Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

PACE, GIUSTIZIA E CARITA’

(Relazione al sinodo di Catanzaro-Squillace 28.11.1994)

Introduzione

Possiamo prendere l’avvio da una citazione magisteriale che ci offre il contesto teologico complessivo e i confini della maturazione ecclesiale entro cui contenere il nostro discorso. Si tratta della Evangelii Nutiandi, esortazione apostolica di Paolo VI, del 1975. Un testo che coniuga insieme in modo magistrale i termini del presente argomento.

Ecco il testo al n. 31.

“Tra evangelizzazione e promozione umana, sviluppo, liberazione ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell’ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo? Noi abbiamo voluto sottolineare questo ricordando che è impossibile accettare che “nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi, oggi cosi dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace del mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso”[1].  Ebbene, le medesime voci che con zelo, intelligenza e coraggio hanno affrontato nel corso del citato sinodo questo tema cruciale, hanno offerto, con nostra grande gioia, i princìpi illuminanti per cogliere la portata e il senso profondo della liberazione quale l’ha annunziata e realizzata Gesù di Nazaret, e quale la predica la chiesa”[2].

«La portata e il senso profondo della liberazione quale l’ha annunziata e realizzata Gesù di Nazaret, e quale la predica la chiesa» è nelle correlazioni di natura antropologica, teologica ed evangelica che come chiesa universale e come chiesa diocesana non possiamo disattendere. Se il vangelo è davvero buona notizia, non può essere che annuncio di liberazione nei vari livelli in cui si esprime la vicenda umana, sia personale che comunitaria. E’ lieta notizia di quella sorprendente gratuità che viene da lontano, ma che tocca le persone e le cose a noi più vicine. Tocca l’intimo di ciascuno di noi e le strutture storico-sociali nelle quali viviamo e con le quali interagiamo. E’ insomma l’annuncio che ci riempie di stupore: cioè che ciascuno di noi è amato e benedetto da Dio. Ciascuno, dico, e perciò tutti, ma in particolar modo quelli che hanno più bisogno di sentirselo dire e di vederselo dimostrato: i senza speranza e senza nessuno, i diseredati, gli impoveriti e gli infelici di ogni sorta.

Sapersi amati con un amore autentico, non blaterato, né reclamizzato, non fittizio né strumentale, non per ciò che si dovrebbe essere, ma per quello che si è, non nonostante, ma proprio  a causa della propria situazione di minorità e di bisogno: proprio questo costituisce il vangelo di salvezza e di grazia, di liberazione e di speranza. Costituisce il vangelo della pace: una pace piena che finalmente riconcilia con il proprio cuore, mentre fa esperienza dell’abbraccio di Dio. Riconcilia con gli altri, con i diversi, non più nemici, né concorrenti, né avversari, ma tutti figli dello stesso Padre, tutti redenti dallo stesso sangue di Cristo.  Ciò costituisce il lieto annuncio della speranza, la speranza che un mondo più fraterno è più solidale è finalmente cominciato. E’ iniziato e si va compiendo con l’abbraccio di Dio, perché l’amore vero é un amore concreto, è l’amore che mentre abbraccia solleva da terra (parafrasando un’espressione di Giovanni Paolo II), è l’amore che corre a soccorrere il figlio caduto, per prendersi cura di lui.

In questa premessa si possono ritrovare i nessi teologici fontali tra i termini messi insieme nel titolo dell’argomento affidatomi: la pace, la giustizia, la carità. La pace, che è riconciliazione e annuncio di salvezza (evangelium pacis), tende necessariamente a ristabilire rapporti interumani basati sulla giustizia perché fondati in Dio nella verità, (evangelium liberationis), costituisce l’irruzione in questo nostro mondo del mondo di Dio attraverso la vicenda e la realtà umano-divina di Cristo. Per cui è anche e soprattutto annuncio dell’amore, vangelo della carità (evangelium caritatis).

Cercando di evidenziare questa triplice connessione, ci metteremo in ascolto della Parola di Dio, avendo dinanzi un brano di Paolo che sembra essere paradigmatico per la nostra ricerca:

«State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità,  rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6,14-15; cf Is 40,3.9).

Un vangelo di pace, dunque, che “propaga” rapporti basati sulla verità, tendendo a ristabilire la giustizia tra gli uomini; con ai piedi lo zelo, cioè il fuoco della carità. Una carità che spinge infaticabilmente i piedi, perché brucia prepotentemente nel cuore. E’ la “caritas Christi” che “urget nos”, è la carità di Cristo che ci preme da dentro,  passando dal cuore ai piedi”,

«Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto  per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché  quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,14-15) .

Con una simile fondazione biblica e in costante riferimento al magistero, possiamo allora entrare nel tema, avendo come termini di riferimento i seguenti  punti:

1)         l’abbraccio che solleva e dà la pace; 2) l’ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare; 3) le vie della carità come vie dell’autentica liberazione.


1)    l’abbraccio che solleva e dà la pace

Ogni riflessione teologica sulla pace nasce dalla consapevolezza che il mondo ha bisogno d’amore. Parte da un principio completamente contrapposto a ciò che ritiene il razionalismo, quando crede che il mondo non ha bisogno di amore, perché è autossuciente[3].  Il cardine intorno a cui ruota è la certezza che ogni creatura è frutto dell’amore di Dio e come tale deve essere accolta e tutelata. Per essa sono determinanti le parole della sapienza:

«Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?» (Sap 11, 23-25).

La pace di fronte all’altro che odia, che pecca, che uccide,  è sempre capace di ritenere che l’unica cosa che si possa fare è ciò che ha fatto e continua a fare Dio con noi: è la prassi di Dio: «salvare, cioè abbracciare e sollevare con amore redentivo»[4]. Ecco il punto teologico che qualifica ogni riflessione ed ogni agire di pace tanto del singolo cristiano come della comunità nel suo insieme: la fede non in un qualsiasi Dio, ma nel Dio della rivelazione, che coltiva sempre e comunque pensieri di pace, quegli stessi che Gesù adempiva quando passava sulle polverose e, allora come adesso, insanguinate strade della Palestina e che oggi ci chiama ad adempiere in sinergia con Lui. Sì, chiama proprio noi, che nonostante i rancori, i risentimenti, le diffidenze ed i sospetti che ancora ci covano in cuore, siamo stati ritenuti  capaci di fare il salto della pace. Noi, sua Chiesa, chiamata a coltivare le sue stesse speranze su un’umanità ancora violenta e permanentemente in guerra.

Lasciamo spazio sufficiente in noi, sorelle e fratelli di fede di questa nostra chiesa, affinché quei progetti prendano corpo, diventino pensiero (attraverso la nostra riflessione), diventino impazienza di percorrere instancabilmente le strade degli uomini e diventino fede incrollabile che la nonviolenza è più forte e che la pace è sempre migliore di ogni altra scelta, perché l’una e l’altra sono state scelte da Dio e sono diventate via tracciata da Cristo, via sulla quale siamo stati chiamati a seguirlo.

Proprio Lui, Gesù, faceva spazio nei sui pensieri e nelle sue scelte al vero intento del Padre: «Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). In Gesù prendeva carne l’identificazione, già intuita da Michea, tra il messia e la pace, quando questi, preannunciandone la venuta, affermava: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4)[5].

La vita di Gesù era tutta in quel progetto che egli vedeva prendere forma ogni giorno di più, nella sua stessa sorte: la sorte di chi offriva la pace e raccoglieva violenza, sovrabbondava di amore e riceveva odio e ripudio. Di chi, nonostante ciò, vedeva compiersi in quel ripudio e in nella sua drammatica fine, l’identificazione suprema con la pace. Dopo aver compiuto il bene in ogni angolo e in ogni momento di quel suo segmento di mondo, Gesù non si limitava ad essere diffusore di pace, ma diventava pace attraverso il suo stesso corpo immolato e il suo sangue versato. E allora chiamava noi, i destinatari del suo sermone della montagna ad essere, a nostra volta, “costruttori di pace” perché gli eirenepoioi, i facitori della pace, sono beati, in quanto figli di Dio (Mt 5,7).

Venuta l’ora del dono supremo, diventava pace egli stesso: «Egli infatti é la nostra pace», proclamava Paolo, cui urgeva la carità di Cristo nel cuore, perché Cristo é «Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo un muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2,14).  Paolo evidenziava così uno degli effetti della pace come riconciliazione, la rappacificazione tra popoli tra loro contrapposti, perché estranei ed ostili gli uni agli altri, totalmente diversi: ebrei e pagani. Eppure in Cristo la riconciliazione avveniva a tutti i livelli e tra tutte le realtà esistenti. Veniva a suggello di una vita intera di chi era stato il primo e fondamentale «artefice di pace» (poiòn eirenen). In che modo? Attraverso le sue successive scelte, che pur restando sempre opera di riconciliazione con Dio e tra gli uomini, gli procurano anche una crescente ostilità. Ma perché tutto ciò? Certamente a causa della qualità della sua pace (pace non fittizia, non verbalistica, non ipocrita, non livellante, bensì pace autentica, schietta, concreta, pace che rispettava le differenze e le riconduceva ad unità). A motivo di una pace che Gesù coniugava sempre con la giustizia e la misericordia, con la gratuità e l’essenzialità, Gesù avvertiva che non tutti volevano declinare la pace in questi valori e perciò, realisticamente, non ci nascondeva gli inevitabili conflitti e persino divisioni che proprio la pace avrebbe potuto comportare:

«Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre» (Lc 12,51-53);

La spada era ovviamente la linea di demarcazione tra il pensare come Gesù e il pensare secondo l’ottica del mondo, il coltivare i progetti di pace del Padre e il coltivare i progetti di sempre, progetti di quieto vivere e di potere (sia a livello familiare, che a livello sociale, sia a livello religioso, che a livello ecclesiale). La linea di demarcazione passava attraverso la spada della Parola di Dio, perché la denuncia di Gesù del formalismo e dell’abuso del potere civile e religioso, dell’ingordigia e dell’ambizione delle classi emergenti era in sintonia con la tradizione profetica, che vedevano il compimento del progetto di Dio non nelle attività cultuali di un tempio (Ger 7,4; 8,11), né in un’osservanza puramente esteriore e formale della legge, ma nell’amore all’alleanza di Dio (Is 48,18) e nell’amore verso il prossimo (Is 58,6 ss).

L’agire di pace di Gesù era così agire misericordioso e amorevole nello stesso. La sua redenzione, termine che si può rendere anche con liberazione, era l’atto che abbracciava e sollevava nello stesso tempo. Si compiva in lui, il buon samaritano dell’umanità intera, fino a consumarsi pienamente ciò che è stato scritto dell’amore: amore è responsabilità di un io per un tu (M. Buber). In Gesù si trattava, ben inteso, di una responsabilità liberamente assunta e quindi motivata dall’amore come puro dono e il “tu” con cui egli continuamente si rapportava era il Tu del Padre e il tu di ogni essere umano, che di quel Tu primordiale è sempre espressione e sacramento.

Ma, a nostra volta, occorre dire che quando l’amore è autentico non può che ripercorrere questa stessa via tracciata dal maestro, perché l’amore dà sempre i suoi frutti e questi sono gli stessi frutti della pace: aiutare, educare, guarire, elevare, redimere[6]. Tutti verbi che indicano l’attività di Gesù. Tutti passaggi obbligati di ogni prassi cristiana e di ogni prassi della Chiesa. Termini positivi che di per sé non portano conflitti: mirano anzi alla piena realizzazione di ogni essere umano e persino di ogni essere vivente. E tuttavia la loro posività non impedisce che talora  proprio contro  i costruttori di pace si scateni l’odio e la violenza. Perché mai? La risposta ci può venire dal nostro secondo approfondimento, che sulla scia della Evangelii Nutiandi indicheremo in maniera dialettica eppure chiara come ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare.

 

2)    L’ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare

Si tratta di due aspetti della stessa predicazione e diffusione dell’evangelium pacis, che diventando efficace e producendo i suoi frutti, produce la giustizia. Oppure, detto in maniera reciproca, solo il ristabilimento della giustizia porta alla pace, per dirla ancora in latino, che in questo caso è molto più descrittivo ed esatto: pax opus iustitiae, la pace non solo effetto, ma opera della giustizia. Insomma  la pace vera prassi della giustizia.

La prassi di pace non è equidistanza o neutralità. Dio sta al fianco dei perdenti e delle vittime dell’ingiustizia, perché il suo stesso regno è un regno di giustizia. Giacché la pace è nella Bibbia sempre collegata al ristabilimento della giustizia. Talora si identifica con l’alleanza o con la legge (torah). Se Isaia nell’Antico Testamento afferma “effetto della giustizia sarà la pace” (Is 32,17), Giacomo scrive nel Nuovo: “un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace” (Gc 3,18).

Regno di Dio e prassi di pace procedono di pari passo, perché l’agire di Dio è sempre un agire misericordioso e  liberante, tendente a ristabilire il diritto leso e la giustizia violata. Il tema centrale dell’alleanza, e del conseguente regno messianico, ruota sempre intorno ad una realtà che esprime il manifestarsi storico di Dio in un regno di pace (Sal 72,3_77). Il binomio pace e giustizia è ciò che qualifica i tempi maturi del messia[7].

In conformità con quella del Padre, anche la prassi di pace di Gesù è amore verso i derelitti e i sofferenti; è chiamata degli esclusi, difesa dei condannati, ma è anche denuncia dei soprusi e delle discriminazioni civili e religiose. Osiamo parimenti asserire che su questa via Gesù chiama anche coloro che lo seguono. I suoi discepoli proseguiranno in questa prassi che porta agli uomini la riconciliazione con Dio e la riconciliazione tra uomo e uomo, tra uomo e donna, tra popolo e popolo, tra esseri umani e creazione. I primi cristiani furono chiamati «seguaci della via» perché la vita cristiana fu indicata come via (At 18,24‑26; 19,23; 22,1‑4; 24,22). Se Gesù è la Via, (essendo anche Verità e Vita [Gv 14,5‑6]) ed è contemporaneamente la Pace, il cammino sul quale siamo incamminati è un cammino di pace. E’ il cammino della sua sequela.

C’è, a questo riguardo una precisa domanda, che viene rivolta anche a noi, radunati in sinodo, a noi chiamati a prestare un servizio di riflessione e di verifica sulle modalità storiche attraverso cui annunciare il vangelo: «per chi vale il discorso della montagna?»[8]. Un interrogativo serio, che esige una risposta altrettanto precisa e non una semplice esortazione moralistica. Come comunità cristiana siamo chiamati a convertirci continuamente a Cristo. Non in un senso vago e generico, ma nella radicalità della sua sequela. Una sequela che è condivisione e continuazione della prassi di Gesù, per realizzare il progetto di pace del Padre. Ciò significa radicalità, cioè superamento della logica umana. Gesù ha chiamato proprio noi, i suoi sempre indegni seguaci, parlo in primo luogo di me, ad essere perfetti[9] (termine che può essere oggi tradotto con radicali)  nel senso che dobbiamo seguire con totale fiducia e con pieno abbandono la logica delle beatitudini e le direttive del discorso missionario[10]. Ciò costituisce il nostro vero specifico (lievito  che fermenta la pasta e sale che insaporisce di vangelo i rapporti interumani) e ci fa andare oltre quella che è stata, a ragione, chiamata religione borghese e morale accomodante. Se ciò non avviene, il nostro agire più che prassi cristiana è pratica ritualistica, e sovente nemmeno questa. La Parola di Dio invece ci spinge ad essere solidali e liberanti, perché non è né tranquillizzante né accomodante. Se così fosse, saremmo alle soglie della doppia morale[11]. Riconoscibile quando si esige rigorosità, soprattutto dagli altri, invece di radicalità. Quando si fa continuamente appello alla conversione del cuore, e si trascura la trasformazione delle strutture violente da strutture di peccato e di oppressione a strutture di salvezza e di condivisione[12]. Ora, invece, solo una simile conversione rende credibile la volontà di costruire la civiltà dell’amore. Infatti, non si può costruire una società solidale lasciando immutata un’economia  di mercato per sua natura dispotica e indifferente al dolore dell’uomo. E del resto, è illusorio pretendere davvero di cambiare l’uomo senza esigere che cambi la società. La morale cristiana è pur sempre un appello alla conversione del cuore, ma - si badi bene - alla conversione del cuore borghese e intorpidito dalla pigrizia e dal benessere. E’ questa conversione che costituisce una vera svolta epocale, una “rivoluzione antropologica”, con delle vere e proprie condizioni:

«i cittadini del primo mondo devono liberarsi non dalla loro impotenza, ma dalla loro superpotenza, non dalla loro povertà, ma semplicemente dalla loro ricchezza, non dalla loro penuria, ma dal loro totale consumismo, non dalla loro sofferenza, ma dalla loro apatia...»[13].

La vera conversione richiesta dal discorso della montagna è conversione integrale, giacché la morale comunitaria ed evangelica  salda insieme l’elemento collettivo con quello storico e la liberazione della singola persona con la solidarietà concreta,  nelle strutture sociali e verso gli altri popoli. La predicazione non può né deve ignorarlo, se non vuole ridursi a parenesi esortativa che non smuove l’esistenza, né riesce a cambiare la società. Se talora si consola pensando di cambiare i cuori, presto si accorge di non aver cambiato nemmeno quelli. Accade allora che ci si illude di pervenire solo alla pace interiore. In realtà si rinuncia a considerare la globalità del progetto di Dio e l’estensione storica e sociale della pace di Cristo.

Il progetto di pace richiede, allora, che si guardi alle strutture sociali, alla fame e alla sete reale, che è fame e sete di giustizia, oltre che anelito verso un mondo più armonioso. Occorre prendere coscienza che noi apparteniamo a quella parte dell’umanità che ancora commette il peccato sociale. Con un’aggravante: viviamo in un’epoca storica che ha visto la delusione dei grandi progetti collettivi, mentre nuove mode impongono termini e programmi come privatizzazione ed economia di mercato. Ecco uno dei nuovi idoli da cui si aspetta automatica e inarrestabile salvezza: l’economia di mercato. Solo per portare un esempio. Anche su questo ultimo idolo siamo chiamati a prendere posizione.

In generale, occorre ribadire che non ha senso parlare di impegno per la pace se non si è mossi dalla  pace. Sì, è vero, il mondo, anche quello a noi più vicino,  è ancora pieno di persone che non si rassegnano alla violenza dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri, dei detentori della parola su coloro che subiscono e tacciono. E tuttavia si tratta di sentimenti e di reazioni momentanee che di solito restano inefficaci perché non vanno al di là dello sfogo individuale o della protesta personale ed episodica. Anche gli ideali utopici, ma non per questo illusori, di una convivenza umana fraterna e solidale rischiano di risultare sterili, perché sono aspirazioni di singoli che non hanno ancora cominciato a condividere le loro utopie. Oppure, essendo stati condivisi, in alcune forme di collateralismo, sono stati logorati nell’esercizio di un potere che di fatto ha tradito l’ispirazione cristiana e talora anche la pura e semplice legalità oggettiva.

Che cosa resta da fare ancora? Resta la cosa più difficile, ma anche la più esaltante: socializzare la protesta contro l’ingiustizia, rendere comunitaria l’instaurazione della giustizia, scegliendo l’educazione alla legalità come una delle vie privilegiate attraverso le quali storicizzare la speranza e il riscatto del nostro Sud. Dare carne storica e respiro sociale, restituire valore collettivo a una fede che abbiamo privatizzato. In definitiva: Deprivatizzare la fede, e condividere una progettualità che assuma i “progetti di pace” come progetti concreti e realistici. Socializzare la speranza, nella convinzione che l’amore di Dio è un fatto personale e pubblico e che la sua salvezza è una realtà individuale e politica nello stesso tempo. Carità personale e pubblica, individuale e politica, esistenziale e storica. E’ quanto vedremo più da vicino nell’ultimo punto di questo contributo.

 

3)    Le vie della carità come vie dell’autentica liberazione

Tutto ciò che abbiamo rimarcato nasce forse da un’opzione ideologica? Nasce dall’adesione a un qualche filosofia o concezione  teorica della realtà lontana dalla rivelazione e dall’Evangelo di Gesù? E’ lontano dalla verità, e alla lunga cade anche in mala fede, chi  sospettasse una cosa del genere. Così come si allontana dalla fonte primaria dell’Evangelo chi cercasse motivazioni  essoteriche al suo impegno per la pace e per la giustizia, trascurando le sue radici nella carità di Dio. Perché, al contrario, proprio essa ci urge nel cuore e nella mente e mette impazienza e persino ali ai piedi:

«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”. Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,7-8).  

La comunità cristiana che vive la radicalità del vangelo è per sua natura missionaria: annuncia la lieta notizia di rapporti liberanti e perciò riconciliati. Corre ad annunciare il vangelo della pace. Si mette a raccogliere quanti sono mossi non solo da intenti di pace, ma anche dalla volontà di socializzarli, condividendoli con tutti, ma in particolar modo con i più colpiti dalle tante forme in cui si esprime la violenza: con i più poveri ed i più deboli della società in cui viviamo. Ciò verso cui si muove è anche ciò che la smuove: l’aver scoperto che l’uomo è più grande delle sue miserie e che il mondo può essere effettivamente più bello di come ci appare. La comunità cristiana che vive la radicalità del vangelo asseconda la spinta in avanti verso una migliore qualità della vita, perché ama la vita in tutte le sue manifestazioni. Nei suoi tanti colori e nelle infinite forme in cui essa si esprime. Nelle diversità tra singoli e popoli, razze e culture, che lungi dall’essere una deficienza,  costituisce una ricchezza e uno stimolo a costruire rapporti e a tessere trame di amicizia.

E ancora: la comunità cristiana che vive la radicalità di Cristo progetta e realizza un’effettiva educazione alla pace. Sensibilizza i giovani verso le forme del servizio civile, attraverso cui si servono i più bisognosi e dimenticati, forma le coscienze al superamento nonviolento degli immancabili conflitti, inculca nei giovani il rispetto verso l’ambiente, propone le scelte della sobrietà, della semplicità e del servizio agli altri come nuovi percorsi attraverso i quali passa oggi la testimonianza cristiana e in fin dei conti l’evangelizzazione.

In definitiva, la comunità cristiana che si converte al vangelo, accetta di mobilitarsi per la pace partecipando dell’unico impegno di pace che  viene da più lontano di noi e che ci porta anche oltre i nostri progetti più audaci: quello di Dio. Si sente travolta dalla corrente della carità di Dio, trascinata da Dio, che è la stessa Carità sussistente. Colui che per primo si è mosso verso di noi perché per noi si è commosso e sempre si commuove. Nella persona di Cristo ci è venuto incontro per accompagnarci nel cammino e attraverso lo Spirito del Cristo risorto ci spinge a scorgere sempre un raggio di luce anche nelle tenebre più fitte, a cogliere ancora il fiotto della vita anche lì dove sembra regnare la morte, a intravedere il germoglio della speranza anche nelle situazioni senza apparenti via d’uscita. La comunità cristiana che vive la radicalità del vangelo è pertanto cammino, ma è cammino avanzato: non ha altri riferimenti che quelli del suo maestro, di cui porta il nome e che intende seguire fedelmente, anche quando la sequela diventasse faticosa e incompresa. Ma anche in questo caso - e soprattutto in questo caso - l’agire di chi segue Gesù non sarà mai improntato ad arroganza, né alla ricerca di gratificazioni o di potere. Senza presumere di incarnare la profezia (che rimane sempre un dono che Dio elargisce liberamente a chi vuole), la sequela del Signore e l’esempio di coloro che hanno già segnato il cammino della pace, la spingeranno verso quelle posizioni umanamente più scomode, ma evangelicamente più radicali che testimoniano la vita e l’amore preferenziale verso le vittime dell’incomprensione e della violenza. Verso le vittime delle nuove violenze che si chiamano disorientamento giovanile e disoccupazione, droga ed AIDS, immigrazione e odio razziale, individualismo e pansessualismo. Con queste e con le altre vittime di violenze occulte e palesi, strutturali ed istituzionali, noi cristiani ci sentiamo spinti dall’amore di Dio, dall’amore che è Dio, a solidarizzare, per fedeltà a Cristo e alla sua vocazione, perché, in definitiva, la pace è testimonianza della verità e della permanenza dell’amore anche contro ogni altra evidenza. Pace è coraggio di credere veramente all’amore.

 



[1]Paulus VI, Sermo habitus ineunte tertia Synodo Episcoporum, 27 septembris 1974: AAS 66 (1974), 532.

[2]Evangelii Nutiandi, n. 31: Enchiridion Vaticanum 5, n. 1623.

[3]Cf. Varcare la soglia della speranza, 61-62.

[4]Varcare, la soglia della speranza, 63.

[5]Così come si trova in alcune accurate traduzioni di questo passo, il Messia è la Pace e non piuttosto egli porterà la pace. Cfr. Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca, che traduce: Errore. L'origine riferimento non è stata trovata..

[6] M. BUBER, Ich und Du, Heidelberg 1983(11.a), 22.

[7] Lo ripropongono i salmi, come tema dominante sebbene con variazioni. Così, ad esempio, il salmo 85: "misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra e la giustizia  di affaccerà dal cielo" (Sal 85,11-12). Altri associano la giustizia e il diritto della prassi regale di Dio alla grazia e alla fedeltà (Sal 89, 15; Sal 97, 1-2). Con un concetto di giustizia che non condanna, ma si impietosisce e chiama continuamente alla conversione, perché il Dio dell'alleanza resta sempre "misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà", avendo sullo sfondo i termini della stipula dell'alleanza con Mosè (Es 34,6). Fino ad arrivare a Zaccaria, dove la pace è in rapporto con la verità, in un contesto di salvezza messianica (Zc 8,19), anzi  la salvezza nasce da un "seme di pace" (Zc 8,7_8.12). Si può dire che il messianismo fiorisce dalla pace perché alleanza e pace sono spesso sinonimi. La pace determina spesso l'alleanza, chiamata alleanza di pace (Nm  25,12; Is 54,10; Ez  34,25), mentre Malachia parla dell'"alleanza di vita e di pace" (Ml 2,5).

[8]Cfr. G. LOHFINK, Per chi vale il discorso della montagna? Contributi per un'etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990.

[9]"Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48).

[10]Ivi, 49ss.

[11]Un fenomeno che risale all'epoca di Costantino, quando la radicalità evangelica fu ritenuta  compito solo di alcuni prescelti: cfr. "la morale del doppio binario", in  G. MATTAI, "Verso una 'coscienza teologica' della pace", in Il problema della pace tra filosofia e politica, Edizioni Augustinus, Palermo 1986, 17. Di G. Mattai cfr. anche ID., Oltre le sabbie mobili. Contributi del Magistero all'etica sociale, SEI, Torino 1992.

[12] Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.. Sarebbe illusorio pretendere di ottenere risultati di strutture "giuste" senza modificare, o prima di modificare la moralità delle coscienze. Ma non meno illusorio sarebbe il pensare ad una vera conversione delle persone, lasciando tra parentesi per un tempo futuro il problema delle strutture della convivenza reale» (S. Bastianel, , in Id. (ed.), Strutture di peccato. Una sfida teologica e pastorale, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1989, 37-38).

[13] J. B. Metz, Jenseits bürgerlicher Religion. Reden über die Zukunft des Christentums, Kaiser-Grünewald, München/Mainz 1980, 100.