Giovanni Mazzillo <info
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Il Sud, come soggetto
ecclesiologico
Il
problema fondamentale intorno a cui ruota il presente contributo è
l'identificazione del Sud come tema ecclesiologico. Ciò significa che esso ha
necessariamente presenti più aree di riferimento e per giunta molto
diversificate tra loro. In breve, essendo qui in gioco la definizione del Sud
o, come altri preferiscono del Mezzogiorno, e la sua utilizzabilità come
soggetto ecclesiologico, le discipline intersecate si polarizzano intorno a due
referenze principali: a) l'identità socio-antropologica di un'entità
storico-geografica (il Sud) e b) il valore ecclesiologico di quest'entità
rivisitata con criteri teologici.
Sia
la prima che la seconda polarità presentano dei nodi problematici.
Sull'identificazione del Sud sarà utile ricordare che già la definizione del
soggetto in gioco, e persino la stessa terminologia adottata, non appare
affatto pacifica. A seconda che si scelga, ad esempio, il termine Mezzogiorno o
il termine Sud, si opta per un determinato modulo di lettura, anziché per un
altro mentre nella ricerca di una configurazione del Sud si può optare per
linee interpretative diverse e talora contrapposte, che vanno da quella
geografico-territoriale, a quella prevalentemente storico-culturale, a quella
socio-economica o a un cocktail di tutte queste messe insieme. Ma
ammesso che si riesca con una certa coerenza a identificare il soggetto di cui si parla, occorre poi, o
parallelamente procedere a una sua qualificazione ecclesiologica. Cosa che
alcuni potrebbero scartare già in partenza, ritenendo una simile
operazione un'opzione acritica e
scientificamente immotivata. E, infine, anche accolta la possibilità di un
simile travaso, occorre ancora ulteriormente scegliere il tipo di ecclesiologia,
e in definitiva, il taglio e l'impostazione teologica che si intende dare al
discorso.
Siamo
consapevoli di tutte queste difficoltà, volendo avvertire sugli spinosi
problemi che si vanno a toccare (alcuni dei quali veri e propri gineprai), ma nonostante
ciò osiamo avventurarci in alcune congetture, alle quali cercheremo di dare
però il sostegno di un'essenziale documentazione, congetture che dovrebbero
essere qualcosa di più che ipotesi, per approdare almeno a questa tesi:
il Sud, o come noi preferiamo, il Mezzogiorno, è non solo soggetto
problematico per la coscienza ecclesiale italiana, ma costituisce anche una
delle più rilevanti sfide etiche che mettono a dura prova la credibilità di un
nuovo impianto etico che non si riduca ad essere puro e semplice lessico
teologico.
Procedendo
per ordine, individueremo tra le diverse ermeneutiche proponibili quella della povertà
come dato significativamente convergente tra la riflessione teologica e quella
sociologica (1 punto), per passare all'identificazione del
Mezzogiorno come sfida teologica (2 punto), in modo da approdare al
significato dell'essere oggi popolo di Dio in periferia (3 punto).
Molteplici
fattori e non pochi autori hanno sollevato il problema della povertà come
problema teologico, mediandolo principalmente attraverso il tema del povero,
in quanto tema biblico-sistematico che coinvolge la credibilità
dell'intero popolo di Dio[1].
È un tema che passa trasversalmente alla Scrittura, nelle sue molteplici e
reciproche accezioni di povertà materiale, sociale, spirituale, esistenziale. È
un argomento che rimane ancora centrale nella riflessione dei padri della
chiesa, ha una notevole importanza nella cristianità medioevale, riemerge,
infine, in epoca contemporanea, come problema dei diritti umani e come opzione
preferenziali per gli ultimi e liberazione degli oppressi.
È
nota quella posizione sedicente culturale, ma che in realtà è un pregiudizio,
di chi ritiene che il cristianesimo favorisca per sua natura l'estensione e la
perpetuazione della povertà nel mondo, a motivo dell'alone mistico con cui l'ha
rivestita. È un luogo comune ancora diffuso ed ha come oggetto la religione in
quanto tale, oppure il cattolicesimo o alcune sue frange minoritarie.
Se,
per citare il solito esempio, Max Weber ha pensato di mettere in rapporto
economia e religione, fino a scorgere l'origine del capitalismo nell'etica
calvinista, non si può dire, che per il resto sia stato immune da
interpretazioni arbitrarie soprattutto in campo biblico, al fine di suffragare
la sua tesi. Questa recita, in sintesi, che la ricchezza è un premio e un segno
della predilezione di Dio e la povertà è un segno della sua maledizione[2].
In
realtà l'unico appiglio a una simile lettura potrebbe essere nella letteratura
biblica sapienziale, che in qualche passo, mettendo in rapporto laboriosità e
ricchezza, considera la povertà colpevole[3], oppure vede la ricchezza come segno di benedizione divina[4]. Sono brani sapienziali, spesso in forma proverbiale che più che dare
una valutazione teologica, fotografano una situazione sociale: il potere del ricco e il disprezzo verso il
povero. Ma da qui non si può dire che si tratti di disprezzo di Dio[5], né che si valuti la povertà solo come effetto di disimpegno[6].
Al contrario, quando il tema diventa teologico, la Bibbia in genere riprende la
critica profetica che condanna sempre lo sfruttamento e l'oppressione. Passando
dalla povertà come indigenza del singolo alla povertà come fenomeno sociale,
oggi diremmo strutturale, i profeti denunciano l'ingiustizia e la mancanza di solidarietà come causa prima della
povertà[7].
Dio non maledice, ma ha a cuore i poveri, fino a rovesciare talora la loro
situazione, facendo precipitare i ricchi nell'indigenza[8].
Egli ascolta il grido dei suoi poveri perché li ama[9].
Ciò
che si può dire in estrema sintesi è che la Bibbia attesta che Dio prende a
cuore la sorte del povero. È un'idea non esclusivamente profetica, ma che si
rinviene anche in testi di indole sapienziale[10],
dove tutto sembra ruotare intorno al principio cardine dell'antropologia
biblica: “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del
misero lo onora” (Pr 14, 31). È un principio che ha numerose variazioni sul
tema anche nei Salmi[11],
oltre che nei libri dove Dio appare espressamente il liberatore degli oppressi
(Esodo ed altri libri storici) e, ovviamente in tutti i testi dei profeti[12].
Tutto questo contraddice quella tesi sociologica che non prende in considerazione
la profezia come denuncia sociale e come giudizio teologico sul tema
della ricchezza, ma si accontenta di esaminarla nei termini della sua funzionalità sociale[13].
Ciò
non basta e sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono unanimi nella critica
sociale verso gli arricchiti indifferenti ai problemi dei poveri. Per fare
qualche rapido riferimento anche al Nuovo Testamento e alle più recenti
controversie sulla materia, occorre ricordare che alla povertà come contenuto
profetico sono stati collegati direttamente il messaggio e la prassi di Gesù e
così pure l'intero tema della libertà e della liberazione cristiana. Una
materia su cui non sono mancate precisazioni in questi nostri anni e che appare
ancora in movimento[14].
Intanto occorre ricordare che non
mancano quelli che cercano di spiritualizzare la povertà come virtù morale e di
vedere nei poveri del vangelo solo degli spiriti aperti a Dio[15],
mentre altri vanno nella direzione opposta e pensano di ravvisarvi un movimento
di mendicanti che si sarebbero accodati a Gesù[16].
Ci
sono insomma tesi contrastanti, riguardo al Vangelo e all'intera Bibbia, che
spiritualizzano la povertà, facendone solo una virtù interiore, o la riducono
alla pura povertà materiale. E tuttavia si può oggi asserire con serenità che
il concetto biblico-teologico del povero abbraccia una realtà complessa, ma non
per questo generica. Include i differenti aspetti di minorità fisica, spirituale,
economica, morale e sociale da cui è colpito un essere umano. Il povero è
l'infelice, l'indifeso, l'uomo o la donna che subiscono discriminazioni, il
peccatore disprezzato e il bambino emarginato[17].
In ogni caso è una realtà precisa alla quale Gesù si indirizza e che Dio sembra
prediligere.
Alla
fine non sarà difficile convenire che la Bibbia dà un giudizio profetico sulla
povertà, che è nello stesso tempo è denuncia sociale ed è anche opzione
preferenziale da parte di Dio non per la povertà in sé, ma per quanti
soffrono e gemono a causa di essa. È di per sé opzione per i poveri, e non
per la povertà. Quando anche quest'ultima è assunta da Gesù, come dai suoi
seguaci, ciò avviene per una scelta radicale verso Dio e per solidarietà verso
i diseredati. Per i cristiani non può essere diversamente. Sembra
teologicamente corretta l'espressione che dice: il povero è il primo dopo
l'Unico, perché proprio il povero è il primo (da scegliere, da
amare, da servire) dopo Dio, che è l'Unico (da adorare e ascoltare)[18].
Così come sono stati riconosciuti indiscutibilmente validi i temi teologici
centrali dell'ermeneutica della teologia della liberazione[19],
pur con la comprensibile avvertenza a non lasciare mai assorbire il teologico
dal dato puramente sociologico[20].
Si tratta infatti di una situazione ancora in fieri, i cui esiti non
sono ancora del tutto prevedibili[21].
Ma
per ricondurre espressamente il discorso al nostro tema, in maniera
estremamente sintetica potremmo dire se il povero è “il primo dopo l'Unico”,
anche il Mezzogiorno, in quanto realtà povera e realtà di poveri, richiede
tutto il nostro impegno, perché diventa il nostro primo luogo teologico,
dopo e in forza quell'unico atto di adorazione e di ascolto di Dio
rivelatosi a noi in Gesù Cristo. Ci sentiamo spinti a ritenere che proprio la
rilettura della povertà nella prospettiva profetico-evangelica, possa
costituire una sorta di criterio euristico per un approccio pluridisciplinare
al Mezzogiorno, facendo da cerniera che congiunge l'approccio sociologico e
quello teologico, pur lasciando entrambi nella loro rispettiva competenza.
Questo
nuovo modulo di lettura teologica della realtà, che utilizza la scienza non
teologica non in maniera subalterna, ma riconoscendone il valore nelle sue
intrinseche argomentazioni, è ormai praticato in tutti gli interventi
magisteriali sulle situazioni storico-sociali di rilievo. Questo metodo non
costituisce oggi un problema, mentre, ad esempio, solo qualche decennio fa
sarebbe stato impensabile il ricorso, in documenti ufficiali della chiesa, a
categorie sociologiche, e per giunta in
odore di marxismo, al fine di spiegare il crescente e interdipendente divario
tra Nord e Sud. È un divario che viene spiegato con l'adozione di un criterio
specificamente sociologico, quello dell'interdipendenza tra centro e periferia.
Sicché per ciò che concerne il Sud, i
vescovi italiani hanno dichiarato di essere coscienti
“che il Mezzogiorno d'Italia non è una realtà
omogenea, sia in termini di contesti socio-culturali, sia riguardo ai rapporti
di dipendenza economica tra centro e periferia che caratterizza le aree con
sviluppo anomalo”[22].
E,
rincarando la dose, hanno aggiunto:
“Occorre anzitutto prendere
coscienza che la situazione del Mezzogiorno non è il frutto di una fatalità
storica, ma di precise causalità. C'è stata e continua a sussistere una
dipendenza economica del Mezzogiorno da logiche di tipo capitalistico e
produttivistico di grandi apparati industriali e finanziari, italiani ed
europei, che hanno finito per condizionare le stesse scelte di politica
economica”[23].
Sicché viene riconosciuto
non solo il divario tra Nord e Sud ma anche il fatto che non è il frutto di una
fatalità, ma la conseguenza di rapporti di dipendenza. Al punto di evocare quel
fenomeno che nella sociologia è noto come teoria della dipendenza,
anch'essa un modello esplicativo di quel vasto e complesso fenomeno che vede
contrapposti ricchezza e povertà, concentrazione di risorse in alcuni luoghi ed
immiserimento, disoccupazione, emarginazione e degrado in altri. Una forbice
che si allarga sempre più, ma che rimane attaccata allo stesso punto che le fa
da fulcro: l'economia di mercato lasciata a se stessa[24].
La
critica al liberismo e all'economia di mercato è un atto coraggioso, anche
perché, pur senza menzionarlo esplicitamente, prende una certa distanza dal
modello base che è il modello dello sviluppo. In forza di esso si è finora
generalmente ritenuto che solo una sua difettosa applicazione non ha recato
vantaggi economici per tutti. Sarebbe bastato però applicarlo più correttamente
e l'espansione economica avrebbe portato benefici per tutti. I sostenitori di
questo modello economico sono generalmente soggetti appartenenti ad aree
geografiche supersviluppate o comunque sviluppate. Guardano in genere alle aree
depresse con una sorta di compatimento, rammaricandosi che l'indolenza,
o la mancanza di iniziativa o gli sperperi non abbiano consentito che lo
sviluppo vi attecchisse.
Il
modello alternativo insiste invece su un difetto non solo funzionale ma strutturale
dello stesso sviluppo. Parte dall'osservazione storica, difficilmente
smentibile, che il tempo già intercorso, dall'affiorare del problema del
divario sviluppo-sottosviluppo ad oggi, non solo non ha colmato la distanza tra
le aree sviluppate e quelle depresse, ma l'ha tanto aggravata, da renderla nei
fatti ormai incolmabile.
Il
problema non è più di dosaggio o di migliore distribuzione di sviluppo, ma piuttosto
il riconoscere fondamentalmente sbagliato il modello. Se ad esso si propongono
ormai da alcuni drastici correttivi, che se fossero realmente applicati,
renderebbero quel modello irriconoscibile, altri lo contestano radicalmente.
Alcuni ritengono fondamentalmente amorale (e quindi immorale) l'ideologia di
uno sviluppo ancorato alle sole leggi dell'autoespansione e quindi propugnano
non più la tradizionale qualificazione etica dello sviluppo, ma una sua
drastica revisione. Arrivando giustamente a capovolgere l'abituale gerarchia
dei termini in gioco. Questa metteva al primo posto i diritti dell'economia (la
forma concreta dell'autoespansione dello sviluppo) e, nel caso ancora ottimale
di una certa economia illuminata, collocava al secondo posto i diritti
dell'uomo.
In
ogni caso la tendenza teologica attuale è di affermare in linea di principio
che vengono prima i diritti dell'uomo e
poi quelli dell'economia. Parafrasando, si dovrebbe affermare: “prima i diritti degli impoveriti e poi quelli dello
sviluppo!” Ma una frase simile, che pure è la logica conseguenza del discorso,
sarebbe sottoscritta senza problemi? Senza rendersi conto che ciò vuol dire
misconoscere la validità del modello base in questione? Riteniamo che i tempi
faranno maturare posizioni più lineari e più chiare rispetto alle scelte
economiche e ai suoi soggetti storici (di fatto quanti detengono il potere
decisionale e i mezzi finanziari), ma ciò dovrebbe coerentemente significare
anche la fine del mito dello sviluppo in quanto tale, almeno nelle tante forme
in cui ancora sopravvive nella mentalità e in alcune analisi anche nel nostro
ambito ecclesiale e teologico.
Questa
revisione critica del modello di sviluppo tradizionale potrà avvicinarsi a
quella ad essa alternativa, che è conosciuta come teoria della dipendenza
e che finora non era stata presa in considerazione soprattutto a motivo delle
sue origini e che pur ha i suoi sostenitori prevalentemente nelle aree della
povertà di massa, nelle regioni del Sud del mondo, dette anche la periferia del
nostro pianeta. Essa parte dal presupposto che povertà e ricchezza
sviluppo e sottosviluppo, centro e periferia, e di conseguenza Nord e Sud non
sono il risultato di una qualche distorsione dello sviluppo, né sono
dovuti a cause estrinseche, ma sono piuttosto la strutturale conseguenza di una
particolare (quanto ingiusta) impostazione della distribuzione della ricchezza.
Gli
autori estendono il concetto di dipendenza anche ai singoli paesi e all'economia all'interno dello
stesso paese. Chiamando "centro" tutti i fattori che condizionano lo sviluppo (o il sottosviluppo) dei
settori da essi dipendenti, e chiamando "periferia" ciò che é condizionato
dai primi, si fa in genere notare come ci sia una stretta correlazione tra la
crescente integrazione transnazionale di alcuni settori e la conseguente
crescente disintegrazione di alcune nazioni. Se i primi settori entrano sempre
più nella sfera del “centro”, gli altri diventano sempre più periferici
rispetto ai primi. Il rapporto di dipendenza centro-periferia, che ha la sua
manifestazione macroscopica a livello mondiale nello squilibrio Nord-Sud[25],
si ritrova anche tra le stesse nazioni del Nord come in quelle del Sud, così
come è presente all'interno di ogni singola nazione. Con una differenza: nei
paesi sviluppati l'area del benessere
sembra superiore a quella della povertà (anche se la valutazione dipende
sempre dai parametri di giudizio adottati), nei paesi non sviluppati l'area
della povertà è di gran lunga maggiore di quella del benessere, i cui
beneficiari sono un gruppo sproporzionatamente piccolo rispetto ai poveri.
Sicché si arriva a un sistema che nei centri fa distribuire più ricchezza, e
che nelle periferie, invece, genera
ricchezza per pochissimi e povertà per la maggioranza della popolazione[26].
Ciò
crea lo sviluppo “incompiuto, distorto, dipendente e frammentato”
di cui è diventata oggi cosciente anche la nostra comunità ecclesiale[27].
Ciò significa nei fatti la “dipendenza”.
Gli
economisti, anche quelli più illuminati, dei paesi ricchi accentuano, al
contrario, come cause della povertà di massa o quelle di natura
climatico-geografica (climi e terreni non utili alla coltivazione, suoli e
sottosuoli poveri di risorse etc.) o quelle antropologiche (indolenza delle
popolazioni indigene, culture di tipo
passivo, fatalismo etc.), oppure quelle di natura politico-sociale
(l'adattamento dei poveri agli aiuti che provengono dall'esterno, l'incetta
degli stessi sovvenzionamenti da parte di minoranze già ricche etc.)[28]. Ma non hanno mai messo in discussione il modello fondamentale
dell'economia di mercato legata alla loro concezione di sviluppo. È ciò che
invece hanno fatto quanti, vivendo nelle aree della povertà, hanno potuto
toccare con mano i limiti strutturali di questo tipo di economia[29] e hanno analizzato più a fondo
i rapporti di dipendenza, fino a interpretarli nel modello già accennato e che
oggi affiora anche nei testi magisteriali.
Il
modello centro-periferia non solo viene qui da noi affiancato a quello più
generale riguardante il rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, ma ne tenta una
lettura all'interno della teoria della dipendenza. La scelta si giustifica
anche a motivo di dati precisi, oltre che dei riferimenti finora fatti. Parte
dal presupposto che le ricerche condotte in materia dalla CEPAL (Commissione
Economica per l'America Latina, operante dal 1949 all'interno delle Nazioni
Unite) siano le più attendibili non solo per l'autorevolezza del soggetto
transnazionale, ma anche per il fatto che non sono il risultato di un singolo
ricercatore[30]. Nascono,
al contrario, da una ricerca sul campo, condotta con strumenti più adeguati e,
per questa ragione meno ideologizzati di quelle. Si differenziano infatti dai
due modelli considerati come base di tutti gli altri e riconducibili o
all'indirizzo strutturale-funzionalistico[31]
o a quello vetero-marxista[32]. Il primo indirizzo è in tutti i modelli di tipo economico-liberale e
generalmente dà per scontata una struttura economica duale, avente un'economia
attiva e produttiva da un lato (nazioni ed aree supersviluppate) e sacche periferiche passive e improduttive
dall'altro (aree depresse), fino a parlare di un “circolo vizioso della
povertà”[33]. Il secondo modello è stato superato
dalle analisi come quella già citata di T. Dos Santos, e muove dalla
convinzione che il sottosviluppo non è che l'altra faccia dello sviluppo
capitalistico[34], con
approfondimenti condotti, come si diceva, a livello internazionale, fino ad
arrivare a parlare di uno “schema multilineare”[35]
e a studiare il rapporto tra produzione e formazione sociale[36].
Ma
è proprio la dipendenza che riapre il problema teologico. In quanto fatto
strutturale, che genera povertà ed emarginazione, degrado ed indifferenza alle
sorti dell'altro, la dipendenza costituisce una sfida teologica, perché si pone
orizzontalmente contro quel progetto salvifico, storicamente incarnato nel
popolo di Dio, che vuole invece un popolo di fratelli, solidalmente convocati
dalla Parola di Dio e che esige l'opzione preferenziale per i più poveri.
Considerando
più a fondo la dipendenza si potrà, infatti, facilmente convenire che è una
delle strutture in cui si manifesta la mancanza di solidarietà tra gruppi umani
che pur tuttavia interagiscono tra loro. La natura peccaminosa di questa
situazione appare ancora più evidente, se si considera che il dislivello è tra
popolazioni che, per la gran maggioranza, si richiamano ad una comune fede
cristiana. E per quel che concerne il loro essere chiesa si richiamano ad una
ministerialità che è stata indicata come “ministerialità di servizio e di
liberazione”[37], un compito
che se spetta ai soggetti viventi nella periferia, impegna parimenti i fratelli
di fede e di comune cittadinanza civile ed ecclesiale che vivono invece nei centro.
Si deve allora più giustamente riparlare di “rilevanza ecclesiologica della
“questione meridionale”[38],
data la natura comunionale della vita ecclesiale e la centralità della
solidarietà come criterio di ortodossia e di ortoprassi della stessa fede
cristiana[39]. A fronte
della dipendenza che caratterizza negativamente la situazione italiana e ogni
situazione di dislivello socio-economico, sembra oggi diventare sempre più
chiaro che solo la solidarietà può costituire una leva etica efficace per
un'inversione di tendenza nell'attuale indifferenza dei più ricchi nei
confronti dei più poveri[40].
È quello stesso ed unico principio al
quale ci si può appellare per chiedere il condono del debito estero, che
succhia ormai il sangue dei più disperati nei paesi del terzo mondo[41].
È ancora la solidarietà che può costituire la risposta eticamente efficace e
cristianamente credibile a quella dipendenza che non è ormai solo nelle
teorizzazioni dei sociologi, ma sotto gli occhi di tutti. Infatti la dipendenza
implica una correlazione diretta tra la ricchezza e la povertà, sia a livello
di rapporti internazionali, che a livello di rapporti all'interno di una
singola nazione[42].
È
stato scritto della povertà come sfida di Dio e che i poveri sono un
luogo teologico decisivo. Essi mettono alla prova la fede che hanno nel Dio di
Gesù Cristo quanti si richiamano a lui[43],
la loro credibilità, la concretezza del loro amore. Si può parimenti affermare
che se il Dio in cui la chiesa crede è il Dio dell'uguaglianza e della
comunione, il Dio della solidarietà e del servizio al mondo, se le sue gioie e
le sue speranze sono quelle di tutti
gli uomini e dei poveri in primo luogo[44],
allora anche il Mezzogiorno è una sfida per la chiesa, come lo è ogni periferia
ed ogni Sud del mondo. Infatti anche il nostro Sud non esiste come fenomeno in
sé, come un'isola sperduta nell'oceano della storia, una sorta di Rapa-nui del
mediterraneo. Il Mezzogiorno, fenomeno italiano, si comprende in un contesto complessivo di una particolare
struttura asimmetrica che ha diviso il mondo in aree del benessere ed aree
della povertà. Pur con le dovute proporzioni, sempre da evidenziare, perché anche la povertà ha una
sua gerarchizzazione, il Sud d'Italia fa parte di una periferia in quanto
risultato di un rapporto di dipendenza che va ben al di là della nostra area
geografica.
Alla
luce di tutto il discorso finora fatto si può comprendere come per capire il
Mezzogiorno possa e debba essere tentata una strada ermeneutica che pur non
ignorando i diversi strati che compongono questa complessa questione, deve
sempre ripartire dai suoi caratteri politico-sociali, senza tuttavia trascurare
gli elementi più tipicamente storici e quelli antropologici. È una contestualizzazione che non sfugge
comunque a quella interdipendenza esistente tra concentrazione della ricchezza
al centro e dilatazione della povertà alla periferia, ma cerca di comprenderla
in sistema non più monocausale.
Si
possono registrare alcuni tra i tanti e più disparati approcci finora tentati
per definire il Mezzogiorno, diventato ormai una voce ben precisa dei
dizionari di sociologia[45].
Questi non tralasciano di sottolineare che si tratta di un fatto tipicamente
italiano, databile fin dall'epoca dell'unità d'Italia e assurto a
"scoperta sociologica" già nelle prime inchieste parlamentari, fino a
diventare vera e propria "questione meridionale" nell'opera di
pensatori o di veri e propri politici[46].
La problematica appare inizialmente condizionata da premesse scientiste o
positiviste che viziavano i primordi della sociologia, fino a far parlare, in
alcuni casi, di una vera e propria inferiorità razziale della gente del Sud
come fatto “costituzionale e irrimediabile”[47].
Altri, invece, praticavano una lettura
più funzionalistica, vedendo le cause dell'arretramento meridionale nelle non
avvenute trasformazioni economiche e cominciavano a proporre una politica di
industrializzazione e di sovvenzioni mirati[48].
Ciò ebbe come seguito interventi
realizzati tra la fine del 1800
e gli inizi del 1900, che seppure fossero parziali e non del tutto adeguati,
portarono ad alcuni temporanei miglioramenti[49].
Anche se bisogna aggiungere che il carattere frammentario di tali interventi e
la prima guerra mondiale causarono un peggioramento massiccio della situazione.
Il meridionalismo non si spense durante la sfortunata esperienza del
fascismo. Autori come Salvemini, Dorso
e Gramsci mettono in rapporto il divario tra Nord e Sud d'Italia con lo
sfruttamento della classe operaia da parte degli industriali al Nord e con
l'oppressione dei contadini e delle loro famiglie ad opera dei latifondisti al
Sud. Gli esiti teorici sono differenti. Sfociano nel trasformismo sociale in
alcuni e in una, di fatto mai realizzata "rivoluzione meridionale" in
altri. Si aprì così uno spazio intermedio per chi, come L. Sturzo, ritenne di
dover dare attuazione storica ai principi sociali del magistero ecclesiale,
come quelli della Rerum Novarum, fino ad ipotizzare e praticare un
riformismo interclassista di ispirazione cattolica. In lotta contro
l'accentramento del governo ventennale
fascista, proprio le idee sturziane sembrano avere una notevole carica innovativa
nell'impostare la questione meridionale.
Riguardano il rifiuto dell'industrializzazione del Mezzogiorno, per
favorire al contrario un ammodernamento della sua economia rurale, l'utilizzo
di strumenti di partecipazione politica diretta, fino alla richiesta di
un'autonomia regionale da
contestualizzare in maniera federalistica con il resto dell'Italia.
Solo
dopo la seconda guerra mondiale si ha un'effettiva ripresa della riflessione
sul Meridione. Cambiano però i termini dell'impostazione generale del problema.
La sociologia di quegli anni si concentra maggiormente sui valori comunitari
della società contadina. Gli “studi di comunità” hanno il pregio di essere
interdisciplinari e di vedere all'opera anche esperti provenienti da altre aree
geografiche (tra cui il Nord-America). Si realizzarono ricerche per conto di
organismi internazionali, quali l'UNESCO o di istituti locali[50].
Si arriva a precisazioni e puntualizzazioni preziose, come ad esempio, che non
basta intervenire sul rapporto tra la popolazione e le risorse, ma occorre
ricostruire il tessuto stesso del vivere sociale, come dato comunitario[51].
Ciò può costituire un correttivo a quel “familismo amorale” che sarebbe alla
base della perpetuazione dell'arretratezza del Sud[52]
e del particolare modo con cui l'animo contadino guarda alla realtà[53].
Questo
taglio a caratterizzazione antropologica ed etnografico si accentua nella
storia della letteratura del Mezzogiorno dalla metà del nostro secolo. Ha
presenti i nuovi contributi dell'esistenzialismo, della psicologia e delle
scienze sociali in genere. Scopre una persistenza socio-religiosa di natura
magica e sincretistica del Sud e, ciò che per noi sarà di particolare
importanza, cerca di individuare le linee organiche di quel complesso sistema
in cui confluiscono e convivono, condizionandosi reciprocamente, spiritualità e
sensibilità di fondo dell'uomo del Sud, religiosità e feste popolari, ritualità
ancestrali e processi di identificazione collettiva[54].
È a partire da queste
caratterizzazioni e interdipendenze tra religiosità, fede e senso di identità collettiva
che si può arrivare a comprendere la differenza di rilevanza che hanno nel
Mezzogiorno l'elemento comunitario intrinseco (come quello della famiglia e del
villaggio) e quello estrinseco (le forme aggreganti provenienti dall'esterno).
Su questo versante sarà più agevole tentare una lettura ecclesiologica per
l'area in cui noi viviamo.
Dopo
le sue innumerevoli vicissitudini, la questione meridionale è ben lungi
dall'essere risolta. Oggi sembra non essere più nemmeno di moda. Nel mutato
atteggiamento culturale complessivo di questi nostri anni, si può pacatamente
sottoscrivere la sintesi storica di chi asserisce:
“L'analisi
della realtà sociale meridionale troppo spesso è stata condotta in termini di pura
contrapposizione, di confitto, evocando la “persistenza” e il “mutamento” come
categorie cui far ricorso nelle indagini sulla struttura sociale del
Mezzogiorno contemporaneo. Ciò non di
meno, nelle immagini e negli
stereotipi correnti il Mezzogiorno è presentato come terra di sfascio
territoriale e di
degrado urbanistico, di mafia, 'ndrangheta e camorra, di disorganizzazione istituzionale e di
disgregazione sociale. Sembra quasi di essere giunti in un momento in cui
parlare della condizione delle aree meridionali sia un esercizio sterile di
cultura politica e non la necessità di rivedere le interpretazioni e le analisi
dello sviluppo del Mezzogiorno nelle interrelazioni con la crescita
dell'economia italiana (al cui sviluppo ha contribuito, anche se in modo
coatto)”[55].
A
fronte di questa situazione, almeno il buon senso richiede che si ammetta che
il Mezzogiorno è una realtà complessa e piuttosto disomogenea, condividendo
l'idea che si debba persino parlare di più “Mezzogiorni” e non di un solo
“Mezzogiorno”. Si tratta difatti di aree che appaiono, a una lettura più
profonda, differenziate e distinte, almeno per ciò che riguarda i rapporti
economici, lo stadio dello sviluppo e i problemi relativi all'intensità e alla
diffusione dell'emarginazione e del degrado[56].
Ciò che le accomuna in un humus storico e culturale che faccia da
connettivo, non è ancora completamente pacifico. Certamente, almeno a livello
scientifico, non sono più proponibili le letture, nemmeno poi tanto
larvatamente razziste, degli inizi del secolo. Più moderna e rispettosa non
solo dell'oggetto in esame, ma anche della stessa scienza, appare la
posizione di chi, come F. D'agostino, nota un convergere, quasi una sorta di conspiracy,
tra gli orientamenti relativi ai valori e le stesse strutture sociali presenti
nel Mezzogiorno. Oggi si sottolinea l'importanza dei dati simbolici insiti
nelle complesse dinamiche che investono il mondo parentale e gli ambiti
immediatamente disponibili e fruibili, come vicinato, amicizia, parentela etc.
Nel Mezzogiorno ciò sembra ad alcuni assorbire e talora esaurire gli ambiti del
cosiddetto pubblico. Al punto che in questo contesto si comprende anche
perché lo stato sia visto come corpo
fondamentalmente estraneo, se non come nemico e alla struttura politica
corretta e sanamente partecipativa si sia sostituita una struttura clientelare
vera e propria, alternativa e tuttavia interattiva rispetto agli organi statali[57].
Ammettere tutto questo non significa ancora condividere l'atteggiamento
sprezzante di chi guarda al Mezzogiorno come a incidente fastidioso, e ormai
insuperabile, della storia italiana, un fenomeno fondamentalmente colpevole, la
cui responsabilità e i cui effetti sarebbero da circoscrivere ad un'area
precisa, dalla quale prendere al più presto le distanze. Chi arriva a giudizi
siffatti, scambia evidentemente i piani del discorso. Confonde la valutazione scientifica, da ricondurre
sempre a dati oggettivi e di per sé non colpevoli, con il luogo comune dello
sfogo emotivo ed immotivato che vede sempre e comunque responsabilità e colpe
in tutto ciò che non è gradito. Peggio ancora avviene se, sfruttando l'ondata
di sdegno popolare, che costituisce la cassa di risonanza dei luoghi comuni, si
pretende di costruire su di essa programmi politici e strategie di potere. Ciò
che accade con le formazioni politiche oggi vincenti in Italia va purtroppo in
questa direzione. Sfrutta abilmente anche il giusto bisogno di ricambio della
classe politica e delle istituzioni che, questa volta colpevolmente, hanno
finora prosperato con il clientelismo e con le tante forme di collusione tra
dinamiche e strutture sociali che conosce la storia del Sud.
In
questo contesto complessivo chiedendoci che senso abbia oggi parlare di
ecclesiologia nel Mezzogiorno, dovremo almeno poter rispondere che
un'ecclesiologia effettivamente praticata è in grado di rispondere a quella
sfida della dipendenza (come ultima espressione storica della povertà) perché è
capace di innescare un processo pedagogicamente significato e storicamente
efficace.
Rileggendo
infatti la stessa povertà alla luce della Parola di Dio, questa può assumere
almeno tre connotazioni teologiche determinanti: l'autovalorizzazione,
la demitizzazione, la condivisione.
L'autovalorizzazione
è da intendersi come un cammino di conversione faticoso, e tuttavia
indispensabile, attraverso cui la chiesa del nostro Sud, comincia a diventare
cosciente che la sua situazione è da vivere senza rimpianti e senza evasioni.
Ai fini della perpetuazione della povertà non c'è cosa più efficace che la
disistima nei poveri verso se stessi. La povertà è di solito avvertite non solo
come mancanza di avere, ma anche come carenza di essere. Una Parola di Dio,
costantemente meditata e autenticamente predicata, può operare un cambiamento
che riteniamo indispensabile ai fini della trasformazione non solo sociale, ma
anche religiosa del nostro Mezzogiorno: la coscienza di non essere dei
maledetti o dei condannati, ma di sentirsi amati da Dio proprio perché poveri,
proprio perché non importanti agli occhi dei potenti, proprio perché
disponibili a giocarsi la vita nell'avventura della fede. Il cammino formativo
della gente del Sud passa attraverso questa acquisizione di stima di se stessi
che la nostra gente non ha mai avuto. Ciò significa riscoprire il valore
teologico della povertà come assimilazione a Cristo, come via per seguirlo più
da vicino. Un valore, ben inteso, che non significa pauperismo, ma che tuttavia
non corre dietro i tanti miti del benessere e della illusoria felicità dei
mezzi materiali.
Ma
dicendo questo si comprende anche ciò che qui si intende con demitizzazione.
In realtà vuol dire diventare coscienti della significanza idolatrica che
si dà ai tanti miti (abbondantemente propagandati con l'irradiazione
giornaliera di emittenti televisive e con la diffusione degli altri strumenti
di comunicazione di massa). Il Sud può diventare occasione di richiamo profetico
a una cristianità, quella italiana, che ormai acriticamente usufruisce dei
benefici di un sistema economico (spesso denunciato come consumistico). Può
testimoniare di non essere interessato ai nuovi idoli della grande efficienza,
della superproduttività, della supervelocità, della commercializzazione di ogni
aspetto della vita (dal tempo libero al sesso, dalla natura alla cultura,
etc.), perché li considera appunto miti, illusioni ingannevoli che non portano
a nulla.
L'uscita
da una coscienza di dipendenza o di minorità (culturale-religiosa-sociale)
significa per il popolo di Dio che vive nel Sud non l'isolamento in una sorta
di aristocratica fortezza, ma una condivisione dei problemi degli altri
Sud del mondo, per quella solidarietà tra poveri che bisogna potenziare, perché
può essere una delle dinamiche più forti di cambiamento sociale. Partendo dalla
riflessione sulle proprie situazioni locali, un popolo di Dio cosciente del suo
valore e delle ingiustizie sofferte, diventa anche sufficientemente critico per
scoprire ogni altra forma di ingiustizia anche altrove. Può condividere la
sorte degli altri poveri, sentendosi solidale con loro proprio perché ha
assaporato l'amarezza della povertà, ma può contemporaneamente diffondere la
sete della libertà proprio per aver avvertito fin nel più profondo l'esigenza
di un'autentica liberazione. Per queste ragioni e per tutto ciò che è ad esse
collegato e collegabile, il Sud può diventare nuovo riferimento etico, visto
che è già un soggetto ecclesiologico.
(G.
Mazzillo)
[1]Non si può qui pretendere una documentazione su un tema tanto complesso e che investe in pratica tutta la storia della chiesa. Si rimanda per una sintesi equilibrata e per alcuni riferimenti bibliografici essenziali a: A T. Goffi, Il povero, il primo dopo l'Unico, Queriniana, Brescia 1983.
[2]Cfr. M. WEBER, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 19834; ID., Economia e società, Ed. di Comunità, Milano 1980. Il volume sull'antico giudaismo completa la trilogia di Weber sulla sociologia religiosa, accanto a quello dedicato al confucianesimo e al taoismo e all'altro sull'induismo e sul buddhismo. Il piano dell'opera era intitolato Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, per il giudaismo cfr. ID., Sociologia della religione. L'antico giudaismo, Newton Compton Editori, 1980.
[3] Così, ad esempio: Pr 10,4: "La mano pigra fa impoverire, la mano operosa arricchisce"; e Pr 20,13: "Non amare il sonno per non diventare povero, tieni gli occhi aperti e avrai pane a sazietà".
[4] Così, per esempio in Pr 10,22: "La benedizione del Signore arricchisce, non le aggiunge nulla la fatica"; Qo 5,18: "Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni, ha anche facoltà di goderli e prendersene la sua parte e di godere delle sue fatiche: anche questo è dono di Dio".
[5] Così in Pr 10,15: "I beni del ricco sono la sua roccaforte, la rovina dei poveri è la loro miseria"; Pr 14,20: "Il povero è odioso anche al suo amico, numerosi sono gli amici del ricco"; Pr 19,7: "Il povero è disprezzato dai suoi stessi fratelli, tanto più si allontanano da lui i suoi amici"; Pr 22,7: "Il ricco domina sul povero e chi riceve prestiti è schiavo del suo creditore"; Sir 13,22: "Se cade il ricco, molti lo aiutano; dice cose insulse? Eppure lo si felicita. Se cade il povero, lo si rimprovera; se dice cose assennate, non ci si bada".
[6]Inoltre, anche nella corrente biblica sapienziale la povertà non è sempre frutto di pigrizia. Cfr., ad esempio, Sir 31,4: "Un povero fatica nelle privazioni della vita e se smette, cade nell'indigenza".
[7]Cfr. Am 2,6ss: “Così dice il Signore: "Per tre misfatti d'Israele e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri"”.
[8]"Perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto; la città eccelsa l'ha rovesciata, rovesciata fino a terra, l'ha rasa al suolo. I piedi la calpestano, i piedi degli oppressi, i passi dei poveri" (Is 26,5ss).
[9]"I miseri e i poveri cercano acqua ma non ce n'è, la loro lingua è riarsa per la sete; io, il Signore, li ascolterò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò" (Is 41,17).
[10]"Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri" (Sir 34,20); "Chi deride il povero offende il suo creatore, chi gioisce della sciagura altrui non resterà impunito" (Pr 17,5); "Ma egli libera il povero con l'afflizione, gli apre l'udito con la sventura" (Gb 36,15).
[11]Ne citiamo alcuni: Sal 72,4: "Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l'oppressore"; Sal 72,13: "avrà pietà del debole del povero e salverà la vita dei suoi miseri"; Sal 107,41 "Ma risollevò il povero dalla miseria e rese le famiglie numerose come greggi"; Sal 109,31: "poiché si è messo alla destra del povero per salvare dai giudici la sua vita"; Sal 113,7: "Solleva l'indigente dalla polvere, dall'immondizia rialza il povero"; " Sal 132,15: "Benedirò tutti i suoi raccolti, sazierò di pane i suoi poveri"; Sal 140,13: "So che il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri".
[12]Questa contiene espressamente una denuncia energica della povertà e dell'ingiustizia come effetto dello sfruttamento e dell'oppressione dei ricchi. Cfr., ad esempio, Ger 2,34: "Perfino sugli orli delle tue vesti si trova il sangue di poveri innocenti, da te non sorpresi nell'atto di scassinare, ma presso ogni quercia"; Am 4,1: "Ascoltate queste parole, o vacche di Basàn, che siete sul monte di Samaria, che opprimete i deboli, schiacciate i poveri e dite ai vostri mariti: Porta qua, beviamo!"; Am 8,4: "Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese".
[13]Egli attribuisce alla profezia una sorta di carisma che non esita a chiamare "demagogia", additando dei riscontri nella polis paleo-ellenica, mentre tralascia la critica profetica che condanna come peccato contro Dio l'accumulo e l'oppressione delle classi ricche sui poveri (Cfr. M. WEBER, Sociologia della religione. L'antico giudaismo, Newton Compton, 1980, 271ss.).
[14]Ci riferiamo in particolare alle due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla teologia della liberazione. La prima, intitolata Libertatis nuntius, del 6.8.1984 (EV 9/866-887) e la seconda, dal titolo Libertatis conscientia, del 22.3.1986 (EV 10/196-370). Al fine di contestualizzare meglio il contenzioso qui in oggetto, sarà utile far riferimento anche alla lettera con la quale il Cardinale Ratzinger, prefetto della stessa congregazione, domandava spiegazioni a L. Boff sul suo libro (cfr. Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, Borla, Roma 1983), così come sarebbero da consultare la risposta dell’autore e il comunicato sul colloquio da lui avuto in Il Regno 29 (1984) 17/514, 537-556. La difesa di G. Gutiérrez alle contestazioni mossegli dalla stessa congregazione nel marzo del 1983 è reperibile invece in Il Regno 29 (1984) 19/516, 620-628. Ma cfr. anche, per un'introduzione al tema del povero come problema teologico, Gutiérrez G., “Appunti per una teologia della liberazione”, in Aa.Vv., Religione, oppio o strumento di liberazione?, Mondadori, Verona 1972, 23-73; Id., La forza storica dei poveri, Queriniana, Brescia 1981. Id., Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1981.
[15]Povertà ed i poveri, così importanti nei vangeli, non sono entità meramente morali e spirituali. Come a dire: Gesù non si è interessato dei poveri storicamente tali, ma solo di quanti, pur avendo dei beni, erano distaccati da essi. Sulla concezione della povertà come virtù coltivata spiritualmente cfr. A. GELIN, Die Armen, sein Volk, Mainz 1957. Così, in H.J. HOLTZMANN, Die Synoptiker, Tübingen 1901 e S.C. INGELAERE, La parabole du jugement dernier (Mt 25,31-45), in RHPR 1 (1970) 23-60, gli "ultimi" non sarebbero altro che i discepoli di Cristo nei confronti dei quali saranno giudicati i pagani. Accentuazioni spiritualistiche si trovano anche in Bultmann. Cfr. R. BULTMANN, art. Penthos, in Theologisches Wörtebuch zum Neuen Testament (Kittel) VI (1959), 40-43. Cfr. inoltre: L. GOPPELT, Theologie des Neuen Testaments, Göttingen, 1981, 130ss.
[16]Cfr. G. Theissen, “Soziologie der Jesusbewegung. Ein Beitrag zur Entstehungsgeschichte des Urchristentums”, in Theologische Existenz heute (194), München 1977.
[17]Cfr. W. Schottroff-W. Stegemann, Der Gott der kleinen Leute. Sozialgeschichtliche Auslegungen. Neues Testament, München 1979, dove è criticata la tesi del movimento mendicante guidato da Gesù ed è documentata la tesi di una povertà come carenza complessiva di beni di diversa natura. Conclusione che si avvicina molto all'idea dei poveri ha dell'attuale linguaggio magisteriale. Cfr., ad esempio le due già citate istruzioni sulla teologia della liberazione. La povertà ha connotazione esistenziale, spirituale e politica, ad esempio in questo passa: “Se Dio strappa il suo Popolo da una dura schiavitù economica, politica e culturale, è al fine di farne, con l’Alleanza del Sinai, "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,6). Dio vuole essere adorato da uomini liberi. Tutte le ulteriori liberazioni del popolo d’Israele tendono a ricondurlo a questa pienezza di libertà, che non può trovare se non nella comunione con il suo Dio. L’avvenimento più grande e fondamentale dell’esodo, dunque, ha un significato insieme religioso e politico. Dio libera il suo popolo, gli dà una discendenza, una terra, una legge, ma all’interno di un’Alleanza e in vista di un’Alleanza. Non si può, dunque, isolare per se stesso l’aspetto politico; è necessario considerarlo alla luce del disegno di natura religiosa, nel quale è integrato” (Libertà cristiana e liberazione. II Istruzione della congregazione per la Dottrina della Fede sulla Teologia della Liberazione, 22.3.1986, 44). Cfr. anche Libertatis Nuntius Intr.: AAS 76 (1884) 876.
[18]È questo il senso dell'opzione preferenziale per i poveri, che anche la chiesa italiana considera con un riferimento pastorale importante. Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni '90, n. 39: Amore preferenziale per i poveri espresso nelle opere di misericordia corporale e spirituale. “In questa prospettiva l'amore preferenziale per i poveri si mostra come “un'opzione, o una forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica ugualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l'uso dei beni” [Sollicitudo rei socialis, n. 42: EV 10/2672]. Senza questa solidarietà concreta, senza attenzione perseverante ai bisogni spirituali e materiali dei fratelli, non c'è vera e piena fede in Cristo. Anzi, come ci ammonisce l'apostolo Giacomo, senza condivisione con i poveri la religione può trasformarsi in un alibi o ridursi a semplice apparenza (cf. Gc 1 ,27-2,13)” .
[19]Cfr. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1993, nn. 58-59: “La teologia della liberazione comprende elementi il cui valore è indiscusso: il senso profondo della presenza di Dio che salva; l'insistenza sulla dimensione comunitaria della fede; l'urgenza di una prassi liberatrice radicata nella giustizia e nell'amore; una rilettura della Bibbia che cerca di fare della Parola di Dio la luce e i1 nutrimento del popolo di Dio in mezzo alle sue lotte e alle sue speranze. Viene così sottolineata la piena attualità del testo ispirato”.
[20]“Ma una lettura così impegnata della Bibbia comporta certi rischi. Essendo legata a un movimento in piena evoluzione, le osservazioni che seguono non possono che essere provvisorie. Questo tipo di lettura si concentra su testi narrativi e profetici che illuminano situazioni di oppressione e ispirano una prassi che tende a un cambiamento sociale; è possibile che sia, qua o là, parziale, non prestando altrettanta attenzione ad altri testi della Bibbia. E' esatto che l'esegesi non può essere neutra, ma deve anche guardarsi dall'essere unilaterale. D'altra parte, l'impegno sociale politico non è compito diretto dell'esegeta. Alcuni teologi ed esegeti, volendo inserire il messaggio biblico nel contesto socio-politico, sono stati portati a ricorrere a vari strumenti di analisi della realtà sociale. In questa prospettiva alcune correnti della teologia della liberazione hanno fatto un'analisi ispirata a dottrine materialiste e hanno letto la Bibbia anche in questa cornice, il che non ha mancato di suscitare problemi, specialmente per ciò che concerne il principio marxista della lotta di classe. Sotto la spinta di enormi problemi sociali, l'accento è stato messo di più su un'escatologia terrena, talvolta a detrimento della dimensione escatologica trascendente della Scrittura” (Ivi, 59).
[21]“I cambiamenti sociali e politici conducono questo approccio a porsi nuovi interrogativi e a cercare nuovi orientamenti. Per il suo sviluppo ulteriore e la sua fecondità nella Chiesa, un fattore decisivo sarà la precisazione dei suoi presupposti ermeneutici, dei suoi metodi e della sua coerenza con la fede e la Tradizione di tutta Chiesa” (Ivi).
[22]Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e mezzogiorno, n. 7.
[23]Ivi.
[24]La critica è su questo punto precisa e senza attenuanti: “attualmente il “mercato” appare e viene esaltato come “realtà vincente” sull'uomo e sulla solidarietà tra gli uomini e tende a porsi come egemone anche nei confronti dello Stato, al quale invece compete la salvaguardia e la promozione di quel valore superiore e fondante che è il bene comune. I fenomeni dell'individualismo e del soggettivismo esasperato hanno qui una loro causa non secondaria” (Ivi).
[25]Cfr. Rapporto Brandt: Nord-Sud. Un programma per la sopravvivenza, Mondadori, Milano 1980.
[26]Cfr. G. Martirani, La geografia come educazione allo sviluppo e alla pace, LTM, Tipolito Russo, Napoli 1984.
[27]Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà, cit., 8.
[28]È diventato ormai un classico il libro di Galbraith sulla povertà di massa. Qui si possono trovare le differenti spiegazioni della povertà e i loro sostenitori. Cfr. Id., La povertà di massa, Mondadori, Milano 1979. Per una bibliografia accurata sulla povertà in Italia, cfr. M. Niero, Bibliografia per un'analisi articolata dei problemi della povertà, in G. Sarpellon, Rapporto sulla povertà in Italia, Angeli, Milano 1983. Per nozioni più generali cfr. A. Carbonaro, povertà e classi sociali, Angeli, Milano 1979.
[29]Miguel Bonino riassumeva, già negli anni '70, le critiche del III mondo alla politica degli aiuti dei paesi ricchi fondata su una teoria dello sviluppo: 1)La teoria dello sviluppo presuppone che le tappe di una società (quella dei paesi ricchi) siano percorribili e ricuperabili da un’altra (quella dei paesi poveri); 2)Tale teoria parte da una valutazione falsa: la calma passiva dei poveri. Proprio questa calma si è trasformata in inquietudine; 3)Tale teoria ignora che la qualità della vita raggiunta nei paesi ricchi diventa sempre più problematica agli occhi dei paesi del III Mondo. Gli obiettivi che i primi si sono prefissati sono sempre meno affascinanti agli occhi di questi: cfr. M. Bonino, Theologie im Kontext der Befreiung, Göttingen 1977, 34-36.
[30]Cfr., ad esempio, P. Prebish, The economic development of Latin America und its principal problems, CEPAL, 1956.
[31]Si rimanda a A. C. Frank, Sociologia del sottosviluppo e sottosviluppo della sociologia, Lampugnani, Milano 1970, dove si riorganizzano i contributi della sociologia secondo l'approccio tipico-ideale, per cui il sottosviluppo sarebbe originato da divari culturali non colmati (cfr., ad esempio, B. F. Hoselitz, The progress of underdeveloped areas, The University of Chicago Press, Chicago 1952), oppure secondo l'approccio diffusionista, secondo cui occorre diffondere nelle aree depresse i modelli culturali dei paesi sviluppati (cfr. W. W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962) o ancora secondo l'approccio psicologico, che privilegia le motivazioni socio-psicologiche di fondo che sarebbe alla base dello sviluppo (cfr. l'indirizzo di M. Weber sull'influenza dell'etica protestante sul capitalismo e le sue varianti e sviluppi in D. McClelland, The achieving society, Princeton University Press, Princeton 1961; E. Hagen, On theory of social change, Dorsey Press, Homewood 1962).
[32]Si tratta di modelli teorici legati a interpretazioni di stampo marxista, che ritenevano, almeno fino alla III Internazionale, ancora possibile una rivoluzione borghese nei paesi colonizzati o comunque sottosviluppati, la cui economia sarebbe stata di stampo ancora feudale.
[33]Cfr. R. Nurkse, La formazione del capitale nei Paesi sottosviluppati, Einaudi, Torino 1972.
[34]La teoria di fondo è riscontrabile in opere come A. G. Frank, Sul sottosviluppo capitalista, Jaka Book, Milano 1972.
[35]Cfr. U. Melotti, Marx e il Terzo Mondo, Il Saggiatore, Milano 1972.
[36]Cfr. gli studi di S. Amin, che si occupa, ad esempio, dei problemi relativi all'Africa, in Id., Sulla transizione, Jaka Book, Milano 1973, mentre per il versante asiatico, si cfr. G. Myrdal, Saggio sulla povertà di undici paesi asiatici, Il saggiatore, Milano 1971.
[37]“Nel sud è esigenza primaria una nuova carica di fiducia per un cammino di speranza. Bisogna moltiplicare i soggetti, i contenuti e gli spazi per una “ministerialità” di servizio e di liberazione” (Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà, cit., 29).
[38]“La chiesa vive in ogni sua parte la realtà totale del corpo mistico di Cristo, sia nella sua dimensione temporale in quanto attualizza nell'oggi la redenzione compiuta dal suo Fondatore, [...] sia nello spazio, in quanto in ogni chiesa particolare essa è totalmente presente” (Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea straordinaria di Assisi. Atti della XIX Assemblea generale, 10-12 marzo 1982, 12).
[39]Partendo dal celebre testo del Vaticano II in cui si afferma che la chiesa è per sua natura “un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza”, ne deriva il valore di principio della solidarietà come principio funzionale all'ecclesiologia di comunione; (cfr. . Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà, cit., 3).
[40]Sulla solidarietà sta maturando in questi anni un approfondimento teorico, oltre che teologico. Cfr., ad esempio, M. Giordano, “Il fondamento cristiano della solidarietà”, in Rassegna di teologia 30 (1989) 399-412; L. COMINI (ed.), Alle radici della solidarietà, La Piccola editrice, Celleno (VT) 1990 e la voce "solidarietà", che finalmente entra in un dizionario teologico, in G. PIANA, "solidarietà" in F. COMPAGNONI, G. PIANA e S. PRIVITERA (edd.) Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Paoline, Cinisello B. (MI) 1990, 1263-1271; Mauro Stabellini (ed), Solidarietà e cultura di pace, Centro Studi e Fondazione “Emanuela Zancan”, Padova 1993; G. Mazzillo, "l'assunzione dell'altro come dimensione etica della Pacem in terris", in S. TANZARELLA (ed.), Costruire la pace sulla terra, La Meridiana, Molfetta (BA) 1993, op. cit., 81-110; ID., La teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1988, 67-101; sulla prassi di Gesù come prassi solidale cfr. ID., Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990.
[41]“La solidarietà presuppone la presa di coscienza e l'accettazione di una corresponsabilità a riguardo del debito internazionale, sia per le sue cause, sia per le sue soluzioni. [...] Riconoscere la condivisione delle responsabilità nelle cause renderà possibile un dialogo per trovare in comune delle soluzioni. La corresponsabilità riguarda l'avvenire dei paesi e delle popolazioni, ma anche le possibilità di una pace internazionale basata sulla giustizia” (Pontificia commissione “Iustitia et pax”, Documento Al servizio della comunità umana: un approccio etico del debito internazionale, 27 dicembre 1986, EV/10, 1061.
[42]Theotonio dos Santos dava, già negli anni '70, questa definizione della dipendenza: “Per dipendenza noi intendiamo una situazione nella quale l'economia di determinati paesi è condizionata dallo sviluppo e dall'espansione di un altro paese, al quale essa è soggetta. Il rapporto di interdipendenza tra le economie di due o più paesi, oppure tra le economie di questi e il commercio mondiale, prende la forma di dipendenza quando alcuni paesi (dominanti) sono nella situazione di espandersi e di svilupparsi in modo continuo con le proprie forze, mentre altri paesi (quelli dipendenti) possono far questo solo come riflesso dell'espansione dei primi, il che può avere sullo sviluppo di questi ultimi effetti positivi oppure negativi” (T. Dos Santos, “Über die Struktur der Abhängigkeit”, in D. Sengaas, Imperialismus und Struktarelle Gewalt, Frankfurt 19763, 243).
[43](E. Klinger, Armut - Eine Herausforderung Gottes. Der Glaube des Konzils und die Befreiung des Menschen, Benzinger, Verlag, Zürich 1990.
[44]GS 1.
[45]Cfr. F. D'Agostino - G. Di Gennaro, “Mezzogiorno”, in F. De Marchi, A. Ellena, B. Cattarinussi, Nuovo Dizionario di sociologia, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, 1235-1246.
[46]L'espressione è di fatto spesso intercambiabile con quella del meridionalismo ed è spesso associata a nomi quali P. Villari (cfr. Lettere Meridionali, del 1875), F. Franchetti e S. Sonnino (cfr. Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, del 1875, e l'inchiesta La Sicilia, del 1976), G. Fortunato (relativamente a concrete proposte quali la lotta alla malaria, bonifiche, riforma tribuitaria).
[47]Sono idee che si rinvengono in autori che leggevano il meridione come fatto antropologico (così, ad es., Sergi, Lombroso, Niceforo, Orano), al punto che il citato Franchetti proponeva come atto di risanamento radicale una vera e propria espansione coloniale.
[48]Così, ad esempio, rispettivamente, N. Colajanni e F. S. Nitti.
[49]Sono ricordate a tale riguardo alcune leggi speciali del 1904 sia per la Basilicata che per la rinascita economica di Napoli.
[50]Si ricorda l'Istituto di Economia e Politica Agraria di Portici e la Svimez, con l'opera di P. Saraceno: cfr. il rapporto sul Mezzogiorno pubblicato ogni anno.
[51]Sono tesi riconducibili a G. Marselli (cfr. Id., La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, Loescher, Torino 1984).
[52]Cfr. E. C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 1976.
[53]Cfr. F. D'Agostino, “Immagini della morte e costruzione simbolica della realtà in un paese del Sud”, in Sociologia (1977/2); A. M. De Spirito, Antropologia della famiglia meridionale, Ianua, Roma 1983; B. Meloni, La famiglia esclusiva, Laterza, Bari.
[54]Cfr. E. De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano 1961, Id., Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1972, Id, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino 1975; G. De rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, Bari 1978; Id, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socioreligiosa dal XVII al XIX secolo, Guida, Napoli 1983; G. Galassi, L'Altra Europa. Per un'antropologia storica del Mezzogiorno d'Italia, Mondadori, Milano 1982; L. M. Lombardi Satriani, Folklore e profitto, Guaraldi, Firenze 1973; D. Pizzuti, P. Giannoni, Fede popolare, Marietti, Torino 1979.
[55]F. D'Agostino - G. Di Gennaro, “Mezzogiorno”, cit., 1244.
[56]Cfr. ivi. Sul degrado e i problemi di carattere generale, con una specifica attenzione al triste fenomeno della delinquenza mafiosa, cfr. P. Fantozzi, Mezzogiorno, processi di modernizzazione e degrado criminale, in Osservatorio Meridionale (a cura di), Chiesa e lotta alla mafia, La Meridiana, Molfetta (BA) 1992, 19-34.
[57]Cfr. su questa vasta e complessa materia P. Fantozzi, politica clientelare e regolazione sociale. Il Mezzogiorno nella questione politica italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993. Nel testo è reperibile una ricca e aggiornata bibliografia sull'argomento.