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Giovanni Mazzillo

Rivelazione, comunicazione e irreversibilità dell’amore in un contesto di dialogo interreligioso (Articolo per Vivarium, Vivarium 9 ns (2001) 43-62)

Sommario

L’articolo mira ad individuare la realtà dell’amore, a partire dall’amore di Dio e da Dio che è amore, come fonte e dinamismo dello stretto rapporto tra rivelazione e comunicazione. Presenta la rivelazione stessa nei termini di tale comunicazione dell’amore di Dio, che, mentre si rivolge a una realtà storica ben precisa, quella giudaico-cristiana, si apre nondimeno dei varchi nel cuore di ogni uomo e nelle diverse realtà da questi abitate. Dopo aver approfondito le conseguenze dell’amore nell’irrevocabilità del progetto salvifico di Dio, di cui parla la Bibbia (punto 1), cerca di cogliere le tracce della sua comunicazione come realtà che nasce dall’amore e tende all’amore, anche presso altre religioni. Sintetizzare alcune nozioni sulla “rivelazione” e sull’amore presso alcune religioni (punto 2), e documenta infine la specificità della rivelazione giudaico-cristiana nell’autocomunicazione di Dio in particolare riferimento al Vaticano II (punto 3).

0) Premesse

L’obiettivo di questo contributo è di evidenziare, con l’indicazione esplicita e diretta del rapporto tra rivelazione e comunicazione, la ragione profonda che le tiene insieme. È l’insuperabile risorsa che appare a conclusione della rivelazione giudaico-cristiana, ma che ne è sempre stato il suo motore segreto e anche la sua motivazione originaria e fondamentale: l’amore di Dio che si comunica e Dio in quanto amore che comunica se stesso all’umanità intera. Partendo dalla irrevocabilità del progetto salvifico di Dio, di cui parla la Bibbia, ci sembra pertanto possibile cogliere le tracce della sua comunicazione come realtà tendente all’amore, anche presso le altre religioni, almeno in alcuni esempi che ci è stato più agevole documentare. Dobbiamo precisare ancora che non vogliamo minimamente inficiare il valore dell’annuncio cristiano da portare a tutti gli uomini[1], ma solo indicare come lo Spirito Santo preceda spesso l’annuncio esplicito del vangelo di Cristo. Ciò faciliterà non solo la comprensione e la valorizzazione di quanto di positivo troviamo negli altri uomini e nelle altre religioni, ma ci aiuterà a contestualizzare e quindi a calibrare meglio l’annuncio missionario.

1) Irrevocabilità del progetto salvifico di Dio

Riteniamo di poter partire dalla considerazione che se la rivelazione storica di Dio nel giudaismo-cristianesimo, che conosciamo e alla quale aderiamo, è rivelazione dell’amore, l’amore ha una sua dinamica, che si esplica e si esprime, si evolve e si storicizza con una sua consequenzialità che non dovrebbe essere difficile ricostruire proprio a partire dalla storia della rivelazione. Inoltre: se la rivelazione alla quale ci riferiamo è rivelazione non solo nella storia, ma della storia[2], essendo rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, essa è anche manifestazione di un amore che non si ferma di fronte alle difficoltà che incontra nel suo cammino. Essa attesta un amore irreversibile. D’altra parte ci sembra di poter cogliere una convergenza con quanto qui affermato della rivelazione anche da un’intuizione, che qui non possiamo approfondire oltre, ma solo indicare come di grande interesse su un piano più fenomenologico: e cioè che l’amore, quando è autentico, è caratterizzato dall’irreversibilità. Vale dire che si contraddistingue come amore “senza ritorno”. In un doppio senso: anche se non corrisposto, l’amore vero (amore che vuole il bene dell’amato/a e pertanto è pronto ad offrisi per lui/lei) è un amore che continua ad amare, anche scontrandosi con l’ingratitudine, l’insensibilità, l’indifferenza. Giacché è amore oblativo, cioè amore che si dona, esso continua a donarsi, non dipendendo in questo dal successo o dall’insuccesso. Se così non fosse, non sarebbe amore oblativo, ma solo amore che vive e si alimenta del contraccambio. In secondo luogo, l’amore è irreversibile perché è irrevocabile. La sua persistenza si può chiamare anche fedeltà e immutabilità. Siamo infatti del parere che l’amore autentico, come è di ogni cosa che è frutto dello Spirito, tende a persistere non solo nel tempo, ma anche al di là di esso. Se tutto ciò si può cogliere nella fenomenologia dell’amore umano, ha comunque un sua chiara corrispondenza nell’amore di Dio che è testimoniato dalla Bibbia.

Le scritture giudaico-cristiane affermano ripetutamente che l’agire di Dio è senza ripensamenti e pertanto è irrevocabile. La sintesi di una irrevocabilità che abbraccia l’alleanza prima di Cristo e quella di Cristo è espressa compiutamente nella lettera agli Ebrei, dove si trovano passaggi come questo:

«Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento perché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi che abbiamo cercato rifugio in lui avessimo un grande incoraggiamento nell’afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti. In essa infatti noi abbiamo come un’ancora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchìsedek»(Eb 6,17-20).

I due atti irrevocabili sono certamente il frutto di un particolare modo di essere di Dio, che non può smentire sé stesso e nemmeno rinunciare ad adempiere le sue promesse, come confessava già il libro dei Numeri: «Dio non è un uomo da potersi smentire, non è un figlio dell’uomo da potersi pentire. Forse Egli dice e poi non fa? Promette una cosa che poi non adempie?» (Nm 23,19). È una testimonianza cui fanno seguito anche altri passi biblici, tratti tanto dalla letteratura sapienziale che da quella profetica[3]. Ma che trova la sua piena conferma anche nel secondo Testamento, che coglie continuità e compimento della fedeltà di Dio nella predicazione e nell’agire di Cristo[4].

È l’argomento cardine di Paolo, che, ripensando all’alleanza di Dio con gli Ebrei, pur rammaricandosi del loro atteggiamento ostile, non poteva sottacere dell’irreversibilità dell’alleanza e dall’amore di Dio, che ne era garanzia e fondamento:

«Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!» (Rm 11,28-32).

I testi della seconda alleanza, contengono altri aspetti sull’irreversibilità dell’amore di Dio. Soprattutto gli scritti giovannei e paolini insistono sulla intensità dell’amore con cui Cristo ha amato gli uomini, fino a dare se stesso[5]. In questa maniera la rivelazione manifesta, con l’intensità dell’amore di Dio, anche la sue estrema conseguenze: la sua coerenza che persiste oltre a morte. Di più: si potrebbe dire che l’amore non teme di esser distrutto nemmeno dal rifiuto peggiore che si possa mai dare sulla terra: l’eliminazione da parte dell’amato. Anche per questo, soprattutto per questo, l’amore è più forte della morte[6].

2. Le altre religioni e le tracce dell’amore di Dio che si rivela

L’amore ci viene pertanto rivelato e con esso anche la sua irrevocabilità. Nella rilevazione giudaico-cristiana esso si manifesta in definitiva come amore pieno, totale, coerente. Ci chiediamo ora se possiamo ritrovare anche in altre religioni, coerentemente con la dottrina dei semina Verbi, alcune tracce della rivelazione di Dio come amore. La domanda riguarda la comunicazione dell’amore di Dio e si può formulare in questi termini: Sebbene, secondo la teologia cattolica, una rivelazione di tal genere non avvenga nelle altre religioni nella stessa maniera, diretta, storica ed esplicita, che conosciamo dalla Bibbia, è tuttavia possibile che sia avvenuta ed avvenga “come a tentoni”(At 17,27) e “come in uno specchio, in maniera confusa” (1Cor 13,12)? La domanda è supportata dalla constatazione che se resta vera l’affermazione cardine dell’antropologia teologica che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e se è altrettanto vero che Cristo, incarnandosi si è unito ad ogni uomo, dobbiamo concludere che l’amore di Dio, espresso ed incarnato in lui, si apre qualche strada di manifestazione anche tra quanti non l’hanno conosciuto in maniera storica ed esplicita. Alla domanda si può comunque rispondere solo con un ragionamento articolato. La risposta include: a) che ci sia qualche forma di autocomunicazione di Dio anche negli appartenenti alle altre religioni; b) che tale comunicazione non sia solo di natura etica o di indole dottrinale, ma al contrario, c) sia la manifestazione di un’autentica volontà d’amore da parte di Dio.

La prima condizione è che la rivelazione non si riduca a una trasmissione di nozioni,  né alla manifestazione di alcune verità, suscitando per giunta nel destinatario la pretesa del possesso della Verità. Ha ragione chi dice che l’origine greca della parola Verità in quanto ajlhvqheia rimanda a una radice, che più che indicare solarità e pienezza autoevidente, indica invece l’uscita dall’oscuramento o dall’oblio. Nella locuzione ajlhvqh”, che significa vero, l’a privativa davanti lhvqh (oblio, dimenticanza) sembrerebbe significare la negazione della dimenticanza, la fine dell’inaccessibilità[7]. Se la nozione di verità è una derivazione concettuale greca, con essa si mette in primo piano il dato inaccessibile reso ora accessibile. Conserva tuttavia una connotazione più dottrinale, o al massimo oggettuale, ma sembra non dica nulla sul piano interpersonale dei soggetti che interagiscono di fronte alla realtà manifestata. Dobbiamo concludere che, sebbene alla verità sembri collegarsi, sul piano logico, immediatamente la parola, il mondo greco bada più al lovgo” come suprema ed intima ragione ordinatrice del cosmo, che alla parola in quanto strumento di comunicazione intersoggettiva.

Ben altra cosa si riscontra invece nelle radici equivalenti ebraiche. Qui la verità non è processo di superamento dell’oscuro, ma approssimarsi di persone, è avvicinamento fino al reciproco impegno. La verità è ‘èmet che vuol dire principalmente fedeltà, una fedeltà che si estende a Dio e alla sua parola[8]. Il termine indicante la parola è dabar, il cui significato può essere meglio determinato dall’attività di colui che parla, in genere Dio, che interloquisce con i patriarchi, i profeti, il credente o lo stesso suo popolo[9]. In ogni caso, si tratta anche qui di un concetto interpersonale, più che razionale, e ciò distingue abbastanza considerevolmente il significato greco da quello ebraico. Nell’ottica biblica, che colloca spesso la parola rivolta da Dio ai suoi destinatari sul piano dell’appello diretto, non è certamente una forzatura vedere la verità e la parola come direttamente collegate alla comunicazione dell’amore di Dio. Ciò accade in due sensi: 1) Dio manifesta agli uomini la verità del suo amore per loro attraverso la sua parola; 2 ) Dio manifesta la sua identità di rivelante che ha a cuore le sorti dei suoi destinatari e si dà a conoscere come colui che ama.

Tutto ciò è già realtà nel giudaismo-cristianesimo; ci chiediamo però se abbia una qualche traccia corrispondente in fenomeni religiosi presenti nel mondo extrabiblico. In maniera ugualmente sintetica, possiamo affermare intanto che la fenomenologia delle religioni può documentare come il rapporto dell’uomo con l’Assoluto passi attraverso forme che prevedono sia la tradizione orale, sia la stesura, la conservazione e la venerazione di testi scritti. Anche alcune forme religiose più arcaiche (chiamate sovente “tribali” o “primitive” e talora confinanti ancora con la magia) contengono come cardine dell’attività religiosa l’esecuzione di segni grafici o di parole particolari, spesso segrete, alle quali viene dato un significato non solo simbolico, ma anche soprannaturale[10].

Nelle forme più evolute i testi sacri sono ritenuti una sorta di emanazione del divino e pertanto sono venerati prima ancora che come testi dottrinali, come strumenti privilegiati che consentono di entrare in contatto con la divinità. La parola scritta è, come nel mondo biblico, sempre in riferimento alla tradizione orale. Spesso deriva da essa come sua cristallizzazione. Gli oracoli sibillini, ad esempio, erano stati raccolti in libri particolari, che i romani aprivano e leggevano in momenti di calamità o di pericolo nazionale, al fine di ricavarne indicazioni salvifiche. In altri casi si ritiene che la volontà di Dio sia stata comunicata attraverso una lettera celeste, un testo che Dio stesso o un suo Angelo ha redatto per il bene degli uomini. Si tratta di una verbalizzazione di una volontà di salvezza che viene direttamente dal cielo e istituisce gli uomini che ne vengono in possesso[11]. Sono noti gli scritti dell’induismo, i Veda, datati tra il 1700 e il 600 avanti Cristo e quelli del buddhismo, i testi raccolti nel cosiddetto triplice canestro (Tripitaka) che sono venuti al termine di una lunga fase di tradizione orale[12].

In estrema sintesi, le religioni, che per il loro diretto riferimento alle forze naturali, chiamiamo a tipologia cosmica, conoscono certamente la tradizione orale, che è di fondamentale importanza per i miti, i quali contengono le indicazioni di fondo per vivere in pace ed essere felici. Sono sovente collegati alle origini delle tribù o dei popoli di appartenenza, ai riti da compiere per avere benessere e prosperità, per essere guariti in caso di malattia o reintegrati in caso di colpa verso la/le divinità. Talora hanno anche dei segni scritti, che quando non sono veri e propri simboli fonetici che esprimono tale rapporto salvifico, sono segni grafici ai quali si dà un valore di potenza al di là dell’umano. Dal loro versante, le religioni a tipologia antropologica, chiamate così per l’importanza che vi assume l’uomo (considerato nella sua esistenzialità individuale oltre che collettiva e relativamente al problema della sua felicità) hanno spesso testi scritti veri e propri, che si ritiene manifestino la volontà divina o che sono venerati come strumento di comunicazione con il divino. Le religioni dette a tipologia storica, come l’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo, danno una tale importanza al testo sacro, da essere chiamate le «religioni del libro». Del Corano, infine, l’interpretazione ortodossa esige l’ispirazione anche nella sua materialità letteraria e fonetica[13].

Certamente soprattutto in questi casi, i processi umani che portano dall’esperienza religiosa alla tradizione orale e da questa al testo scritto sono i medesimi; resta certamente il problema di inquadrare in un’adeguata ermeneutica il testo e il suo effettivo valore “rivelatorio”. Le tendenze vanno dal biblicismo letterario di natura estrinsecista (intervento di Dio diretto, in piena conformità alla forma narrata negli scritti) a quella della demitizzazione radicale (lo scritto è il rivestimento mitico di una verità esistenzialmente determinante per l’uomo)[14]. Ai fini della risposta al nostro quesito, se cioè ci sia nella nostra prospettiva cristiana una qualche comunicazione dell’amore nelle altre religioni, si deve, in generale, ammettere innanzi tutto la natura non semplicemente noetica o morale, ma piuttosto esistenziale e significativa per la vita personale e comunitaria assunta tanto dalle loro tradizioni orali e/o scritte. Queste infatti sono collegate alla volontà divina o all’Assoluto che salva l’uomo o risolve alcuni suoi problemi impellenti (ad esempio, carestia, malattia, morte) o anche ad una Sapienza di grado superiore che lo libera da ogni affanno, fino a liberarlo da se stesso (come succede nel Budhismo).

La seconda condizione, per rispondere al nostro quesito, riguarda l’effettiva tematizzazione dell’amore nelle religioni. Partendo dal presupposto che l’amore sia fondamentale nell’esperienza umana[15], per noi resta innanzi tutto vero che «la specifica originalità del messaggio cristiano» sia da collocare nell’orizzonte dell’esperienza universale dell’amore. Aggiungiamo, tuttavia, che occorre prestare maggiore attenzione proprio all’universalità di quest’esperienza, simile all’esperienza della religione, per cogliere meglio il rapporto che esiste tra di esse. Nel caso della rivelazione giudaico-cristiana è apparsa esagerata e perfino fuorviante l’insistenza sulla specificità dell’amore come caratteristica esclusiva del cristianesimo, al punto di affermare che l’Antico Testamento contrassegnerebbe l’età della paura, a differenza del Nuovo indicato invece come il Testamento dell’amore. Sebbene ciò sia stato affermato nella foga della polemica antigiudaica o per sottolineare il valore del cristianesimo[16], non occorre mai dimenticare che la rivelazione di Dio alla quale crediamo è fin dall’inizio autocomunicazione dell’amore e pertanto che l’amore non manca affatto anche nella prima alleanza. Ciò non inficia la pur legittima domanda sulla particolarità della seconda, che semmai sviluppa e porta alle ultime conseguenze quanto era già nella prima, ma non la innova mai con soluzioni di continuità.

Ci si può ancora legittimamente chiedere quale sia il nuovo del Nuovo Testamento[17], ma non si potrà arrivare ad altra conclusione che questa: non valgono né la coppia di concetti contrapposti come timore-amore, né quella di legge-grazia e nemmeno quella di osservanza rituale-purezza interiore. Non è infatti difficile dimostrare la presenza dell’amore, in tutte le sue sfaccettature, anche nella prima alleanza[18], perché proprio l’amore, al pari della giustizia, della fedeltà e dell’interiorità, è il succo dello messaggio profetico. Se tutto ciò non costituisce una novità assoluta del messaggio e della prassi di Gesù, la novità sembra debba essere piuttosto cercata in un’altra direzione: nella riconvocazione che Gesù faceva del popolo d’Israele, come suo popolo e del quale egli si sentiva il pastore; un popolo che Gesù istruiva e consolava, guariva e nutriva[19]. Secondo la concezione cristiana, la seconda alleanza annuncia l’irruzione nell’oggi di un futuro che la prima alleanza vedeva ancora da lontano. La rivelazione di Gesù è annuncio che di fatto il regno è venuto; i segni da lui compiuti lo attestano e al regno sono tutti invitati[20]. L’amore è ormai celebrato come invito e convito offerto a tutti, nella convivialità che Gesù vive in prima persona, accettando di essere invitato e invitando a sua volta il suo popolo, a partire dal gruppo dei suoi discepoli. Egli appare nella doppia veste di invitato che invita, già nel banchetto nuziale di Cana, un banchetto che nella sua stessa simbologia evoca l’amore di Dio come sposo della sua comunità che ne è la sposa. L’amore ora è svelato e si autopresenta, perché Gesù manifesta la sua identità: «Così Gesù diede inizio ai suoi segni in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». (Gv 2,11).

Ribadita la centralità dell’amore nel giudaismo-cristianesimo per la comunicazione del divino, occorre dire che le altre religioni con l’esperienza di una volontà benefica da parte di Dio contengono anche riferimenti all’amore che a questa si collega. Ai precedenti accenni in tal senso occorre aggiungere qualche altra precisazione, a partire dal principio della religione come «sistema aperto»[21]; un principio che fa considerare le altre forme religiose non come concorrenti da eliminare, ma come luoghi e occasioni della comunicazione di Dio all’umanità[22]. In questo contesto, si può raccogliere, tanto dai testi del magistero della Chiesa cattolica quanto da alcune affermazioni di rappresentanti di altre religioni o di uomini saggi, la diffusa convinzione che le religioni sono in rapporto a quel più generale movimento umano alla ricerca della verità, una verità non astratta, ma come dicevamo, senso dell’esistenza e offerta di salvezza per l’uomo[23].

Per il cattolicesimo postconciliare ciò corrisponde al segreto dinamismo continuamente suscitato dallo Spirito di Dio nella storia dei singoli e dei popoli; per gli altri, invece, la presenza e l’entità di qualcosa che spinge l’uomo in avanti è variamente concepita e formulata. Non è questa la sede per riferire diffusamente sull’argomento, che appartiene allo studio delle religioni. Vogliamo solo confermare la recezione cattolica sul rapporto tra lo Spirito di Dio e qualsiasi uomo, considerato non solo, come era nella tradizione, come singola esistenza, ma anche  come realtà integrata e interagente nelle forme storiche e culturali dei diversi popoli di appartenenza. Lo affermano espressamente testi come questo che  riportiamo:

«La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino: “Con mirabile provvidenza egli dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra”»[24].

In definitiva la strada dell’incontro tra gli uomini e i popoli passa attraverso lo Spirito Santo, che – come appare evidente anche da altre affermazioni magisteriali - è comunque lo Spirito dell’amore e che suscita appunto l’amore in ogni uomo e in ogni popolo[25]. Se nella sua vita intima Dio è amore e quest’amore è «essenziale» e comune alle tre divine Persone, è pertanto lo Spirito Santo ad essere ipostasi dell’amore interpersonale, in quanto Spirito del Padre e del Figlio[26]. Precisando la natura dei quest’amore, lo Spirito appare innanzi tutto come amore-dono increato, che nella realtà intima del Dio (ad intra) è dono puro e reciprocità d’amore tra le Persone divine. Verso la realtà esterna alla vita unitrinitaria di Dio (ad extra), l’amore è poi la caratteristica e la motivazione più intima della volontà di salvezza di Dio nei confronti degli uomini. Ciò abbraccia tutti i momenti della rivelazione salvifica dalla creazione all’incarnazione, dall’agire di Gesù, mosso dallo Spirito, alla sua morte e risurrezione, dall’agire della Chiesa fino alla parusia[27].

Chiedendoci quali siano le tracce che questo amore abbia già storicamente lasciato e continuamente imprima nelle religioni, non possiamo che rifarci a qualche esempio dal mondo delle religioni, un mondo particolarmente vasto, tanto da apparire sconfinato. Intanto vale la pena annotare ciò che la stessa fenomenologia delle religioni ha già segnalato: l’uomo fa l’esperienza del numinoso in un duplice aspetto che lo sorprende con il suo fascino e il suo sgomento (in quanto mysterium fascinans et tremendum). Anche partendo da questa base minimale che accomuna le religioni, si potrà notare la presenza dell’amore nell’esperienza del fascino che colma l’animo di stupore[28]. L’assoluto, colto nella religione, attira e incute trepidante attesa nello stesso tempo, come tutti i grandi sentimenti, appunto come l’amore.

In alcune delle grandi religioni più note si trova qualcosa di più che non semplici tracce remote, perché l’amore vi appare in forme espressive che lo mediano come recezione dell’amore dell’uomo verso il divino e anche come approssimarsi del divino verso l’uomo. L’amore che nel giudaismo-cristianesimo appare come benevolenza di Dio e dedizione dell’uomo a Dio e ai suoi simili (vedi ajgavph, carità) trova, ad esempio, una prima corrispondenza in ciò che nell’induismo è chiamato bhakti, che in un senso più immediato è tradotto attaccamento e devozione alla divinità. Ma la bhakti non è soltanto questo, è manifestazione del divino, perché costituisce la mediazione personificata della volontà divina di partecipare alla sorte umana[29]. È condivisione nei due sensi del termine: partecipazione di Dio alla sorte umana e comunicazione con l’”essenza” della divinità adorata dal credente[30]. Ciò è opera della terza persona della trimurti divina[31], Visnu, il beato (bhagavat) che rende beato anche il fedele. Tale dottrina, che fa pensare all’opera dello Spirito Santo e al mistero della “comunione” da lui operato, è presente soprattutto nello scritto sacro detto Bhagavadgita. L’amore comunicato dalla divinità è uno dei casi nei quali l’azione divina supera qualsiasi barriera, anche quella della rigida divisione del popolo in caste. La bhakti, vale infatti per tutti e tutti unisce con Dio.

Nel buddhismo le corrisponde la karuna, che indica la compartecipazione positiva, un atteggiamento non vittimistico, ma solidale con la sorte degli altri, fino a diventare «gioia nella gioia altrui» (mudita). Si tratta di stati esistenziali, diremmo nel nostro linguaggio, più che di atteggiamenti etici o di sentimenti o stati piscologici. Sono veri e propri modi di essere, come quello indicato dalla parola maitri (in pali metta) che significa «bontà tutta d’amore» ed è uno degli stati sublimi[32]. È ciò che viene indicato anche come la «dimora di Brahma», divinità senza odio, che comunica con i credenti chiamati ad abitare in lui. Il buddhismo, pur nella diversità delle sue scuole, ne sottolinea l’estensione e la profondità. La bontà tutta d’amore abbraccia tutti gli esseri, compresi i malvagi, che sono quelli che ne hanno più bisogno.

Non sono che scarni riferimenti alle due religioni orientali più importanti, ai quali sarebbe da aggiungere il duplice aspetto dell’amore presente nell’islamismo, in cui la devozione come sottomissione radicale a Dio si accompagna alla misericordia verso il prossimo, essendo quasi un’emanazione della prima. Nel Corano l’idea dell’amore di Dio per l’uomo compare molto frequentemente. È presente nei nomi stessi di Dio, tra i quali sono da ricordare «il clemente», «il misericordioso», «il generoso», «il donatore», «il benevolo»[33]. Dio è colui che perdona gli errori e, nonostante la sua trascendenza, è continuamente accanto a chi lo invoca. Sono solo esempi di ciò che, con uno studio mirato, potremmo ritrovare anche nelle altre religioni e in non poche culture o visioni complessive della vita. In alcune di esse l’amore appare in forme non completamente comprensibili alla nostra sensibilità, oppure, in maniera ancora più generale, come movimento che va dall’imperfetto al perfetto[34], in altre è da cogliere come senso di partecipazione e di solidarietà alle sorti comuni, e in altre ancora come unione con la totalità e con l’Assoluto. Comunque sia, si deve concludere, che l’amore, al pari della sua rivelazione, è presente, anche se talora in forma seminale, in ogni autentica esperienza religiosa. Non può essere diversamente. Se ogni anelito verso l’Assoluto è nostalgia e cammino verso la comune origine, l’uomo non può aver del tutto cancellato le tracce dell’amore al quale deve la vita e la stessa ricerca. Le religioni manifestano anche segnali che indicano almeno il desiderio ardente di un cammino di Dio verso l’uomo[35].

3         L’inscindibile rapporto tra comunione e comunicazione dell’amore

Le nostre considerazioni sulle tracce della rivelazione dell’amore anche nelle altre religioni ci riconducono al cuore del tema sulla rivelazione come comunicazione. Ritornando alla nostra matrice giudaico-cristiana, il principio dialogico ci è apparso il principio di un’originaria, insopprimibile relazionalità. Nell’uomo questo principio indica che la comunicazione appartiene alla stessa natura umana. In Dio può indicare la relazionalità come costitutiva sia della vita intratrinitaria che dell’agire di Dio al di fuori di sé.

La Parola di Dio (il Logos greco e il Verbum latino) esprime un atto relazionale fondamentale, indica un pro-tendersi e un darsi, un relazionarsi, che mentre si comunica, comunica anche la vita secondo il suo modo di essere. «In principio era il Logos», dice l’evangelista Giovanni, che aggiunge: «e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio» (Gv 1,1). Il resto del prologo giovanneo dimostra ampiamente che la natura del Verbo non è incomunicabile e monadistica, anzi, per il fatto che è il Verbo di Dio, è il primo e più fondamentale pro-tendersi, si potrebbe dire che è il darsi più proprio e più intimo, più reale e più ineffabile che esista, quello di Dio. È questo darsi originario ed insopprimibile di Dio, il Logos, l’espressione e la relazione per eccellenza. È la prima e la più grande Parola che risuona nel silenzio, dando senso al silenzio e che illumina le tenebre facendo scorgere i confini tra luce e tenebre. Egli è vita ed è luce per gli uomini (Gv 1,4), perché è Luce da luce, Vita da Vita. La Parola allora è Messaggio, vita che si trasmette come tale, perché viene tra gli uomini a portare la «buona notizia» dell’amore di Dio. La Parola è Vangelo ed è «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).

Tutto il prologo illustra un’asserzione che è sottostante al testo di Giovanni ed è coerente con la concezione giovannea: la Parola era ed è il protendersi dell’amore, è la vocazione all’amore. È la Parola della Comunione trinitaria che chiama alla vita comunitaria. Si potrebbe dire che in principio era il Logos, ma non il monologo, in principio era il dia-logos, il dialogo, appunto. Senza voler insistere oltre su questo punto, se la Parola di Dio è l’inizio di ogni altra parola, il Dialogo che è in Dio è fondamento ed inizio di ogni altro dialogo, e pertanto la comunione che è in lui è e fonda la comunicazione tra Dio e gli uomini e anche tra uomo e uomo.

La comunicazione, al pari della comunione, di cui è espressione e forma ulteriore, avviene originariamente attraverso il Verbo, che in quanto Parola originaria potrebbe essere chiamato anche Comunicazione originaria. È infatti la Comunicazione che avviene all’interno della stessa vita unitrinitaria e si protende al di là di essa. Pertanto attraverso tale Comunicazione primigenia e fontale (in tedesco, si potrebbe dire Ur-mit-teilung) che è originario Essere con che si partecipa) ha luogo la creazione attraverso una relazione costitutiva che l’Essere in relazione stabilisce con ogni altro essere, mantenuto in piedi da questa costitutiva e permanente relazionalità. Il Logos, il Cristo, «immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1,15) è anche per questa ragione colui per mezzo del quale (diautou‘) e in riferimento al quale (eij” auto;n) esiste ogni cosa, in cielo e sulla terra (Col 1,16). Tutto è attraverso di lui, in riferimento e in vista di lui, perché egli è Relazione e Relazionalità primaria e, pertanto, costitutivo Referente di ogni cosa, oltre che Riferimento di ogni esistente; è radice e ragione di ogni relazionata esistenza.

Sono questi i presupposti teologici profondi che nella teologia della rivelazione hanno operato il passaggio dal modello cosiddetto epifanico (manifestativo) e noetico (conoscitivo) a quello personalistico della rivelazione. I primi due passano spesso anche sotto la dizione di concezione «proposizionale» della rivelazione e sono generalmente attribuiti alla teologia antecedente al Vaticano II[36]. Indicano una concezione statica della rivelazione, considerata un insieme di nozioni veritiere, autenticate dall’autorità di Dio oppure una ostensione di realtà sopra-naturali. Secondo una tale concezione, ciò che principalmente importa è credere fermamente valido nel suo insieme e nelle singole verità il complesso delle rivelazioni o delle verità proposte[37]. Rispetto ad affermazioni simili si fa notare di solito un passaggio netto dal cosiddetto modello “proposizionale” precedente al Vaticano II a quello del Vaticano II, chiamato “personalistico” o “personale”. Anche se l’orientamento generale della presentazione della teologia della rivelazione nei due ultimi concili incarna rispettivamente i due modelli in gioco, non ci sembra si possa sostenere che essi vi si rinvengano allo stato puro. L’impostazione antecedente al Vaticano II, pur insistendo sulla rivelazione come insieme di verità, non esclude infatti un qualche concetto di autocomunicazione. La stessa costituzione Dei Filius del Vaticano I contiene, prima della citazione riportata, questa testuale espressione:

«La stessa santa madre Chiesa ritiene ed insegna che [...] piacque alla sapienza e bontà (di Dio) rivelare per un’altra via soprannaturale se stesso e i suoi decreti eterni della sua volontà al genere umano»[38].

Il concetto di rivelazione include quindi, già ai tempi del Vaticano I, lo svelamento non solo di verità da conoscere ed accettare con la luce della fede, ma anche la manifestazione che Dio fa di se stesso. Sebbene in un altro contesto, che era la polemica antiluterana, il Concilio di Trento aveva identificato il Vangelo con la verità e disciplina contenuta sia negli scritti che nella tradizione orale[39], affermando che si trattava del Vangelo

«che promesso precedentemente per i profeti nelle sacre Scritture aveva promulgato Nostro Signore Gesù Cristo e che Egli poi comandò di predicare ad ogni creatura, come fonte di ogni verità salutare e di disciplina dei costumi».

Ma affermando questo, a il concilio di Trento si accostava al Vangelo non solo come verità, ma lo si associava alla predicazione di Cristo e a quella degli apostoli. Rimandava, sebbene in maniera abbozzata, a una sintesi di storia di salvezza, che, pur nella sua essenzialità, certamente andava al di là delle pura e semplice manifestazione di verità da ritenere solo intellettualmente. Tuttavia bisogna riconoscere che l’autocomunicazione di Dio in quanto tale è rimasta in secondo piano, almeno fino all’epoca della teologia che ha preparato lo stesso Concilio. Per questo evento il terreno era stato dissodato dal personalismo dialogico che si era ben presto diffuso in Europa già alcuni decenni prima del concilio, ma non bisogna dimenticare i risultati dell’indagine biblica e patristica. Al tempo della convocazione del Vaticano II la teologia era comunque già in grado di presentare la rivelazione come automanifestazione gratuita e amorevole di Dio[40].

Il trapasso dal modello proposizionale a quello personalistico ci sembra reale, anche se occorre aggiungere che i due modelli non si escludono a vicenda, perché sembrano complementari. Del resto nel Vaticano II, accanto ad espressioni di indole personalista, ne affiorano altre che presentano la rivelazione di Dio nei termini di «decreti eterni della sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini»[41]. Domandandosi se ci sia un elemento unificante i due modelli in questione, O’Collins lo trovava in un concetto di rivelazione ancora basato sulla conoscenza. Il modello proposizionale ci trasmetterebbe una conoscenza su Dio, l’altro una conoscenza di Dio. Per questo motivo l’autore concludeva che entrambi hanno bisogno di un correttivo: l’esplicita menzione della salvezza, che, del resto, è già nei documenti ecclesiali passati in rassegna. Pur concordando con l’autore sulla necessità di riaffermare il carattere storico-dinamico della rivelazione, facciamo però notare che il modello personale si lascia mal ridurre ad uno schema semplicemente conoscitivo. Proprio perché personalistico, più che “modello personale” come egli lo chiama, la sua impostazione contiene un carattere storico-dinamico, che oscilla tra il piano noetico e quello esistenziale-pratico. A noi sembra infatti che non è possibile né alcuna esperienza dell’altro e dell’amore, né alcuna comunicazione, se si prescinde da quel dinamismo intrinseco alla stessa persona che è la sua fondamentale relazionalità[42], e che, come abbiamo detto, attinge e si appoggia alla Relazionalità prima che è il Verbo.

Certamente un modello proposizionale puro, chiamato da altri modello d’informazione o modello d’istruzione, non esprime adeguatamente questa ricchezza della rivelazione. La sua sostituzione con quello di indole comunicativa consente di cogliere la ricchezza della relazione che Dio ha allacciato e mantiene con gli esseri umani. Svelando se stesso, Dio svela anche il mistero dell’uomo[43]. Addita la natura aperta di questa misteriosità dell’essere uomo nella misteriosità dell’Essere Dio. Si potrebbe dire che svela la natura incondizionatamente comunicativa del mistero stesso dell’Essere. O anche, che svela la ricchezza inesauribile della comunicazione, che è così ricondotta fino alla sua prima sorgente, al dia-logos all’interno dell’Unitrinità divina, al Logos come “perfetto comunicatore” nella divina Trinità prima ancora che nella sua venuta nella carne. Pertanto, con buone ragioni teologiche si afferma che «Cristo è perfetto comunicatore». In quest’espressione[44] si coglie l’intento è di considerare la comunione di Dio e la conseguente comunicazione come fondamentale ed esemplare per ogni altra forma di comunicazione storica. Il principio è espresso con queste parole:

«La fede cristiana ci ricorda che l’unione fraterna fra gli uomini (fine primario di ogni comunicazione) trova la sua fonte e quasi un modello nell’altissimo mistero dell’eterna comunione trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, uniti in un’unica vita divina»[45].

La conseguenza è che, essendo Cristo il Verbo incarnato, la sua comunicazione sulla terra è la più perfetta che possa mai darsi. Il testo continua, riferendo anche sul metodo adottato da Cristo, come metodo che sa adattarsi completamente alla situazione dei destinatari del suo messaggio:

«Durante l’esistenza terrena Cristo si è rivelato perfetto comunicatore. Per mezzo della sua incarnazione, egli prese la somiglianza di coloro che avrebbero ricevuto il suo messaggio, espresso dalle parole e da tutta l’impostazione della sua vita. Egli parlava pienamente inserito nelle reali condizioni del suo popolo, proclamando a tutti indistintamente l’annuncio divino di salvezza con forza e con perseveranza e adattandosi al loro modo di parlare e alla loro mentalità»[46].

Non si tratta di una strategia, ma piuttosto di ciò che altri chiamerebbe “agire comunicativo”. Si potrebbe ancora meglio chiamare un “agire comunionale”, perché in Cristo la comunicazione è espressione di una profonda comunione: comunione intratrinitaria e comunione con gli uomini, ai quali egli dà la forma più alta di comunione e di comunicazione nello stesso tempo, l’eucaristia[47].

Cristo appare allora come comunicatore esemplare in tutto il Nuovo Testamento, dove troviamo la descrizione della perfetta osmosi tra comunicazione/contenuto nell’annuncio di Cristo e la struttura di fondo della comunicazione umana nella sua duplice e concatenata relazione: Dio-uomo e uomo-uomo. La solidarietà e l’amore, realtà espresse nel testo citato come incarnazione e come donazione di sé, sono più che indicazioni etiche sulle modalità del comunicare. Sono veri fondamenti della comunicazione, sempre normativi per la stessa Chiesa e per coloro che parlano a nome di essa[48]. La rivelazione, in quanto comunicazione che Dio fa di se stesso all’umanità, deve infatti poter diventare anche comunicazione della Chiesa a tutti gli uomini, comunicazione di ciò che la Chiesa porta e di ciò che essa è. Del resto, i testi della Nuova Alleanza sono nati come strumenti di tale comunicazione. Partendo dalla tradizione orale, la Chiesa ha saputo prendere spunto e occasione dalla vita delle comunità dell’epoca e dai problemi che assillavano gli uomini del loro tempo, per annunciare la gratuità di Dio, la manifestazione del suo amore attraverso la persona di Cristo e il senso futuro della storia. È un annuncio che avviene secondo modalità non arbitrarie, ma precedentemente fissate dalla stessa rivelazione. La generosità, detta anche magnanimità di Dio[49], che si è messo sulle strade degli uomini, esige infatti l’adozione del medesimo agire gratuito della Chiesa, che non può fare altro che rimettersi ogni giorno su quelle stesse strade e celebrare nella quotidianità l’incessante cammino di Dio verso gli uomini che egli ama[50].



[1] Diamo quindi per acquisite le precisazioni dottrinali tanto della istruzione Dominus Jesus, redatta dalla Congregazione per la Dottrina della fede in data 6/08/2000, che quelle ricavabili dalla notificazione sottoscritta recentemente da J. Dupuis.

[2] Per gli approfondimenti più aggiornati sul tema tra teologia e storia, che include ovviamente il rapporto tra rivelazione e storia, binomio senza del quale una teologia cristiana non ci sembra possibile, cf. l'ultimo congresso dell'Associazione Teologica Italiana (settembre 2000), i cui Atti sono in fase di pubblicazione presso le edizioni S. Paolo. Nostri contributi a riguardo sono: G. Mazzillo, «L'incarnazione di Cristo e il valore della storia umana», in Rassegna di Teologia 34 (1993) pp. 363-377; Id, «L'ingresso della teologia nella storia», Forum ATI, in Rassegna di Teologia 41 (2000 ) n. 2 , intervento 3. nelle pp. 271-286 (www.teologia.it/fati200.html#3); per il dialogo interreligioso cf. Id., «Nuove prospettive nel dialogo tra cristianesimo e religioni?», in Rivista di Scienze Religiose 13 (2000) 191-225.

[3] Cf., ad esempio, 1Sam 15,29; Gb 9,32; Is 45,23; Ml 3,6.

[4] Alle dichiarazioni di Gesù che attestano il completamento nella continuità (Mt 5,17-19) sono da affiancare anche altri brani che affermano la continuità (cf. Rm 3,31;Rm 10,4) e l'irrevocabilità dell'amore di Dio (cf. Tt 1,2; Gc 1,17).

[5] Senza  voler insistere molto su un aspetto che è abbastanza noto, basterà ricordare la dichiarazione riportata nel vangelo di Giovanni, come capofila di un pensiero che ricorre insistentemente anche in altri scritti giovannei, quanto paolini, tutti pervasi di riconoscenza per un amore che si è donato totalmente: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,11-13, cf. anche 1Gv 3,16;Rm 5,6-8).

[6] È d'obbligo ricordare il Cantico dei cantici, che paragonando la forza dell'amore a quello della morte, di fatti attesta che l'amore è immortale e quindi vince la morte. Ct 8,6: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!»

[7] Sulla «verità» cf. «ajlhvqheia», in GLNT I, 625-674.

[8] «Come tu, Dio sei ‘èmet, così è ‘èmet anche la tua parola» (Midrash sull’Esodo, 29,1: citato in J. B. Bauer, «verità», in J. BAUER (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Morcelliana, Brescia 19692, 1512-1524.

[9] Cf. J. Barr, Semantica del linguaggio biblico, Il Mulino, Bologna 1968, e più in generale B. Corsani, «Parola» in P. ROSSANO, G. RAVASI e A. GIRLANDA (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica ), Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 1097-1114.

[10] Cf., ad esempio, «segni grafici» in Y. Bonnefoy, Dizionario delle mitologie e delle religioni, Rizzoli, Milano 1989, 1627-1631.

[11] L’informazione e la documentazione su questo, come su altri fenomeni simili, è reperibile in G. van der Leeuw, Fenomenologia delle religioni, Boringhieri, Torino 1975, 340ss.

[12] Cf. P. Massein, «Scritture buddhiste» in P. Poupard (diretto da), Grande dizionario delle religioni, Cittadella - Piemme, Assisi - Casale Monferrato 1990, 1937-1938; e M. Delahouitre, «Veda», ivi, 222-2226.

[13] Ci rendiamo conto che non possiamo fare che un accenno. Rimandiamo, a riguardo, a K. Cragg, Maometto e il cristiano. Un problema che attende risposta, SEI, Torino 1986 (originale inglese, 1984), 149; CL. Geffré, «Le Coran, une parole de Dieu différente?», in Lumière et vie 32 (1983) 21-32; Id., «La théologie des religions non cbrétiennes vingt ans après Vatican Il», in Islamo-Christian 11 (1985) 115-133; M. Lelong, «Mohammed, prophète de l’Islam», in Founders of Religions, in Studia misionalia 33 (1984) 251-276; GRIC, Bibbia e Corano. Cristiani e musulmani di fronte alla scrittura, Cittadella, Assisi 1992; W. Montgomery Watt, Islamic Revelation in the Modem World, Edinburgh University Press, Edinburgh 1969. Per l’utilizzo differenziato del concetto di rivelazione in rapporto agli scritti induisti il rimando è a G. Parrinder, «Relelation in Other Scriptures», in «Revelation in Christianity and Other religions», in Studia Missionalia 20 (1971) 101-113.

[14] Si ritrovano qui le forme di alcune deformazioni della teologia della rivelazione che già Tillich aveva indicato nel soprannaturalismo da una parte e nel naturalismo dall’altra. Cf. P. Tillich, «Die Idee der Offenbarung», in Zetschrift für Theologie und Kirche, n. R., 8 (1927),405ss.

[15] Condividiamo la fondamentalità dell'amore per la vita umana e dunque anche per la religione. Non tutti ne fanno un esplicito argomento della teologia. Altri invece sì. Sicché condividiamo quanto, ad esempio, troviamo scritto in questi termini: «L’amore è un’esperienza antropologica fondamentale, forse la più fondamentale e originaria di tutte: un’esperienza pluriforme, che investe tutta l’esistenza della persona e i diversi rapporti in cui essa s’esprime, e che è carica anch’essa - come tutte le nostre esperienze - della problematicità e dell’ambiguità che caratterizzano la condizione umana. Nell’orizzonte dell’universale esperienza dell’amore, si colloca la specifica originalità del messaggio cristiano» (P. Coda, L’agape come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani, Città Nuova, Roma 1994, pag.15).

[16] Opinioni, che contrappongono l’amore, come la caratteristica del vangelo, a fronte del timore, ritenuto una caratteristica della torah, perché rimarcano la novità di quello rispetto all’antichità di questa, si ritrovano anche in autori come l’abate Gioacchino da Fiore (che nella sua concezione traidica della storia contrappone le categorie del timore e della servitù a quelle dell’amore e della figliolanza), fino ad arrivare ad Agostino (che afferma «Con molta solidità si intende che il timore sia più pertinente all’antico testamento, così come l’amore (dilectio) al nuovo, sebbene già nell’antico sia latente il nuovo e nel nuovo sia palese l’antico». La concisa ed efficace locuzione latina è: «quanquam et in vetere novum lateat et in novo vetus pateat» Quaestionum in heptateucum libri VII, 20, LXXIII).

[17] Cf. Braucht Gott die Kirche? Zur Theologie des Volkes Gottes, Herder, Freiburg 1998, 153ss.

[18] Anche nella prima allenza l’amore di Dio è cardine della torah, (Dt 6,4-5: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.»). Così come è importante anche l’amore del prossimo (cf. ad esempio, Lv 19,18: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore»), incluso, come si nota, il “nemico”, del quale bisogna avere cura (cf. Es 23,4s: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo»). Cf. anche Dt 22,1-4.

[19] Per una più puntuale documentazione di quanto si afferma, cf. G. Mazzillo, Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990.

[20] Cf. Mc 1,15: «Il   tempo   è   compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (cf. anche Mt 3,2; Mt 8,10).

[21] Dal Vaticano II in poi il riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo anche nelle altre religioni appartiene al magistero ecclesiale comune. Talora si aggiunge che si può trovare perfino più fervore in esse che tra i cristiani. Così, ad esempio, nella Redemptor hominis, n. 6: «Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane -- effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del Corpo Mistico -- possa quasi confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei princìpi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico?».

[22] Redemptor hominis, n. 11: «Giustamente i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni quasi altrettanti riflessi di un’unica verità come “germi del Verbo”, i quali testimoniano che, quantunque per diverse strade, è rivolta tuttavia in una unica direzione la più profonda aspirazione dello spirito umano, quale si esprime nella ricerca di Dio ed insieme nella ricerca, mediante la tensione verso Dio, della piena dimensione dell’umanità, ossia del pieno senso della vita umana». Cf. nello stesso documento i nn. 55-57. Cf. anche Centesisum annus n. 60; Evangelium vitae, nn. 27, 91, Ut unum sint, n. 76.

[23] Per l'approfondimento di questo punto cf. G. Mazzillo, «Redenzione nella società multireligiosa e multirazziale», in Vivarium 8 ns (2000/2) 243-266.

[24] Redemptoris missio, n. 28. Il testo aggiunge che lo stesso Spirito prepara ogni popolo alla maturazione verso Cristo: «Il Cristo risorto “opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra”. È ancora lo Spirito che sparge i “semi del Verbo”, presenti nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo».

[25] Ci limitiamo a rimandare all’enciclica sullo Spirito Santo Dominum et vivificantem, che già dal titolo ne afferma l’azione benefica per gli uomini, un’azione non disgiunta, ma sorretta dall’amore, del quale lo stesso Spirito è non solo suscitatore, ma anche fonte.

[26] Cf. Dominum et vivificantem, n. 10: EV/10, 472.

[27] È una sintesi i cui singoli passaggi possono trovare conferma nel restante testo dell’enciclica citata e in numerosissimi altri testi magisteriali, a partire da quelli del Vaticano II. Cf. in particolare Lumen gentium e Gaudium et spes.

[28] Molto espressivamente scrive van der Leeuw, rifacendosi al testo sul sacro di R. Otto: «La potenza risveglia nell’anima umana un timore, che si manifesta con la paura e insieme con l’attrazione. Non esiste religione senza paura, come non esiste religione senza amore o senza la sfumatura di attrattiva corrispondente al livello morale dell’epoca» (G. van der Leeuw, Fenomenologia..., cit., 29, §4,3).

[29] Il termine deriva da bhaj, che significa condividere. Su questa e sugli altri esempi relativi all’amore cf. oltre al già citato van der Leeuw (soprattutto per ciò che riguarda amore e termini corrispettivi), le voci qui menzionate in P. Poupard (diretto da), Grande dizionario.... cit.

[30] Cf. anche G. R. Franci (a cura di), L’amore di Dio nell’induismo, Esperienze, Cuneo 1970.

[31] Trimurti è di per sé un termine sanscrito esprimente il concetto trinitario della teologia indiana, la cui la triade è costituita da Brahma-Visnu-Siva.

[32] Cf. «stati sublimi» in P. Poupard (diretto da), Grande dizionario...., cit., 2032.

[33] Cf. G. Mandel, I novantanove Nomi di Dio nel Corano, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995.

[34] Si pensi al processo per sublimazione dell’amore del Convivio di Platone e all’importanza di Eros nella mitologia greco-romana. Lo stesso Esiodo poneva come triade primigenia, prima di ogni altra esistenza, il caos, la terra e l’amore.

[35] Su questo argomento cf. G. Mazzillo, «L’esperienza religiosa e le religioni nel loro cammino verso Cristo», in Vivarium 5 ns (1997/2) 159-179, contenente gli Atti sul convegno «Cristo solo profeta universale?».

[36] Cf. G. O’Collins, Teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1982, 70-79.

[37] Ciascuna verità ha per autore Dio, che è la Verità ed è Signore e Creatore dell’uomo, il quale è tenuto, dal suo canto, a prestargli ossequio ed obbedienza. A riprova, si cita il passo della costituzione dogmatica del Vaticano I, la Dei Filius, che recita: «Poiché l’uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e signore e la ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo tenuti, quando Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà. Quanto a questa fede, inizio dell’umana salvezza, la chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per la quale sotto l’ispirazione divina e con l’aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da lui rivelate, non a causa dell’intrinseca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell’autorità di Dio stesso, che le rivela, il quale non può né ingannarsi né ingannare (D 3008). Traduzione italiana in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitiomum et declarationum de rebus fidei et morum, edizione bilingue (a cura di P. Hünermann), Dehoniane, Bologna 1995. La sottolineatura è mia e mette in risalto la concezione proposizionale della rivelazione: si tratta di cose rivelate (in latino revelata), più che di autorivelazione.

[38] Nostra traduzione e sottolineatura dal testo latino: D 3004.

[39] Come sopra: D 1501.

[40] G. O’COLLINS, Teologia fondamentale, cit., 71, considera infatti la rivelazione «anzitutto e soprattutto come un automanifestarsi gratuito e salvifico di Dio che chiama e ci abilita ad entrare per fede in un nuovo rapporto personale con lui. La rivelazione è un incontro da persona a persona, di soggetto con un altro soggetto, un incontro a tu per tu»   

[41] Dei Verbum 6.

[42] Per la verità l’autore esaminato non l’esclude, anzi vi fa riferimento, quando, in un altro contesto scrive: «Un’autentica partecipazione ed autocomunicazione influenza gli interlocutori nel dialogo. Essi fanno molto di più che rivelare fatti riguardo a se stessi. Attraverso l’autorivelazione e la mutua accoglienza essi si mutano a vicenda» (G. O’COLLINS, Teologia fondamentale, cit., 75-76).

[43] A riguardo, scrive W. Kasper «Si capisce allora perché la teologia più recente lo abbia sostituito con un altro concetto di rivelazione, quello orientato verso il modello della comunicazione. Qui non si parla di rivelazioni al plurale bensì di rivelazione al singolare, concepita non come rivelazione di cose, ma come autorivelazione personale. In prima linea Dio non rivela qualcosa bensì se stesso e i suoi propositi di salvezza per l’uomo. Manifestando se stesso e il suo mistero, egli rivela all’uomo pure l’uomo e il suo mistero. La rivelazione è quindi la determinazione del mistero indeterminato-aperto dell’uomo del suo mondo e della sua storia»W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 19894, 167-l68.

[44] La troviamo in Paolo VI, Communio et Progressio. Istruzione Pastorale su «I mezzi di comunicazione sociale»,23.5.1971.

[45] Communio et Progressio, n. 8: EV/4, 788.

[46] Ivi, n. 11: EV/4, 791.

[47] «Del resto la "comunicazione" si estende molto oltre la semplice manifestazione dei pensieri della mente o l’espressione dei sentimenti del cuore. La piena comunicazione comporta la vera donazione di se stessi sotto la spinta dell’amore; ora la comunicazione del Cristo è realmente spirito e vita. Con l’istituzione dell’eucaristia, Cristo ci consegnò la più alta forma di comunione che potesse venire partecipata agli uomini. Nell’eucaristia si realizza infatti la comunione fra Dio e l’uomo e perciò la più intima e perfetta forma di unione fra gli uomini stessi. Cristo infine ci ha comunicato il suo Spirito vivificante, che è principio di comunità e di unità» (ivi).

[48] «Nella chiesa, che è il corpo mistico di Cristo e mistero della pienezza di lui glorificato, egli abbraccia tutte le realtà. Perciò nella chiesa siamo in cammino, fortificati dalla Parola e dai sacramenti, verso la speranza dell’ultimo incontro, quando "Dio sarà tutto in tutti"» (ivi). Sulla comunicazione nella Chiesa cf. Credereoggi 13 (1983/1), dal titolo: «La comunicazione in una chiesa-comunione». Si tenga sempre presente che, come afferma S. Dianich, la comunicazione è un tema non solo teologico, ma ecclesiologico. L’autore prosegue la riflessione di W. Bartholomäus, «La comunicazione nella chiesa. Aspetti di un tema teologico», in Concilium 14 (1978/1) 165-187. Cf. S. Dianich, «Teorie della comunicazione ed ecclesiologia», in Associazione Teologica Italiana, L’ecclesiologia contemporanea, Messaggero, Padova 1994, 134-178.

[49] I testi neotestamentari parlano di longanimità e di benevolenza, e sembrano pervasi di un commosso stupore: Dio ci ha graziati quando non lo meritavamo e non ce l'aspettavamo. Cf., ad esempio, 2Pt 3,15-16: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose». È una testimonianza oltremodo interessante, perché attesta la recezione ecclesiale dell'insegnamento di Paolo a questo riguardo. Per Paolo, cf., ad es., 1Tm 1,15-16: «Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna».

[50] Come è noto, è questo il senso della eudoikìa, della buona volontà da parte di Dio verso gli uomini. Cf. Lc 2,14: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». La Bibbia di Gerusalemme traduce: «pace agli uomini oggetto della sua compiacenza», mentre fa notare l'inadeguatezza della versione tradizionale, basata sulla Volgata, «pace agli uomini di buona volontà». Fa anche riferimento ad un'altra lezione, che pur essendo meno sicura è sulla stessa linea della benevolenza di Dio. Cf. alcune varianti del codice B [Vaticano], S [Sinaitico], ed altri: «pace in terra e presso gli uomini, benevolenza divina».