culturali degli altri popoli. Essi sono da purificare, assumere, perfezionare[53]. L’assunto di fondo è un’affermazione cristologica centrale, che riconosce che il mistero pasquale della salvezza

«non vale solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale»[54]

La menzione del mistero pasquale come determinante anche per le altre religioni è un passo importante. Insieme con le altre acquisizioni del magistero conciliare segna il definitivo superamento di quella che è stata chiamata la posizione di Cristo contro le religioni. Il trapasso epocale è stato evidenziato da chi, come Paul Knitter, sintetizzando le varie posizioni, indicava già nel 1986 il cambiamento di prospettiva, dicendo che se prima del Vaticano II la posizione era quella di Cristo contro le religioni, la posizione del concilio era Cristo dentro le religioni[55]. Egli considerava vicini a questa prospettiva teologi come K. Rahner, ma anche E. Schillebeeckx, P. Rossano, A. Dulles. Vedeva le posizioni dei teologi successivi oscillanti tra quanti ritengono Cristo al di sopra delle religioni (nel senso che è egli ultima norma e finalità decisiva per esse) e coloro che invece vedono Cristo insieme alle religioni. Knitter precisava il suo pensiero con queste parole:

«Così questi teologi stanno proponendo un modello teologico che vede Cristo insieme con altre religioni e altre figure religiose. Ancor più che nel modello precedente, essi insistono nel dire che è possibile/probabile che, con Cristo e il cristianesimo, altre tradizioni abbiano la loro validità propria e indipendente e un loro posto al sole»[56].

L’autore distingueva le differenti posizioni all’interno di quest’ultima tendenza secondo alcune strutture, che a noi sembrano collegate a vere e proprie tipologie interpretative. La prima è quella di un «pluralismo unitivo», nel senso che ogni religione è decisiva per quanti vi appartengono ed ha importanza universale per le altre (diversi sentieri verso la vetta, ma che per proseguire non possono ignorarsi, devono invece imparare l’uno dall’altro)[57]. La seconda è quella di una particolare forma di dialogo con il giudaismo, che supera la concezione di Cristo come Messia finale, e quindi normativo, per ripensarlo in maniera prolettica o paradigmatica[58]. La terza è indicata nella posizione di Panikkar, che insistendo su Cristo come Logos, vede attraverso il Logos la possibilità di cogliere il valore delle altre figure salvifiche più che non attraverso il Gesù storico. Nel passaggio da una posizione all’altra, Knitter adotta alcune espressioni schematiche e tuttavia espressive: dall’ecclesiocentrismo (Cristo/Chiesa contro le religioni) al cristocentrismo (Cristo dentro o al di sopra delle religioni) all’attuale teocentrismo (non più Cristo come normativo, né la Chiesa come necessaria alla salvezza, ma solo Dio, come Mistero). L’autore proponeva comunque un metodo simile a quello della teologia della liberazione, per spingere a maggior dialogo i teologi delle religioni, in considerazione dei problemi più impellenti del mondo (oltre il teocentrismo verso un soteriocentrismo), nel superamento di schemi superati e a vantaggio dell’ortoprassi (puntando alla pratica giusta, al posto della credenza giusta). Successivamente lo stesso autore sviluppa l’impostazione soteriocentrica, confrontando il potenziale salvifico delle religioni con i problemi più impellenti dell’umanità, fino ad arrivare ala proposta dell’assunzione di una comune responsabilità nei confronti del mondo e del suo futuro[59]. È una posizione che egli condivide con altri, come H. Küng, che del resto ha scritto la prefazione del libro dove il dialogo interreligioso è inscindibilmente associato alla responsabilità globale.

Se questa è una delle prospettive di grande respiro che si dischiudono per il dialogo interreligioso, da questo sguardo d’insieme, seppure schematico emergono differenti interpretazioni sulla figura di Cristo in rapporto alle religioni. Da parte nostra riteniamo che si debba fare ogni sforzo per tenere ancorato tale dialogo al valore redentivo di Cristo, in quanto figura che media la salvezza come incarnazione dell’amore e quindi che supera decisamente e definitivamente una concezione – del resto datata – della redenzione come pura espiazione di una colpa, a tutto vantaggio di una comprensione della salvezza come offerta di vita e assunzione di corresponsabilità per un futuro vivibile per l’intera umanità. È teologicamente sostenibile una posizione del genere? E per noi cattolici quali passaggi intermedi comporta e da quali dati ormai recepiti anche dal magistero può muovere?

Riteniamo che questa prospettiva, che può di volta in volta assumere la forma di proposta o di contributo ad un ulteriore sviluppo, debba sempre ed esplicitamente indicare insieme con la redenzione di Cristo, riconsiderata in questi termini, anche la sinergia dello Spirito Santo, che non è sempre menzionato con la dovuta attenzione. Forse è qui una delle lacune di fondo che originano ancora non poche difficoltà nella comprensione teologica dell’agire del Cristo come agire del Logos, non in termini astorici, o antecedenti alla storia[60], ma come Logos incarnato, crocifisso e risorto. Ci sembra che la prospettiva che qui si apre sia di considerare da un punto di vista non solo sistematico, ma sistemico, tanto l’azione dello Spirito Santo negli uomini e nella storia, che la sua sinergia con la stessa vicenda del Logos. Si dischiude la prospettiva di una sinergia che pur attraversando la coordinata diacronica della salvezza (negarla sarebbe ricadere nel docetismo) possa e debba armonicamente bilanciarla con quella sincronica (negarla sarebbe ricadere nel nestorianesimo). Con la prima indichiamo la scansione cronologica della salvezza come offerta storica non solo dell’amore di Dio, ma che muove da Dio che è Amore e che nella persona del Logos e attraverso lo Spirito non solo è pensata, ma si incarna, grazie allo stesso Spirito, nel tempo. Con la seconda intendiamo il fatto che la salvezza è pur sempre un dono di Dio, cioè di colui che con il suo Spirito ha risuscitato il Cristo, rendendolo – come Verbo incarnato per noi morto e risorto - compresente alle varie epoche storiche, sì da attraversare le porte del tempo, che restano certamente chiuse per noi, ma non per Colui che ha oltrepassato la barriera della morte. Senza voler direttamente entrare nel ruolo del Padre, anch’esso fondamentale perché Soggetto primordiale ingenerato e generatore di salvezza, ci sembra una prospettiva praticabile recuperare la contemporaneità e la storicità della salvezza nell’approfondimento del ruolo che ha avuto e ha lo Spirito Santo in sinergia con il Logos incarnato. In definitiva, resta ancora da esplorare a fondo il coinvolgimento trinitario – anche se ciò che qui maggiormente interessa è il ruolo dello Spirito Santo – con il mistero pasquale e pertanto come mistero salvifico che oltrepassa la barriera diacronica. L’assunto di partenza può essere così formulato: nel mistero pasquale la salvezza può raggiungere e di fatto raggiunge ogni uomo, sempre che l’uomo l’accolga con l’apertura del cuore.

È un’idea peregrina? Non ci sembra, anzi è in sintonia con quanto affermava il Vaticano II e non è in contraddizione, ma piuttosto ne sembra suo sviluppo, con ciò che troviamo anche nell’enciclica Remptoris missio di Giovanni Paolo II, pubblicata il 1990. Con questo documento il papa intendeva ribadire il valore centrale della redenzione di Cristo, precisando che le altre mediazioni di vario tipo e ordine relative alla salvezza, non sono da intendere come mediazioni autonome. Sono piuttosto partecipazione alla mediazione di Cristo, grazie alla quale attingono significato e valore. La conseguenza è che non sono parallelecomplementari, ma hanno luogo nell'unica e decisiva mediazione salvifica di Cristo[61]. L’affermazione non contraddice, ma rafforza il senso dell’azione del suo mistero pasquale, rivissuto anche nelle altre religioni in riferimento alla chiesa, anche se per vie misteriose[62].

Con ciò viene confermato il dettato del Vaticano II sulla gratuità della salvezza offerta da Dio a tutti e con la condizione di una risposta positiva attraverso le vie misteriose che Egli solo conosce. Per questa via si riafferma il valore del legame a Cristo, ovunque avvenga tale dialogo misterioso, eppure ugualmente salvifico. Rispetto al magistero precedente, che coglieva tale riferimento a Cristo prevalentemente nel santuario della coscienza individuale, c’è oggi un maggiore riconoscimento del valore delle espressioni collettive quali le culture e le religioni. Al di dentro di esse e attraverso di esse il dialogo salvifico con Cristo è mediato nell'autenticità di chi corrisponde all'azione dello Spirito. C’è anche una conseguenza ecclesiologica, che muove dalla considerazione che chi risponde all’azione dello Spirito intercetta anche il cammino del popolo di Dio, in quanto popolo messianico. È il popolo «costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità», ma che è stato assunto da lui «come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)»[63]. Le altre religioni – si dice - partecipano, con un legame ad esso, al mistero di Cristo, anche per il fatto che la sconfitta della morte si compie attraverso la partecipazione alla sua risurrezione.

La posizione dell’enciclica appare a prima vista quella ormai classica del “cristocentrismo inclusivo”, nel senso che esprime «una pienezza includente»[64], che non esclude le altre mediazioni, le quali si manifestano come tali alla luce di quella di Cristo. Essa esprime infatti le sue nette riserve sulle prospettive teocentriche o regno-centriche ritenute più facilmente condivisibili dalle altre religioni[65]. In diversi passaggi sottolinea anche che l’azione dello Spirito, «protagonista della missione», spinge all’annuncio e pertanto alla conversione[66]. Ma la sua azione è sempre vista come parimenti presente negli uomini come nelle religioni:

«Lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo. Il concilio Vaticano II ricorda l'opera dello Spirito nel cuore di ogni uomo mediante i “semi del Verbo”, nelle iniziative anche religiose, negli sforzi dell'attività umana tesi alla verità, al bene, a Dio. Lo Spirito offre all'uomo “luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione”; mediante lo Spirito “l'uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del piano divino”»[67].

Nel riprendere i capisaldi dell’insegnamento conciliare, l’enciclica ripropone il fatto che attraverso dello Spirito dappertutto si può «venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale». Aggiunge che «lo Spirito è all'origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell'uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere»[68] e finalmente riconosce la sua azione anche nelle culture e nelle religioni esterne al cristianesimo:

«La presenza e l'attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all'origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell'umanità in cammino»[69]

Nel numero successivo conferma il valore dell’azione dello Spirito anche nelle forme di preghiera delle altre religioni[70] e con ciò, almeno indirettamente, anche il valore salvifico di esse, per il ribadito legame degli uomini, dei popoli e delle loro religioni al mistero pasquale di Cristo.

La proposta qui avanzata non ci sembra che trovi preclusioni nemmeno nell’intervento della Commissione Teologica Internazionale, successivo alla Redemptor missio . È vero anche in questo documento autorevole si esprimono riserve sul pluralismo teocentrista nelle modalità precedentemente indicate, ma si riconosce la possibilità di arrivare a Dio attraverso immagini false di lui ed anche attraverso riti e concezioni mitologiche. Si aggiunge che corrisponde al cammino dell’uomo per arrivare a Dio anche il legame con Cristo nel suo Spirito, che avvalora la preghiera delle altre religioni e in genere tutto ciò che esprime la tensione dell’uomo ad andare al di là di se stesso. Il rendersi presente del mistero pasquale costituisce un atto salvifico vero e proprio. Ovviamente la condizione è pur sempre assecondare lo Spirito Santo collegato a Cristo: è su di lui che riposa l’oggettività della mediazione salvifica, più che sulla materialità del mezzo adoperato. L’ammissione è infatti che

«un atto salvifico si può avere anche attraverso una mediazione erronea; ma questo non significa il riconoscimento oggettivo di tale mediazione religiosa come mediazione salvifica, benché questa preghiera autentica sia stata suscitata dallo Spirito Santo»[71]

In ogni caso si ammette l’azione dello Spirito Santo che suscita la preghiera e che parla ed opera la salvezza attraverso religioni, culture e modalità umane espressive appartenenti ai popoli più diversi. Tutto ciò ci sembra possa costituire una base più che valida per la prospettiva qui è presentata e sulla quale non ci soffermeremo oltre, almeno non nei termini strettamente dogmatici che potrebbero caratterizzarla. Ci preme piuttosto soffermarci - come dicevamo all’inizio – sul riferimento a Cristo dell’esperienza religiosa che è alla base delle varie religioni e che cercheremo di cogliere in una sintesi che, andando al di là del differenti cammini, ci consenta di approdare a Cristo come incontro del cammino che non solo l’uomo compie verso Dio, ma che Dio compie verso l’uomo. Anche questa è una prospettiva più che promettente di dialogo, perché sposta l’asse della riflessione sul soggetto della Trascendenza più che su quello della religione, pur ribadendo la necessità di un’assunzione di responsabilità verso l’uomo e verso il mondo nel quale il dialogo religioso si compie.

3. Un’alternativa alla teologia dei commini paralleli.

Tendendo conto di tutti gli interventi magisteriali e delle reazioni negative al teocentrismo come concezione che vede affiancate le religioni come vie parallele, sebbene intersecantesi tra loro, la nostra proposta ci consente di restare ancora nell’ambito cristologico impostando il rapporto tra cristianesimo e religioni intorno al tema di Cristo come Via. La considerazione della sua presenza come via, oltre che come vita e verità, e in definitiva come salvezza, comunicate alle altre religioni, ci può portare a ripensare alle religioni stesse come cammini non paralleli, ma convergenti verso la strada maestra che è Cristo. Tale convergenza non è altro che la ricerca sempre necessaria, paziente ed umile delle affinità, dei comuni punti di partenza e di arrivo, al fine di riscoprire la Via che è Cristo. Ci chiederemo nei paragrafi seguenti se tale strada sia praticabile e quali tappe e metodi comporti, riprendendo il tema della religione come incontro e ripensando a Cristo come via e compimento dell’incontro.

3.1. La religione come incontro tra due ricerche: quella di Dio e quella dell’uomo

Possiamo partire da un dato ormai irreversibilmente acquisito anche a livello magisteriale, quello delle religioni come preparazione evangelica[72], ma non in un senso puramente propedeutico. Quest’ultima infatti può indicare anche un effettivo cammino degli uomini verso Dio, che però corrispondente anche al cammino di Dio verso gli uomini. Diremo che tale doppio cammino per noi cristiani non solo è rappresentato in Cristo, ma è Cristo stesso, il Cristo Logos, incarnato e risorto. In forza del suo Spirito, egli si rende presente a tutti i popoli e rende possibile in qualsiasi uomo l’esperienza religiosa. Grazie all’azione dello stesso Spirito gli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine si spingono incontro a Dio. Cristo non è una via tra le altre, ma la Via, perché costituisce il punto d’incontro di questi due reciproci percorsi. Non è una strada tra le altre, come se tutte le religioni fossero indifferentemente intercambiabili, oppure viottoli per la stessa cima di un monte[73]. Riteniamo invece che Cristo sia via non solo emblematica, ma reale per l’incontro tra il passaggio di Dio tra gli uomini e il pellegrinaggio dell’uomo verso Dio. Si tratta di movimenti convergenti, che talora compaiono come idea di fondo anche in affermazioni ecclesiali autorevoli[74].

La centralità di Cristo è del resto reale, come punto iniziale e meta finale della storia. Tutto infatti è stato creato «per mezzo di lui» ed «in vista di lui» (Col 1,16). Con la sua incarnazione si è unito ad ogni uomo[75], a tutti gli uomini. Ciò significa per le religioni, almeno dalla nostra prospettiva, che esse diventano, con le culture e i popoli interessati, luoghi e strumenti di incontro con Dio. L’incontro avviene, grazie allo Spirito Santo, sulla base del comune anelito da lui suscitato, come anelito verso la verità e comune insuperabile tendenza verso la pienezza della vita. Ora però lo Spirito Santo è anche lo Spirito del Risorto. Come tale egli offre la vita in abbondanza scaturita da Cristo e conduce verso quella Verità che ci rende tutti più liberi. La salvezza passa dunque attraverso Cristo come realtà che concretizza la salvezza e spinge a un ulteriore, successivo incontro. Del resto, il mistero pasquale di Cristo che agisce in ogni uomo[76], spinge anche verso una pienezza escatologica che sulla terra non possono conseguire né l’uomo, né le religioni. Possono solo anticiparla nella preghiera, prefigurarla nel mito, celebrarla nella speranza. Le religioni visualizzano nell’esperienza religiosa il duplice cammino di Dio e dell’uomo che si cercano, si intercettano, si rimandano ad un altro più arricchente incontro. Le forme di mediazione che prefigurano e realizzano tale duplice cammino sebbene portino nomi, figure e simbologie diverse, sono comunque espressioni del cammino che è Cristo. Sono questi i termini generali della nostra proposta, che richiede di impostare il rapporto tra Cristo e le religioni non più e semplicemente su un piano orizzontale. Piuttosto presuppone che il rapporto sia considerato su un piano verticale, ma di una verticalità che non sia tanto del tipo «Cristo al di sopra o al di dentro o accanto alle religioni», ma piuttosto Cristo Via di incontro e di convergenza delle religioni nella tensione di tutte le religioni incontro a Dio, cioè verso quell’Ulteriorità che viene incontro alla quotidianità, verso la Trascendenza che si è messa in cammino verso l’immanenza.

3.2. Lo Spirito del Risorto nell’autosuperamento dei limiti delle religioni

Questa prospettiva presuppone inoltre il riconoscimento che ciascuna religione deve poter fare dei suoi propri limiti strutturali. Ogni religione ha a che fare con Colui che non è mai completamente disponibile ad essa. È l’Aconcettuale, ma non per questo è l’irreale. Il regno di Dio deve essere pertanto riconosciuto come punto di arrivo che richiede la continua purificazione di ogni comunità religiosa, inclusa la Chiesa cattolica istituzionale, nello sforzo di essere popolo di Dio per gli uomini, in tutti i sensi. Non un popolo accanto agli altri, ma comunità di popoli e pertanto un unico popolo, che, pur nella memoria e nella celebrazione della presenza di Dio, cammina sempre incontro a Lui. Ciò consente alla fede cristiana di restare fedele alla sua identità e di fare spazio alla ricchezza e alla preziosità che sono patrimonio delle altre religioni[77].

Ma ciò comporta anche che tutte le religioni accettino la sfida a superare se stesse, con uno sforzo sempre ulteriore di andare incontro al Mistero, del quale non potranno mai esaurire, né catturare la presenza. È un’idea che troviamo anche in altri e che certamente appare più promettente delle classificazioni o dei tatticismi con i quali si rischia da una parte e dall’altra di impostare il problema delle religioni.

La troviamo in Paul Tillich, che sapientemente ha impostato il problema della religione come dimensione fondamentale della realtà umana, riuscendo così a coglierne il valore e la l'ambiguità. Al pari dell’ambiguità umana, anche quella religiosa richiede un continuo autosuperamento, in nome di un’incessante apertura alla fede. Vale per il cristianesimo ciò che deve valere per ogni religione: essere «prima di tutto una mano aperta, per ricevere un dono, e solo secondariamente una mano attiva per distribuire doni»[78]. Le conseguenze sono un avvicinamento delle religioni sul comune terreno della loro dipendenza dall’Assoluto e nella loro ininterrotta confessione di insufficienza rispetto ad esso.

Come abbiamo visto, ciò non contraddice, ma conferma quanto affermato dalla componente magisteriale. Ne costituisce uno sviluppo, laddove si deve affermare che se ci sono dinamismi di rivelazione e di salvezza anche nelle altre religioni, essi sono però frammisti all’ambiguità umana. Lo Spirito di Dio continua però ad agire – noi diremmo in quanto Spirito del Risorto che rinnova la faccia della terra – perché la religione possa rigenerarsi e purificarsi dal suo interno. Tale ulteriore dinamismo è da considerare senza dubbio vera e propria forza profetica ed è presente dovunque l’uomo non gli frapponga ostacoli e laddove la religione non è tanto inquinata dal potere da bloccarla o soffocarla, almeno momentaneamente. Diciamo «almeno momentaneamente», perché lo Spirito Santo prima o dopo troverà vie di sbocco che porteranno al cambiamento nella direzione suindicata[79].

A noi sembra fondamentale il riferimento al continuo autocontrollo critico di ogni religione, anche perché esso è stato solitamente trascurato nel dialogo dei teologi delle religioni, impegnati come erano nella ricerca delle convergenze e del dialogo. Riteniamo che dialogo e convergenze passino attraverso questa via che può essere ammessa da tutti e può essere tentata in tutte le religioni. Con ciò si evincerà che cosa Dio dice alle religioni e al mondo di oggi, anche superando le strutture religiose e la fantasia dei religiosi.

In questo contesto la ricerca di qualcosa di fondamentale, partendo dal quale si rende possibile una «teologia universale», non sarà come cercare l’araba fenice, perché avrà già un nome: l’insufficienza strutturale di ogni religione ad esprimere l’Inesprimibile. Il confronto con l’Inesprimibile può effettivamente rendere più umili e più aperti verso gli altri. Ma può anche aiutare i cristiani a considerare Cristo come Via, che, restando tale anche per la Chiesa, esige che essa si rinnovi e si converta continuamente. La riscoperta della vialità del popolo di Dio rende ancora più plausibile la religione come pellegrinaggio.

L'esperienza religiosa come pellegrinaggio comporta il sentirsi attratti dal divino, e andargli incontro. Ciò appare in un’immagine archetipa della religione e della fede rappresentata da Abramo, non per nulla referente primordiale del monoteismo occidentale (ebraismo - cristianesimo - islamismo). Il cambiamento di luogo non è che un simbolo e un’esperienza ancestrale di questo moto che va incontro all’invisibile. Talora è sostituito dal moto interiore. Si pensi a molte forme di misticismo e alla religione buddhista, ma anche a forme di misticismo islamico[80]. Del resto, la ricoperta della religione come pellegrinaggio, e pertanto come continuo confronto con il Mistero, ci sembra una proposta valida anche perché ci consente di recuperare l’origine divina delle forme attraverso le quali lo Spirito Santo agisce e parla nel cuore degli uomini e nelle culture dei popoli, ma anche di salvaguardarne l’autenticità che può essere compromessa o deteriorata dall’immancabile intervento dell’uomo[81]. Su questa linea si dovrebbe più agevolmente comprendere anche la posizione di J. Dupuis, che, pur non apparendo pericolosamente innovativa, perché dichiaratamente lontana dal pluralismo teocentrico, ha formulazioni che sono apparse, forse più linguisticamente che teologicamente, problematiche. Così, ad esempio, quella che afferma, con una distinzione effettivamente ostica, almeno perché finora inaudita, che in Gesù la rivelazione «raggiunge la sua pienezza qualitativa», «eppure questa rivelazione non è assoluta [...] rimane relativa»[82], con quella da essa dipendente riguardo a Cristo, mediatore unico ma non assoluto.

A noi è sembrato che argomentando con questa terminologia non si distingua sufficientemente la valutazione dogmatica da quella di carattere storico-fenomenologico delle religioni e ciò crea probabilmente inquietudini ed allarmismi[83]. È pur vero che questi due piani non sono del tutto separabili nel cristianesimo, ma proprio questo fatto rende la matassa più aggrovigliata e richiede una precisazione ulteriore. Nel caso infatti del «Verbo incarnato» non posiamo limitarci a considerare un momento singolo e puntuale della sua «vicenda» e ricondurre la non assolutezza al fatto che Cristo era realmente uomo. Se è vero che al tempo in cui viveva in Palestina, Gesù aveva una coscienza umana e dunque «limitata», da un punto di vista dogmatico complessivo la sua «vicenda» non è da ricercare solo nella sua vita palestinese. Essendo egli precedentemente il Verbo, che «era presso Dio» e che «era Dio» ed essendo successivamente il Risorto, la sua rivelazione e, a maggior ragione, la sua mediazione salvifica, sono da considerare nella totalità del mistero cristologico. Il Cristo della fede, insomma, che certamente non è separabile dal Gesù storico, è in ogni caso un referente qualitativamente più complessivo e teologicamente più esaustivo del secondo. Ciò che cosa comporta? Comporta il fatto che non sempre e necessariamente sono i cristiani in quanto tali che vogliono accampare pretese di assolutezza sulle altre religioni[84], ma è la figura stessa di Cristo una figura salvifica complessiva e difficile da tematizzare, per indicare la quale appare piuttosto ostica la doppia locuzione di rivelatore e salvatore «unico», e di rivelatore e salvatore «assoluto». Ma, al di là del merito della questione, l’insegnamento che se ne può ricavare è che l’uso dei termini più adeguati in teologia dogmatica è un lavoro impervio. Spesso proprio questa è avanzata attraverso correzioni e purificazioni di terminologie non di rado adoperate in forme contraddittorie e polivalenti. Si pensi a termini quali «persona» e «natura» nell’approfondimento del dogma cristologico. Nel caso in oggetto, la reazione provocata sulla coppia concettuale unico/assoluto, forse dimostra che tale coppia è inutilizzabile. Probabilmente per una ragione culturale, più che teologica[85]. Nel pensiero occidentale l’Assoluto è stato infatti spesso più sinonimo del Divino, in quanto Totalità (si pensi all’uso che ne ha fatto l’idealismo), che di ab-solutus come non relativo, né contingente. Asserire una rivelazione di Cristo «non assoluta» può risuonare alle orecchie di alcuni come una rivelazione in cui Cristo non appare più come Dio, quando invece, il non assoluto potrebbe essere anche rapportato al relativo e quindi può significare non esclusivo o non escludente. Lo stesso discorso ovviamente vale per la salvezza, strutturalmente collegata alla rivelazione.

Che cosa resta allora da dire? A noi sembra che si possa ripartire dall’inclusivismo salvifico, ma da un inclusivismo di tipo particolare. Il modello proposto di Cristo come Via di autosuperamento di ogni religione non è un modello fagocitante che tutto contiene e tutto digerisce. È vero che i non cristiani non amano essere considerati parte del nostro “sistema” teologico. Per questa ragione non ha avuto buona accoglienza l’espressione che, a partire da Rahner, era stata adoperata riguardo ai credenti delle altre religioni (e al limite anche senza religione categoriale) di «cristiani anonimi»[86]. Qui però si afferma qualcosa di diverso. Si insiste sul fatto che anche i cristiani non sono cristiani abbastanza se non nella misura in cui sono fedeli allo Spirito Santo. Solo così sono fedeli anche a Cristo, che vive in loro come richiamo continuo a superarsi nella conversione personale e nelle conversione delle strutture religiose, perché egli stesso è Colui che continuamente li precede. La prospettiva è allora teologica e ricorre a un modello concettuale che, se proprio bisogna chiamare in qualche modo, si potrebbe indicare “esplicitante”, perché rivela a noi cristiani il valore della religione e quello della fede altrui. Vogliamo dire che appartiene alla rivelazione che noi accogliamo non solo il fatto che essa proviene dall’Assoluto (autorivelazione), ma anche che c’è una presenza di Dio e una sua rivelazione anche altrove. In che maniera ciò si pone al di là dell’inclusivismo tradizionale? Nella misura in cui si è disposti a cogliere l’azione del Dio trinitario anche negli altri popoli e negli altri uomini, senza considerarlo monopolio della propria fede. Ciò non significa menomare la propria fede. Significa al contrario riconoscere l’assolutezza di Dio e in definitiva la sua onnipotenza, perché solo una fede più grande può coglierne la presenza e l’azione al di là del proprio orizzonte, fosse anche un orizzonte già consolidato e ritenuto finora l’unico esistente. Anche questa, soprattutto questa è una delle prospettive sulle quali il dialogo interreligioso, oltre che un futuro ha ancora un cammino da fare. In questo alveo il cammino tanto dell’uomo che di Dio richiamano continuamente all’incontro: un incontro che pur avvenuto rimanda sempre ad una tappa ulteriore.



[1] Il testo originario, qui rivisto sotto l’angolazione delle nuove prospettive di dialogo interreligioso, risale ad una nostra relazione tenuta a Potenza il 26 marzo 1999 nel Seminario di studio organizzato dall'ATI/zona Sud, sul tema Il Cristo reso vivo nello Spirito. Cf. il resoconto di Maurizio Gronchi in Rassegna di Teologia 40 (1999) 429-445.

[2] L’argomento era già affrontato succintamente sotto il titolo di «Gesù nelle religioni mondiali» già nel volume H. Waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988) (or. 1985). È stato ripreso in maniera più ampia in Id., Il fenomeno del cristianesimo . Una religione mondiale nel mondo delle religioni, Queriniana, Brescia 1995.

[3] Cf. H. Küng, J, van Ess, H. Von Stietencron, H. Bechert, Cristianesimo e religioni universali, Mondadori 1986 (ed. Or. 1984). Cf. anche H. Waldenfels (a cura di), Nuovo dizionario delle religioni, San Paolo, Ciniselo Balsamo 1993.

[4] Così, ad esempio, Th.Michel,«Islamo-Christian Dialogue: Reflections on the Recent Teaching of the Church», in Segretariatus pro non christianis, Bulletin, n. 59; 20 (1985/2) 172-193; W. Bühlmann, Abbiamo tutti lo stesso Dio, Paoline, Milano 1980; K. – J. Kuschel, La controversia su Abramo. Ciò che divide - e ciò che unisce ebrei, cristiani e musaulmani, Queriniana, Brescia 1996; P. Lapide – J. Moltmann (edd.), Monoteismo ebraico – dottrina trinitaria cristiana. Un dialogo, Queriniana, Brescia 1980; H. Küng, Ebraismo. Passato presente futuro, Rizzoli 19973.

[5] Cf., ancora a titolo di esempio, A., Balchand The Savific Value of non-Christian Religions according to Asian Christian Theologians Writing in Asian-Published Journals 1965-1970, East Asian Pastoral Institiute, Manila 1973; G., Cereti «L’esperienza spirituale nelle religioni non cristiane», in B. Secondin - T. Goffi, Corso di spiritualità, Queriniana, Brescia 1989, 245-284; H., Cowad Hindu-Christian Dialogue. Perspectives and Encounters, Orbis Books, Maryknoll New York 1990.

[6] Cf. Associazione Teologica Italiana e A., Religione e religioni. Metodologia e prospettive ermeneutiche, (a cura di G. Lorizio), Edizioni Messaggero, Padova 1998; Associazione Teologica Italiana, Cristianesimo, religione,e religioni. Unità e pluralismo dell’esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, (a cura di M. Aliotta), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999; «Atti sul convegno “Cristo solo profeta universale?”», in Vivarium 5 ns (1997/2).

[7] Cf. Oltre a documenti che saranno citati nel restante articolo cf. Commissione Teologica Internazionale, «Il cristianesimo e le religioni», in Il Regno-Documenti 42 (1997/3) 75-89.

[8] Per una impostazione più generale sul piano metodologico e ermeneutico del rapporto tra cristianesimo e religioni cf. Associazione Teologica Italiana e A., Religione e religioni. Metodologia e prospettive ermeneutiche, (a cura di G. Lorizio), Edizioni Messaggero, Padova 1998.

[9] Rimando, a questo a G. Mazzillo, «Sulla definibilità delle religione», in Rassegna di Teologia 38 (1997) 347-362 e alla proposta per una lettura dell’esperienza religiosa come incontro con Dio: Id, «L’esperienza religiosa e le religioni nel loro cammino verso Cristo», in Vivarium 5 ns (1997/2) 159-179; Id, «Alcune prospettive», in Associazione Teologica Italiana, Cristianesimo, religione,e religioni. Unità e pluralismo dell’esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, (a cura di M. Aliotta), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 259-265.

[10] Su questo problema, che investe tra l’altro la nozione di religione, che alla fine appare confermata anche se in una prospettiva che cerca di evitare la visione eurocentrica o latinizzante, cf. J. Derrida - G. Vattimo, La religione, Laterza, Bari 1995.

[11] J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997.

[12] J. Dupuis, «Il pluralismo religioso rivisitato», in Rassegna di teologia 40 (1999) 667-693.

[13] Per i principi fondamentali e le complicanze teologiche che ciò comporta, cf. la prima parte di G. Mazzillo, La teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1988.

[14] Il pensiero si trova formulato in R. Garaudy, Parola di uomo, Cittadella, Assisi 1975, 100: «A tutti i livelli noi siamo ricondotti a questa verità fondamentale della vita: ciò che vi è di più intimo ed essenziale in me, è la presenza e l’amore degli altri. L’uomo, gli altri, ecco la mia trascendenza».

[15] Cf. in particolare M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, Città Nuova, Roma 1980.

[16] Così in G. Giannini, La nozione di esperienza. Implicazioni filosofiche ed esistenziali, Città Nuova, Roma 1987, 9, che più avanti spiega il senso di questo dischiudersi dell’uomo nell’esperienza: «apertura illimitata, senza limiti o condizioni restrittive, affermata anche questa sulla base dell’esperienza che il soggetto ha di se stesso quando si pone di fronte al dato in atteggiamento di ricerca, in connessione al qaumavzein (thaumazein) che segna l’inizio del filosofare in Platone e in Aristotele»(ivi, 14).

[17] Pur nel pluralismo dei vari approcci alla religione come fenomeno oggettivante complesso, si può arrivare all’elemento minimale che ci è sembrato possa accomunarli intorno all’esperienza religiosa in quanto tale. Cf. i diversi approcci sintetizzati nello studio già citato di G. Mazzillo, «Sulla definibilità della religione», cit., 347-362.

[18] Sul dato biblico che vi sta alla base ritorneremo in seguito.

[19] Su questo punto cf. resoconto sull’intervento di Madonia nel già citato seminario di Potenza: cf. Rassegna di Teologia 40 (1999) 429-445 e la risposta di Dupuis, soprattutto J. Dupuis, «La potenza illimitata dello Spirito» in Id, «Il pluralismo religioso rivisitato», in Rassegna di teologia , cit., 674-678 e passim.

[20] Cf. in particolar modo M. Gronchi, «Il pluralismo religioso e la teologia», in A. Fabris – M. Gronchi (a cura di), Il pluralismo religioso, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998, 172-175.

[21] «Viene espresso da alcuni recensori il dubbio che con tale ipotesi si stia costruendo un'azione dello Spirito “slegata dall'evento” Cristo [...] Che non sia stata quella l'intenzione del libro dovrebbe essere chiaro dai passi in cui viene ripetuto con forza che cristocentrismo e pneumatocentrismo non possono mai essere staccati l’uno dall'altro, rimanendo sempre l'evento Cristo al centro del dispiegarsi attraverso la storia umana dell'unico piano di salvezza [...]; non si può dunque assentire ad un paradigma pneumatocentrico, che porterebbe a costruire vie parallele di salvezza: salvezza in Gesù Cristo per i cristiani, nello Spirito di Dio per gli altri [...]. “L’economia salvifica di Dio è una sola, di cui l'evento-Cri-sto è allo stesso tempo il punto culminante e il sacramento universale; ma il Dio che salva è “trino”, ove ciascuno dei tre è personalmente distinto è rimane attivo in maniera distinta. Dio salva con "due mani"” [...]. La metafora adoperata da S. Ireneo delle “due mani” di Dio può essere qui di aiuto [...]. Le due mani di Dio,il Verbo e lo Spirito - potremmo aggiungere - sono mani congiunte. Ciò significa che, pur essendo unite e inseparabili, sono anche distinte e complementari nella loro distinzione» (J. Dupuis, «Il pluralismo religioso rivisitato», in Rassegna di teologia , cit., 675-676).

[22] Dupuis precisa nella sua già citata risposta ai suoi recensori (pag. 670): «Nel mio testo ho fatto riferimento a diversi teologi che convergono nel «vedere l'economia del Verbo incarnato come il sacramento di un'economia più vasta, quella del Verbo eterno di Dio che coincide con la storia religiosa dell'umanità». Cita a riguardo la sua opera Verso una teologia cristiana...», cit.., 404, 509 con riferimenti a Cl. Geffré, «La verité du christianisme à l’âge du pluralisme religieux», in Angelicum 74 (1997) 171-191; Id, «La singolarità del cristianesimo nell’età del pluralismo religioso» in Filosofia e teologia 6 (1992/1), 38-58.; E. Schillebeeckx, Umanità. La storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992; Id., «Universalité unique d’une figure religieuse historique nommée Jésus de Nazareth», in Laval théologique et philosophique 50 (1994/2), 265-281; Id., Jesus in Our Western Culture. Mysticism, Ethics and Politics, SCM Press, London 1987, Ch. Duquoc, Un Dio diverso, Queriniana, Brescia 1987; C. Menard, «L’universalité du salut en Jésus le Christ d'après E. Schillebeeckx», in Laval théologique et philosophique 50 (1994/2)., 283-296; Id., Jésus le Christ est-il l'unique sauveur? Le salut chrétien confronté aux autres religions de salut, in J.- Cl. Petit - J.-Cl. Breton (a cura di), Jésus: Christ universel? Fides, Montreal 1990, 55-78; B. Senécal, Jésus le Christ à la rencontre de Gautama le Bouddha, Cerf, Parigi 1998.

[23] La traduzione riportata da Dupuis (Verso una teologia..., cit., 82) recita testuamente: «coloro che hanno vissuto secondo il Verbo sono cristiani, pur essendo passati per atei» (Giustino, 1 Apol. XLVI,1-4). Essa rimanda a J. Daniélou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Il Mulino, Bologna 1975. Sarebbe interessante approfondire il senso del vivere «secondo il Verbo» a partire da un’accurata esegesi dei testi di Giustino.

[24] Cf. J. Dupuis, Verso una teologia cristiana ..., cit., 82; cf. anche J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Il Mulino, Bologna 1975.

[25] Giustino, 2 Apol. VIII,1).

[26] Ireneo, Adv. Haer. IV,20, 6-7.

[27] Ireneo, Adv. Haer. IV,6,7.

[28] Ireneo, Adv. Haer. II,6,1. Per i commenti cf. il citato volume di Dupuis, pp. 85-92, che riporta in nota numerosi testi di approfondimento, anche relativamente agli altri padri suindicati. Cf. anche G. De Simone, «Giustino e Clemente: teologi del dialogo», in Vivarium 5 ns (1997) 209-223.

[29] «Per riflesso e per trasparenza i filosofi greci più autentici intravedono Dio» (Strom., I,19).

[30] Clemente Al., Strom. VI,8.17.

[31] Ivi, I,15.

[32] Clemente Al., Protrept IX,84.

[33] Ivi, XII,120-122.

[34] Così, ad esempio, P. Hacker, «The Religions of the Gentiles as Viewed by Tathers of the Church», in Id., Theological Foundations of Evangelizazion, Steyler Verlag, St. Augustin 1980, 35-60 e Ch. Saldanha, Divine Pedagogy: A Patristic View of non-Christian Religions, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1984. Cf. anche F. – X. Durrwell, «Évangèlisation necessaire», in Id., Le mystére pascal suorce de l’apostolat, Ed. Ouvrières, Paris 1969.

[35] Y. Congar, «Ecclesia ab Abel», in M. Reding (ed.) Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952,79‑108, qui 84.

[36] Cf. H. De Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Queriniana, Brescia 1969.

[37] «Coloro che credono in Cristo, li ha voluti convocare nella santa chiesa, la quale, già prefigurata fin dall'origine del mondo, preparata mirabilmente nella storia del popolo di Israele e dell'antica alleanza, istituita in questi ultimi tempi, manifestata dall'effusione dello Spirito Santo, otterrà il suo compimento nella gloria alla fine dei secoli. Allora, come si legge nei santi padri, tutti i giusti a partire da Adamo, «dal giusto Abele fino all'ultimo eletto», saranno riuniti presso il Padre nella chiesa universale» (LG 2: EV/1, 285).

[38] Si è rimandati qui per Ambrogio a In Ps 118 Sermo 8,57: PL 15, c. 1318, per Gregorio di Nissa a Oratio catechetica 30: PL 45, cc. 76-77; per il Crisostomo a In Epist. Ad Rom. Hom. 26,3-4: PG 60, cc. 641-642.

[39] De baptismo 5,27,38.

[40] De Vocatione omnium gentium 2,17: PL 51, c. 704.

[41] Cf. DS 1304-1306; 2304; 2429; 3866; 3972. Pio IX si appellava all’errore invincibile per giustificare la salvezza di chi non è nei limiti visibili (Singulari quadam), mentre il documento del Santo Ufficio del 1949 si appoggia al votum implicitum, come desiderio implicito della chiesa e dei suoi sacramenti, cosa, che è sulla linea del magistero tridentino (DS 1525; 1931-1933; 1970s). Cf. su tutta la questione cf. K. Rahner, «L’appartenenza alla chiesa in qualità di membri secondo la dottrina dell’enciclica “Mystici corporis” di Pio XII», in Id., Saggi sulla chiesa, Paoline, Roma 19692, 53-181. Del resto il votum ecclesiae trovava un suo autorevole sostenitore in Tommaso d’Acquino come votum implicitum: «Prima del battesimo si può conseguire [...] la remissione dei peccati solo in quanto si ha il desiderio esplicito o implicito di esso, e nondimeno, quando si riceve di fatto il battesimo, il condono di tutta la pena diventa più completo. Così prima del battesimo Cornelio e altri in simili condizioni hanno conseguito la grazia e la virtù per mezzo della fede cristiana e del desiderio implicito o esplicito del battesimo; nel battesimo però essi hanno ottenuto maggiore quantità di grazia e di virtù» (Summa Theol. III, q. 68, a.2; traduzione dall’edizione Salani, Firenze 1971).

[42] NA 2, EV/1, 856.

[43] NA 3, EV/1, 859.

[44] NA 3 EV/1, 860.

[45]NA 4, EV/1, 864. Il testo paolino citato è Rm 11,28-29: «Quanto al vangelo, essi [gli Ebrei] sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!».

[46]NA 4, EV/1, 866. Cf., a riguardo, anche ciò che ha asserito Giovanni Paolo II: «Storicamente responsabili di questa morte sono gli uomini indicati dai vangeli, almeno in parte, per nome... Tuttavia non si può allargare questa imputazione oltre la cerchia delle persone veramente responsabili» (OSSERVATORE ROMANO, 20.9.1988 p. 4). Per gli aggiornamenti su questa questione cf. G. MAZZILLO, Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta 1990, 38.

[47]LG 13,EV/1 321. L'idea ritorna in LG 16,EV/1 326.

[48]Cf. H. J. Schulz, Kirchenzugehörigkeit. Von der jurisdiktionell fixierten Kirchengliedschaft zur Teilnahme am Pleroma des Leibes Christi, in AA. VV. Glaube im Prozeß, op., cit., 397-417; H. Fries, Die ökumenische Bedeutung des II. Vatikanums, ivi, 326-355.

[49]LG 14,EV/1, 323.

[50]AG 3,EV/1, 1092.

[51]LG 16, EV/1, 326.

[52] Cf. LG 1 (EV/ 1, 284); 14 (EV/1,322); 17 (EV/1, 327).

[53]LG 17, EV/1, 327: «[La chiesa] con la sua attività fa sì che ogni germe di bene che si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e portato a compimento per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell'uomo».

[54] GS 22, EV /1 1389.

[55] P. E Knitter, «La teologia cattolica delle religioni a un crocevia», in H. Küng – J. Moltmann (edd.), «Il cristianesimo tra le religioni mondiali» in Concilium 22 (1986) 133-144.

[56] Knitter continua «Come suggerisce il mito della torre di Babele, il pluralismo può essere volontà di Dio. Il verum (la verità) può non essere identico all’unum (l’unità) (Panikkar). Più concretamente e scomodamente, può darsi che il buddismo e l’induismo siano tanto importanti per la storia della salvezza quanto lo è il cristianesimo, oppure che altri rivelatori e salvatori siano tanto importanti quanto Gesù di Nazaret. Ecco, è questo il crocevia» [P. E KNITTER, «La teologia cattolica delle religioni a un crocevia», in H. Küng – J. Moltmann (edd.), «Il cristianesimo tra le religioni mondiali» in Concilium 22 (1986) 133-144; qui 138-139].

[57] I nomi fatti sono Maurier, Puthiadam, Thompson, e lo stesso Knitter.

[58] Sono citati come rappresentanti Ruether e Pawlikowski.

[59] P. Knitter, Una terra molte religioni. Dialogo intereligioso e responsabilità globale, Cittadella, Assisi 1998.

[60] Lo dimostrano le obiezioni ricorrenti sul Logos mosse a Dupuis, che lo stesso autore riporta puntualmente (cf. il citato articolo «Il pluralismo religioso rivisitato»).

[61]«Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (EV/12, 562).

[62]L'enciclica sulla missione condensa questo pensiero ribadendo due fondamentali principi: «La mediazione della chiesa è da intendere, in maniera derivata, come applicazione storica della mediazione di Cristo. Nel senso che la salvezza è sempre possibile anche al di fuori dell'appartenenza esplicita istituzionale alla chiesa, e tuttavia, giacché ogni salvezza passa attraverso Cristo e dal momento che la chiesa ne costituisce la mediazione storicamente efficace, ogni salvezza passa - sebbene misteriosamente - anche attraverso il sacramento universale della salvezza voluta da Cristo» (EV/12, 568).

[63]LG 9: EV/1, 309.

[64]L. Sartori ha scritto di questo nuovo rapporto in questi termini: «Non rapporto secco fra un “sì” (“sì, solo la Chiesa cattolica è vera Chiesa, sacramento di salvezza”) e un “no” (“no le altre non sono vere Chiese”); ma un rapporto fra ciò che può dirsi “integrale” (cattolico) e ciò che invece resta ancora “parziale» [Jesus 8 (1986/10) 9]. Sull'argomento lo stesso teologo è ritornato con sistematicità in L. Sartori, L'unità della Chiesa. Un dibattito e un progetto, Queriniana, Brescia 1989, cf. particolarmente pp. 26-38].

[65] Redemptoris Missio, n. 20, EV /9, 583-584 : «Ci sono, poi, concezioni che di proposito pongono l'accento sul Regno e si qualificano come “regno-centriche”, le quali dànno risalto all'immagine di una chiesa che non pensa a se stessa, ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il Regno. [...] Da un lato, promuovere i cosiddetti “valori del Regno”, quali la pace, la giustizia, la libertà, la fraternità; dall'altro, favorire il dialogo fra i popoli, le culture, le religioni, affinché in un vicendevole arricchimento aiutino il mondo a rinnovarsi e a camminare sempre più verso il Regno. Accanto ad aspetti positivi, queste concezioni ne rivelano spesso di negativi. Anzitutto, passano sotto silenzio Cristo: il Regno, di cui parlano, si fonda su un “teocentrismo”, perché - dicono - Cristo non può essere compreso da chi non ha la fede cristiana, mentre popoli, culture e religioni diverse si possono ritrovare nell'unica realtà divina, quale che sia il suo nome. Per lo stesso motivo esse privilegiano il mistero della creazione, che si riflette nella diversità delle culture e credenze, ma tacciono sul mistero della redenzione. Inoltre, il Regno, quale essi lo intendono, finisce con l'emarginare o sottovalutare la chiesa, per reazione a un supposto “ecclesiocentrismo” del passato e perché considerano la chiesa stessa solo un segno, non privo peraltro di ambiguità».

[66] Cf. soprattutto cap. III.

[67] Ivi, n. 28: EV/9, 604.

[68] Ivi.

[69] Ivi, 605.

[70] Ivi, n. 29: EV/9, 606: «Così lo Spirito, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8) e “operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, che “riempie l'universo abbracciando ogni cosa e conosce ogni voce” (Sap 1,7), ci induce ad allargare lo sguardo per considerare la sua azione presente in ogni tempo e in ogni luogo. È un richiamo che io stesso ho fatto ripetutamente e che mi ha guidato negli incontri con i popoli più diversi. Il rapporto della chiesa con le altre religioni è dettato da un duplice rispetto: “Rispetto per l'uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e rispetto per l'azione dello Spirito nell'uomo”. L'incontro inter-religioso di Assisi, esclusa ogni equivoca interpretazione, ha voluto ribadire la mia convinzione che “ogni autentica preghiera è suscitata dallo Spirito Santo, il quale è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo”».

[71]Commissione Teologica Internazionale, «Il cristianesimo e le religioni», in Il Regno-Documenti 42 (1997/3) 75-89, qui 77 (punto I.4). L’ultima precisazione fa riferimento al testo Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Dialogo e annuncio, n. 27.

[72] Costituisce un argomento conciliare classico l’affermazione che Dio non fa mancare agli uomini i suoi mezzi di illuminazione e di salvezza, anche attraverso le religioni di altri popoli: «Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina ogni uomo, perché abbia finalmente la vita» (LG 16, EV/1, 326). Le religioni «posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono tutte cosparse di innumerevoli "germi del Verbo" e possono costituire una autentica "preparazione evangelica", per riprendere una felice espressione del concilio Vaticano II tratta da Eusebio di Cesarea» (AG 53, EV/1, 1650).

[73]Riprendiamo questa precisazione, facendo tesoro di quanto asserito anche dalla «teologia del processo». In particolare J. Cobb ha enunciato la relazione tra le vie delle religioni e la Via che è Cristo, insistendo soprattutto sull’atteggiamento spirituale di chi non ha paura del nuovo, ma sa leggerlo nella luce di Cristo: «Come alternativa a queste proposte io propongo la via della trasformazione creativa, cioè La Via che è Cristo. Ciò che voglio mettere in evidenza è che seguire questa Via non significa affidarsi ad un corpo stabilito di credenze, atteggiamenti e azioni. La fede cristiana è fiducia nella via anche se non sappiamo capire dove essa conduce. La fede cristiana è la volontà di abbandonare la sicurezza di modelli stabiliti per affrontare nuove provocazioni. Credenze estranee, con i loro atteggiamenti e le loro pratiche, che hanno una qualche apparenza ali verità e di virtù, sono le più importanti tra queste provocazioni» [J. Cobb, «Il cristianesimo è una religione?», in Concilium 16 (1980/6) 955-971, qui 968].

[74]Così ad esempio: «Si incontrano pertanto in Gesù Cristo le due vie, provenienti dall'alto e dal basso, che Dio aveva tracciato nell'Antico Testamento per preparare la sua venuta tra gli uomini: [...] dall'alto gli appelli sempre più vicini alla sua Parola, al suo Spirito, alla Sapienza, che discendono nel nostro mondo; dal basso, i lineamenti sempre più precisi di un Messia, re di giustizia e di pace, di un umile servo sofferente, di un misterioso figlio d'uomo, che risalgono e fanno risalire con lui l'umanità verso Dio» (Bibbia e Cristologia, EV/9, 1321).

[75] Cf., tra l’altro, GS n. 22 EV/1 1385-1390 e Redemptoris missio, n. 6 EV/12, 564.

[76] «Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo lacune, insufficienze ed errori» (Redemptoris missio, 55 EV/12, 656).

[77]Cf. la parte III del già citato documento della Commissione Teologica Internazionale e le conclusioni alle quali perveniva già precedentemente Dupuis, che sviluppava la sua analisi interrogandosi sull'universalità di Gesù Cristo e del Regno di Dio, per arrivare, solo in un terzo passaggio, all'universalità della chiesa. Cf. J. Dupuis, «Universalità del Cristianesimo. Gesù Cristo, il Regno di Dio e la Chiesa», in M. Farrugia (a cura di), Universalità del cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996,19-57. Cf. anche J. Dupuis, «L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni», in Synaxis 12 (1994) 133-165.

[78] Paul Tillich (1886-1965) è uno dei più noti teologi protestanti. Di questo Teologo di frontiera, come egli indicava se stesso, è particolarmente interessante è il metodo cosiddetto della correlazione [cf. R. Marlé, «Tillich Paul», in P. Poupard (diretto da), Grande dizionario delle religioni, Cittadella - Piemme, Assisi - Casale Monferrato 1990, 2141-2142].

[79]Appare di grande interesse la sintesi qui riprodotta: 1) Tutte le religioni contengono «forze di rivelazione e di salvezza»; 2) l'uomo le può ricevere solo nelle effettive condizioni di limitatezza in cui versa, dovute alla sua natura, cultura e storia; 3) ogni rivelazione contiene spazio sufficiente per una critica che può muovere da diverse angolazioni, ma che tende alla purificazione della religione stessa (questa critica può essere di natura mistica, profetica o secolare); 4) la storia delle religioni può contenere un avvenimento centrale, partendo dal quale si rende possibile una «teologia universale» (Cf. J. Vidal, «Tillich e Eliade», in Grande dizionario ..., cit., 2143-2146).

[80]Ivi.

[81] Su questo punto si pensi al fatto che una reale forma di profezia è possibile, secondo la tradizione cristiana, anche tra i pagani. Cf., a riguardo, quanto scritto da Dupuis, che formula una sua posizione sulla rivelazione nelle altre religioni in questi termini: «La nostra proposta è così riassumibile: la personale esperienza dello Spirito dei veggenti, in quanto costituisce, per provvidenza divina, un’apertura personale di Dio alle nazioni, e in quanto è stata documentata in maniera autentica nelle loro sacre scritture, è una parola personale che Dio rivolge ad esse tramite intermediari di sua scelta. Questa parola può essere chiamata, in un senso reale, “una parola ispirata da Dio”, a patto che non si dia un’interpretazione troppo rigorosa del concetto e che si tenga sufficientemente conto dell’influsso cosmico dello Spirito Santo» (J. Dupuis, Verso una teologia..., cit., 335).

[82] Ivi, 337-338.

[83] Abbiamo trovato conferma sull’utilità di mantenere ben distinti i piani della ricerca in alcune indicazioni di K. Rahner. Indagando in che mondo fosse da intendere il rapporto di Gesù Cristo con le altri religioni, il teologo scrive: «Sottolineiamo anzitutto che qui si tratta di una riflessione dogmatica e non di una riflessione attinente la storia o la fenomenologia della religione. Il teologo dogmatico cristiano in questa questione non può sostituire lo storico delle religioni, che lavora aposterioricamente, già per il fatto che le sue specifiche e vincolanti fonti di fede, nel loro divenire all’interno dell’Antico e del Nuovo Testamento e persino nelle dichiarazioni del magistero ecclesiastico basate su di quelli (con la parziale eccezione della Dichiarazione del Vaticano Il sulle religioni non cristiane), sono sorte senza un contatto diretto con la stragrande maggioranza delle religioni non cristiane e perciò non hanno elaborato in alcun modo il materiale storico-religioso che viene in taglio nella nostra questione. A ciò si aggiunge che tutte queste fonti, nella misura in cui si occupano da lontano e in genere delle religioni non cristiane, per motivi comprensibili lo fanno in maniera difensiva e apologetica e quindi nel complesso sono assai poco utilizzabili per la nostra questione. Di conseguenza le riflessioni presentate qui da un dogmatico sono aprioriche nei confronti del compito dello storico delle religioni che - nel limite del possibile - intende scoprire a posteriori Cristo nelle religioni non cristiane, e per costui possono solo essere qualcosa come un’indicazione provvisoria che forse può guidare e acuire il suo sguardo in ordine a un compito che il dogmatico non gli toglie di mano» K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit., 401; cf. anche ivi, 411ss.

[84] Nel sua appassionata ricerca di dialogo con le altre religioni, Dupuis ha, tra l’altro, frasi come queste, che possono prestare il fianco ai suoi accusatori: «La prima cosa da dire è che è necessario smettere si parlare di «pretese assolute» del cristianesimo a proposito di Gesù Cristo. Tillich aveva ragione di protestare contro l’autoassolutizzazione delle religioni, cristianesimo incluso. La ragione è semplice, ed è già stata citata: “assoluto” è un attributo dell’Ultimamente Reale; soltanto l’Assoluto è assolutamente. Una volta eliminate le improprietà linguistiche, rimane tuttavia la pretesa cristiana riguardo a Gesù Cristo così come viene tradizionalmente intesa: la fede in Gesù Cristo non consiste semplicemente nell’aver fiducia che egli è la via della salvezza “per me”; consiste nel credere che in lui e per mezzo di lui trovano la loro salvezza il mondo e l’umanità. Nulla meno di questo è sufficiente a rendere giustizia alle massicce affermazioni del Nuovo Testamento. Ma è qui che appare necessaria, nell’attuale contesto pluralistico e, non ultimo, in vista del dialogo interreligioso, una nuova ermeneutica del Nuovo Testamento» (Ivi, 395-396).

[85] Sulle implicanze filosofiche e culturali più generali nell’utilizzo di concetti che sono stati espressione di un «classicismo» di pensiero eurocentrico, che però deve oggi fare i conti con una concezione, che evitando il relativismo recuperi il valore «trans-culturale» di elementi di verità, di santità e - aggiungiamo di profezia -, presenti anche altrove, cf. S. Muratore, «Il superamento del classicismo e del relativismo quale presupposto e epistemologico del dialogo interreligioso», in M. Farrugia (a cura di), Universalità del cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 141-148. L’autore scrive tra l’altro: «Il presupposto di questo esercizio veramente ecumenico dell'intellettualità teologica è la convinzione che nel cristianesimo, come pure nelle altre tradizioni culturali e religiose, siano presenti e operanti elementi trans-culturali, tali cioè da poter essere ritrovati o trasposti in ogni cultura e in ogni tradizione, a garanzia di uno sviluppo autentico dell'uomo. Se infatti non si vuole leggere l'intero processo storico umano in termini di forza, vale a dire, in termini di selezione e sopravvivenza del più forte, c'è necessità di fare appello al valore-verità e, più in generale, a un orizzonte interpretativo di trascendenza, che consenta di leggere in maniera unitaria la storia degli uomini. Il pericolo insito nel superamento del classicismo è, infatti, quello relativistico e sincretistico. Se però è possibile individuare quadri di riferimento interpretativi che non siano, nella loro globalità, le stesse culture e tradizioni, allora diventa possibile pro-spettare un dialogo che non si riduce a un puro gioco di forza (una cristianizzazione o una islamizzazione imposta, magari in maniera subdola), ma promuova un generalizzato processo di crescita e di trasformazione di tutte le tradizioni culturali, orientato verso il perseguimento di obiettivi comuni, ampiamente condivisi. Questo imparare a co-evolvere verso obiettivi condivisi è quanto mai urgente per evitare non solo che l'incontro tra gli universi religiosi dell’umanita si trasformi in dura contrapposizione, ma che le tendenze classiciste dei saperi scientifici e tecnologici non sortiscano effetti dirompenti nei confronti delle stesse culture tradizionali» (ivi 145).

[86] L’espressione «cristianesimo anonimo» era stata adoperata da K. Rahner, ma è sempre da intendersi all’interno di quella distinzione tra piano dogmatico e piano storico-fenomenologico accennato in una nota precedente, in un saggio antecedente il Vaticano II: K. Rahner, «Cristianesimo e religioni non cristiane», in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Paoline, Roma 1965, 533-572. Per il dibattito che ne è seguito cf. B. Sesboüé, «K. Rahner et les “chrètiens anonimes”», in Etudes 361 (1994) 521-535.