RINNOVAMENTO
ECCLESIOLOGICO E "NUOVA EVANGELIZZAZIONE"
"Rifare
con l'amore il tessuto cristiano della comunità cristiana. L'evangelizzazione e
la testimonianza della carità esigono
oggi, come primo passo da compiere, la crescita di una comunità cristiana che
manifesti in se stessa, con la vita e le opere, il vangelo della carità. E'
vero, infatti, che sentiamo urgente rivitalizzare il tessuto sociale del nostro
paese, con lo sguardo rivolto a tutta l'umanità: ma ciò ha come condizione «che
si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali». Se il sale
diventa insipido, con che cosa infatti lo si potrà rendere salato"[1].
Questo
passaggio del documento CEI testimonia
una presa di coscienza del magistero dei vescovi rispetto ad alcuni gangli ecclesiologi ricorrenti nel documento
medesimo e che sono di grande importanza per comprendere il rinnovamento
ecclesiologico del Vaticano II. Si tratta di connessioni molteplici, ma che
abbracciano almeno questi tre rapporti: 1) evangelizzazione e testimonianza, 2) testimonianza e prassi
della carità, 3) prassi della carità e vita comunitaria intraecclesiale.
Vangelo,
testimonianza, carità e vita comunitaria non sono dunque le articolazioni
letterarie, quanto piuttosto i pilastri dottrinali portanti degli Orientamenti pastorali per gli anni '90. Si
tratta non di grumi di elementi differenti che confluiscono e convergono, ma di
vere e proprie voci di riferimento. Per noi sono lemmi teologicamente
pregnanti. Nel corso del mio contributo partirò da queste voci per tentare
un'analisi più approfondita di ciò che esse implicano, al fine di evidenziare i
passaggi ecclesiologici ivi sottostanti.
Sì,
perché di veri e propri passaggi si tratta, che appariranno più evidenti
nel confronto con i corrispettivi e
contro‑equivalenti valori ecclesiologici preconciliari. Con ciò non si
vuol dire che attraversati i guadi di
quell'ecclesiologia, la chiesa si è già rinnovata come per incanto. E' sotto gli occhi di tutti che altro è la
riflessione, altro è l'applicazione. All'ecclesiologia conciliare, teologicamente maturata e pastoralmente
proclamata, non corrisponde sempre un'ecclesialità teologalmente rinnovata ed evangelicamente ispirata. Non spetta a me produrre una verifica
della concreta realizzazione dei contenuti ecclesiologici in questione.
Un bilancio del genere andrebbe anche tracciato se non altro per serietà
ed effettiva volontà "politica" di cambiare quanto ancora resta da
cambiare. Ma perché possa essere
credibile, dovrà essere polifonico e tener
conto non solo di voci omogenee, che cantano nel coro, ma anche ‑ dialetticamente ‑ di
quelle opinioni critiche che
lungi dal ledere una certa dignità della Chiesa, sono al contrario la prima
testimonianza dell'avvenuto
coinvolgimento di tutti nel sentire ecclesiam oltre che nel
tradizionale sentire cum ecclesia . E' proprio questa maturazione di
corresponsabilità ciò che tutti si
augurano, compreso il testo dal quale
siamo partiti, il quale così prosegue: "Ciascuno, secondo il proprio
ministero e il dono dello Spirito Santo ricevuto, deve sentirsi impegnato in
prima persona a edificare la comunità
nell'amore di Cristo, partecipando con piena corresponsabilità alla sua
vita e alla sua missione"[2].
La
corresponsabilizzazione di tutti per la chiesa implica, come si diceva,
l'attraversamento di alcuni passaggi
obbligati, quei percorsi cioè che non dovrebbero essersi lasciati alle
spalle solo quanti hanno avuto la
ventura di vivere le due stagioni, il preconcilio e il concilio. L'ecclesiologia prima e dopo il concilio non
rappresenta infatti una cesura tra epoche storiche diverse, quanto piuttosto
diversi atteggiamenti spirituali e differenti impostazioni esistenziali. I veri
passaggi avvengono a questo livello e interessano quelli che sono nati
ecclesialmente dopo il Vaticano II, non meno di quelli che hanno partecipato al
trapasso da un modo di essere chiesa all'altro. Anzi, interessano probabilmente i primi più dei secondi, che
non avendo nessuna esperienza di questi effettivi itinerari, possono ritenere
valide modalità e impostazioni che invece sono soltanto una
ricaduta nei vecchi modelli.
Sarà
allora utile dedicare una parte della riflessione ai passaggi obbligati di ogni
ecclesiologia conciliare, non solo per riscoprirne l'attualità, ma anche per
verificare dove si collochi la nostra ecclesialità. Accanto a questa ricognizione
mi sembra ugualmente doveroso
accogliere con lealtà
intellettuale e inventiva ecclesiale l'appello della CEI a "rifare con
l'amore il tessuto cristiano della comunità cristiana", dando valore non
retorico ma effettuale a quell'amore di cui si parla e con il quale
occorre ritessere il tessuto cristiano di ogni nostra appartenenza ecclesiale.
Fatte
queste doverose premesse e precisazioni, il mio intervento si articolerà
secondo questi titoli:
I PARTE:
I PASSAGGI ECCLESIOLOGI DEL CONCILIO
VATICANO II
(Lineamenti analitici)
1)Dal
vangelo creduto al vangelo vissuto;
2)Dall'attestazione
dei segni prodigiosi al narrare Dio con una vita credibile;
3)Dalla
carità come gesto individuale alla scoperta dell'amore come dinamismo
teologale;
4)Dalla
chiesa societas alla chiesa come popolo di Dio.
II PARTE:
PER UNA RICOSTRUZIONE DEL TESSUTO ECCLESIALE NEL QUALE VIVIAMO (Alcune proposte
"proponibili")
I PARTE:
I PASSAGGI ECCLESIOLOGI DEL CONCILIO VATICANO II
1)Dal
vangelo creduto al vangelo vissuto
Uno degli
snodi fondamentali della teologia del
Vaticano II è la concezione della fede. Da essa dipende anche l'ecclesiologia e il
mutato atteggiamento della Chiesa nei riguardi del mondo. Il Vaticano II
professa infatti una fede che non è il solo ossequio intellettuale nei
confronti delle verità della fede o della pura e semplice Verità in quanto
tale. Per definire la fede il Vaticano I invocava la soggezione dell'uomo al suo Creatore e la dipendenza della
ragione umana (creata) alla Verità (increata) che è Dio [3],
per il nostro Concilio invece la fede si esprime come accoglienza della
vocazione che Dio rivolge all'uomo, una vocazione che si dispiega in tutta la
sua ampiezza particolarmente nella Gaudium et Spes[4] e che è chiamata alla vita trinitaria e a
quella comunitaria, all'impegno fattivo e solidale nella storia per migliorare il mondo.
Sulla
base di questa vocazione si può comprendere la validità dell'affermazione che
con il Vaticano II le gioie e angosce degli uomini sono entrate del Denzinger,
cioè in quella raccolta di affermazioni riguardanti il nostro "depositum
fidei" e che termina di solito con
le parole: "chi non crede in questa maniera sia scomunicato".
Ciò
significa non solo, come di solito si asserisce, che con il Vaticano II la
chiesa passa dalla scomunica al dialogo. E' in gioco non tanto una metodologia
pastorale, quanto piuttosto una diversa comprensione della stessa fede. L'accento
infatti è posto sull'adesione con la globalità dell'esistenza a una vocazione
di amore, nel quale amore il mondo va guardato con gli occhi di Dio. Da ciò
discende una prima conseguenza, così formulabile: non potrà capire il Concilio
colui che non si accosta al mondo con l'amore del Concilio. Non lo capirà mai nemmeno "l'uomo di chiesa" il
cui cuore resta lontano da quei problemi ed aneliti di speranza testimoniati ed
avvertiti dal Vaticano II. Mai come in questo caso, si realizza la massima
agostiniana dell' amore come unica via per poter conoscere. In una frase, non
solo chi non ama il Concilio non potrà capirlo, ma non lo capirà neanche chi
non ama l' uomo, gli uomini e il loro futuro.
La fede è
in definitiva un tutt'uno con la solidarietà e questo binomio si radica
nell'affermazione conciliare: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini d' oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo"[5].
All'afflato delle solidarietà si accompagna subito la dimensione
"antropologica" della teologia conciliare, che rende la chiesa
attenta all' uomo fino a sentirne la corresponsabilità: ciò che è autenticamente
umano sta a cuore anche ai discepoli del Signore: "e nulla vi è di
genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore" (ivi). Sono queste le
premesse di una solidarietà che diventa nello stesso tempo accoglienza del dono
di Dio della corresponsabilità e vita di comunione che sa testimoniare l'amore
di Dio con il prodigio di una vita che concretamente e non retoricamente, né
moralisticamente, ma nei fatti, si spende per i fratelli. Ma siamo già al
secondo passaggio.
2)
Dall'attestazione dei segni prodigiosi al narrare Dio con una vita credibile
L'ecclesiologia
del Vaticano II viene di solito sintetizzata nella con‑vocazione alla
vita trinitaria di uomini riuniti in un popolo, che seguendo Cristo e sotto l'
influsso dello Spirito, camminano verso il regno. Per questa ragione la chiesa
cammina anche insieme con il genere umano e nella sua storia. Con la storia umana
i discepoli di Cristo sono realmente e intimamente solidali: "La loro
comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo,
sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del
Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò
essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua
storia" (ivi).
La Lumen
Gentium precisa ulteriormente i destinatari e gli ambiti della solidarietà
quando scrive: "Come Cristo ... è stato inviato dal Padre ad annunciare la
buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore affranto, a
cercare e salvare ciò che era perduto
(Lc 19,10): così pure la Chiesa
circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dall' umana debolezza, anzi
riconosce nei poveri e nei sofferenti l' immagine del suo fondatore povero e
sofferente, si premura di sollevarne l'indigenza, e in loro intende di servire
il Cristo"[6].
La chiesa
del concilio intende restare fedele a queste consegne e pertanto a)
riconosce Cristo nei poveri e nei
sofferenti; b) si premura di "sollevarli" dall'indigenza; c) intende
servire Cristo
nei poveri.
In tutto ciò vive la sua dimensione cristologica ed antropologica nello stesso
tempo, è solidale con l' uomo ed è
fedele a Cristo.
Il sinodo
dei vescovi convocati in via straordinaria per la valutazione del cammino post‑conciliare
non esitò a dire: "L'ecclesiologia di comunione è l' idea centrale e
fondamentale dei documenti del Concilio"[7].
Alla domanda cosa significasse "la complessa parola 'comunione', il Sinodo
rispondeva: "Si tratta fondamentalmente della comunione con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nello
Spirito Santo. Questa comunione si ha nella Parola di Dio e nei Sacramenti[8].
Sembrerebbe, a prima vista, che si tratta di una comunione che include solo una dimensione, quella
spirituale‑sacramentale detta anche "verticale". Ma non è così.
La definizione infatti riprende sostanzialmente quella della Lumen Gentium,
che affermava che la chiesa è "sacramento ... dell' intima unione con Dio
e dell' unità di tutto il genere umano"[9]. La comunione che è certamente effetto
dell'azione dello Spirito Santo si riverbera, in primo luogo, all'interno della
compagine ecclesiale, convivenza
armonica di pluriformi carismi: "Egli guida la Chiesa per tutta intera la
verità (...), la unifica nella comunione e nel ministero, la istruisce e dirige
con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti"[10].
Eppure si
tratta di una realtà comunionale che ha
un valore sostanzialmente dinamico e che abbraccia subito la cosiddetta dimensione
orizzontale, quella della "unione degli uomini", sulla quale non solo
la Gaudium et spes, ma tutto il Concilio spesso ritornano. E' una
comunione interumana indicata, sostanzialmente, come vocazione a partecipare
alla vita di Dio[11],
attraverso l'indispensabile mediazione di Cristo, ma che si estende oltre i confini
puramente istituzionali o carismaticamente funzionali della chiesa medesima:
"tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce
del mondo; da Lui veniamo, per Lui viviamo,
a Lui siamo diretti"[12].
Da queste premesse ecclesiologiche il sinodo non può che ribadire: "Ciò è
di grande importanza specialmente nei nostri tempi poiché la Chiesa, in quanto una ed unica, come
sacramento, è cioè segno e strumento di unità e di riconciliazione, di pace fra
gli uomini, e le nazioni, le classi e i popoli"[13].
Non si
tratta solo di immagini metaforiche, ma di una realtà "teologale",
potremmo dire "teo‑antropologica", nel senso che il destino
dell' uomo è assunto fino alla soglia della divina Trinità. Qui, attraverso la
porta che è Cristo, l' uomo entra come figlio nel dinamismo comunionale che lo
rende "partner" dialogante, amante
e vivente di Colui che è sua origine e fine, suo spessore e ragione stessa
dell' esistere, senso ultimo in cui egli riceve senso.
Volendo
chiarire il termine "comunione", i Vescovi Italiani hanno scritto, a
loro volta, successivamente al Concilio: "Quando diciamo 'comunione'
pensiamo a quel dono dello Spirito per il quale l' uomo non è più solo né
lontano da Dio, ma è chiamato ad essere parte della stessa comunione che lega
tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e gode di trovare dovunque,
soprattutto nei credenti in Cristo, dei fratelli, con i quali condivide il
mistero profondo del suo rapporto con Dio"[14].
Sulla
base della comunione la testimonianza
riceve una connotazione nuova. Diventa motivo per celebrare Dio e le sue opere salvifiche,
fino ad arrivare ad essere il prodigio stesso dell'amore di Dio, della sua
tenerezza che si riversa su ogni creatura umana. Il documento su Evangelizzazione
e testimonianza della carità è molto esplicito a tale riguardo, quando
afferma: "L'annuncio che la chiesa è chiamata a fare nella storia si
riassume ... in un'affermazione
centrale: <<Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è
"Via, Verità, Vita". Dalla forza e dalla radicalità di questo
annuncio scaturiscono l'ardore della vita e dell'impegno dei cristiani,
l'incisività e la capacità di rendere contemporanea all'uomo l'espressione con
cui il messaggio è annunciato e portato a efficacia di vita, la novità e
fecondità dei metodi di cui deve far uso oggi l'evangelizzazione"[15].
Facendo
leva su questa intima convinzione che
non solo esprime, ma che ‑ per così dire ‑ grida il vangelo con la
propria vita, si può comprendere cosa voglia dire l'episcopato italiano, quando
in sintonia con il Vaticano II afferma nello stesso Piano pastorale:
"Chi vuole annunciare e dialogare non può non partire dal proprio incontro
personale con Cristo e da una vita profondamente innestata nell'esperienza
della comunità cristiana. Anche se ‑ parallelamente ‑ deve sempre
aver viva la consapevolezza che la verità che annuncia è Gesù Cristo, una
verità più grande delle sue parole, della sua comprensione, della sua
esperienza e delta vita stessa ella chiesa. Altrimenti, rischia di non
annunciare Cristo ma se stesso, una sua verità"[16].
Ma ciò
costituisce anche il presupposto per intendere la carità non più come
gesto pietistico individuale, ma come
celebrazione dell'amore solidale e appassionato di Dio.
3)Dalla
carità come gesto individuale alla scoperta dell'amore come dinamismo teologale
Allorquando
si è nei paraggi della Verità, si è inevitabilmente anche accanto alla Carità
di Dio. Questa riscalda il cuore e dà un'altra visione dell'uomo e degli
uomini, così come dà un'altra visione dei rapporti che ogni cristiano deve
intrecciare con gli altri. Anzi la presenza o l'assenza della carità è l'ultimo
elemento discriminante ed è, alla fine, il più valido criterio di discernimento
per sapere se ci siamo avvicinati veramente a Dio e non piuttosto ai nostri
fantasmi, e che in realtà lontani da Dio, generano fanatismo, insofferenza,
pietismo. Chi si accosta alla Verità, sa che non la possiede, ma piuttosto è da
questa posseduto.
Ecco la
citazione del testo in oggetto:
"proprio il possesso, o meglio l'essere posseduti da quella verità
che è Cristo, non potrà non spingere il cristiano al dialogo con tutti"[17].
Un dialogo che non è che il primo passo di un dinamismo teologale che spinge
alla solidarietà, cioè al sapersi fare fratello di strada, aprendo sentieri
inediti di compagnia con gli uomini, anche con i diversi, anzi proprio con loro: perché chi sa di
essere posseduto dalla Verità che è Cristo entra nella Sua logica, nel suo donarsi,
sicché ‑ continua il testo citato ‑ "annuncerà, sì, la verità
con la vita e le parole ma facendosi <<giudeo con i giudei ... tutto a
tutti, per salvare a ogni costo qualcuno>> (1 Cor 9, 19‑22). E
saprà cogliere e apprezzare i <<semi di verità>, presenti in ogni
uomo. Annuncerà perciò il vangelo della carità, ma non con l'imposizione, né
con il risentimento, né con la pretesa (Is 42, 2‑3) bensì con la
dolcezza, con l'umiltà e il rispetto pronto a rendere ragione della speranza
che vive in lui (cfr. 1 Pt 3,15‑16)"[18].
Il motivo non può essere che uno solo ed è un motivo teologale più che
teologico. E' infatti il sapersi trascinati da una carità che spinge ad
ulteriori gesti di amore, perché è fuori discussione che il vangelo della
carità non si annuncia se non attraverso la carità[19].
Una carità, che per essere nei paraggi di Dio non ha bisogno né di nascondersi,
né di camuffarsi, ma nemmeno di ammantarsi di meriti e virtù, giacché tutto ci
è stato donato[20].
Quest'ulteriore
passaggio dai gesti di carità alla carità impiantata nell'amore di Dio si
richiama direttamente agli altri due e sta a fondamento di un'evangelizzazione
che, per così dire, si autostruttura da un suo interno dinamismo, quello della
comunione e che giustifica il transito globale da un tipo di ecclesiologia in
cui la chiesa si considerava societas a quella della chiesa come
comunità e come popolo di Dio.
4)Dalla
chiesa societas alla chiesa come popolo di Dio.
Due serie
di testi, tratti dall'Enchiridion vaticanum (vol. 9), possono con molta
più autorevolezza di me giustificare quanto sto per dire. La Commissione
teologica internazionale nel 1985 in Temi scelti di ecclesiologia si
esprime chiaramente Sulla preferenza conciliare dell'espressione
"popolo di Dio" con queste parole: "Cosi, si converrà
facilmente che, senza il ricorso al paragone del <<corpo di
Cristo>> applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente
impossibile cogliere la realtà della Chiesa.
Le lettere di san Paolo, nel
loro insieme, sviluppano, infatti, quel paragone in varie direzioni, come nota
la stessa Lumen gentium al
n. 7
[EV 1296‑303]. Tuttavia,
benché ponga in giusto rilievo
l'immagine della Chiesa <<corpo di Cristo>>, il concilio
dà maggior risalto a quella di <<popolo di Dio>>, non fosse
altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo II
della stessa costituzione. Anzi, l'espressione
<<popolo di Dio>>, ha finito per designare l'ecclesiologia
conciliare. Difatti, possiamo asserire che si è preferito <<popolo di
Dio>> alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il
medesimo mistero, quali <<corpo di Cristo>> o <<tempio
dello Spirito santo>>"[21].
Continuando,
la Commissione presieduta dal Prefetto della Congregazione per la dottrina
della fede, il Cardinale J. Ratzinger, indica le ragioni di questa preferenza
con queste parole: "La scelta è stata motivata da ragioni sia teologiche
sia pastorali che, secondo l'opinione
dei padri conciliari,
si confermavano a vicenda: cosi, rispetto ad altre, l'espressione
<<popolo di Dio>> aveva il vantaggio di meglio significare la
realtà sacramentale comune, condivisa da tutti i battezzati, sia come dignità
nella Chiesa, sia come responsabilità nel mondo; inoltre, con una stessa
formula si evidenziavano insieme la natura comunitaria e la dimensione storica
della Chiesa, secondo il desiderio di molti padri conciliari"[22]. La
commissione teologica internazionale precisa ulteriormente: "D'altro
canto, l'espressione <<popolo di Dio>> non è in sé immediatamente
chiara al primo esame e, come ogni altra espressione teologica, esige riflessione. approfondimento e chiarimento per evitare false interpretazioni.
Già sul piano linguistico, il termine latino populus non sembra adatto a
tradurre direttamente il greco laos della Bibbia dei Settanta. Laos è un termine che nei Settanta ha un
significato particolare e determinato,
cioè non solo religioso ma anche direttamente soteriologico e destinato a
trovare il proprio compimento nel Nuovo Testamento"[23].
Evidentemente è in quest'accezione soteriologica complessiva che qui si
preferisce l'espressione conciliare. Ma a ciò si aggiunge un'ulteriore serie di
precisazioni dottrinali, partendo dalle quali si giustifica pienamente la
scelta linguistica tanto dei "modelli ecclesiologici" che il
passaggio da una concezione della chiesa ad un'altra. Muta dunque l'essenza
della chiesa? Certamente no. Cambiano solo i suoi aspetti non essenziali. La
stessa Commissione teologica afferma:
"Distinguiamo anche la struttura essenziale della Chiesa dalla sua figura concreta e mutevole (o la
sua organizzazione). La struttura
essenziale comprende tutto ciò che
nella Chiesa deriva dalla
sua istituzione divina
(iure divino), mediante
la fondazione operata da Cristo e il dono dello Spirito santo. Benché non possa
essere che unica e destinata a
perdurare sempre, questa struttura essenziale e permanente riveste
sempre una figura concreta e un'organizzazione (iure ecclesiastico), frutti
di elementi contingenti storici, culturali, geografici,
politici... Perciò la figura concreta della Chiesa è normalmente soggetta a
evoluzione ed è quindi il luogo ove si manifestano legittime, anzi necessarie
differenze. La diversità delle organizzazioni rimanda tutta all'unità della
struttura"[24].
L'ulteriore
precisazione distingue senza separare del tutto, affermando: "La
distinzione tra la
struttura essenziale e
la figura concreta (od organizzazione)
non significa che tra di esse vi sia una separazione. La struttura essenziale è
sempre implicata in una
figura concreta, senza
la quale non
potrebbe sussistere. Per questo motivo la figura concreta non è neutra
nei confronti della struttura essenziale che deve poter esprimere con fedeltà
ed efficacia, in una determinata situazione.
Su alcuni punti, specificare con certezza ciò che dipende dalla
struttura e dalla forma (o organizzazione) può richiedere un delicato
discernimento"[25]
Ciò non
rende improponibile ma anzi precisa meglio il senso in cui si può parlare di
"modelli ecclesiologici" che non intaccano l'essenza dottrinale della
chiesa, essendo piuttosto i modi di pensare e di intendere non solo
l'organizzazione storica, ma anche la struttura mentale con cui la chiesa è
capita di volta in volta.
La
chiesa, creatura dell'amore di Dio
e convocazione della sua Parola non esiste allo stato puro,
ma è "santa e insieme sempre
bisognosa di purificazione"[26],
perché la chiesa "non ignora affatto che tra i suoi
membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non
sono mancati di quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa bene la
chiesa quanto distanti siano tra loro il messaggio che essa reca e
l'umana debolezza di coloro cui è affidato il vangelo. Qualunque sia il giudizio che la storia dà
di tali difetti, noi dobbiamo esserne
consapevoli e combatterli con forza e
con coraggio, perché non ne
abbia danno la diffusione del Vangelo" [27].
Si può dire che la Chiesa "sa bene quanto essa debba continuamente maturare
in forza dell'esperienza dei secoli, nel modo di realizzare i suoi rapporti con
il mondo"[28].
Questi
accenni autocritici sono la riprova del superamento di un'idea statica e idealistica della chiesa, riassumibile
nell'espressione "societas perfecta". Se la chiesa è, a ragione,
"indefettibile" rispetto al suo patrimonio di fede e rispetto al valore della grazia inerente alla
sua sacramentalità), non è però impeccabile e inamovibile anche per ciò che riguardava il suo metodo di rapportarsi al mondo. Da Paolo
VI possiamo prendere alcuni espressioni di quella ecclesiologia della societas
perfecta, che dovrebbe ormai essere stata
superata teologicamente, ma non
sempre lo è mentalmente e strutturalmente. Tali forme sono così riassumibili:
1) la chiusura in una sorta di
fortezza astorica (metodo
dell'autosufficienza); 2) la lotta senza tregua a tutto ciò che è mondo e storia (modello
dell'anatema); 3)
l'immedesimazione in modelli storici e
sociali contingenti (il metodo dell'integralismo)[29].
Sono tutte forme ecclesiologiche che possono e devono essere superate
attraverso una metodologia conciliare riassumibile nel dialogo e nella
reciproca crescita e conoscenza[30].
E'
risaputo che dopo gli esordi della chiesa vissuti nella consapevolezza di essere fermento nel mondo religioso
giudaico e lievito nel contesto
pagano ad essa circostante, nel mondo latino si cominciò ben presto
a profilare la tendenza a dare sempre
più valore alla componente gerarchica, accorpando a
parte la massa dei fedeli, chiamata plebs
o turba fidelium[31].
Ma ciò finì col rendere irrilevante nei
fatti una teologia del popolo di Dio
che invece era stata molto chiara nei
contenuti. Del popolo di Dio si
affermava infatti, biblicamente, che
era "stirpe eletta,
sacerdozio regale, gente santa, popolo
di sua acquisizione (di Cristo)". Così era scritto nella prima lettera di Pietro (1 Pt 2,9), un passo che trova riscontri in espressioni simili
dell' Antico e del Nuovo Testamento[32].
Una evangelizzazione
che sia davvero nuova deve ripartire da questa ecclesiologia complessiva che valorizza tutte le
componenti del popolo di Dio e solo così potrà annunciare la salvezza in tutta
la sua profondità ed estensione, una salvezza che raggiunge tutto l'uomo nel
suo spessore concreto‑spirituale e ogni dimensione della sua vita sulla
terra, nel suo spessore storico‑sociale. Al contrario
un'evangelizzazione che pur autodeclamandosi nuova
sottende ancora la chiesa come societas non è altro che una ricaduta nei
modelli giudicati negativamente già dal magistero di Paolo VI. Non può, né
potrà mai essere nuova. Non solo sarà vecchia, ma non sarà nemmeno vera e
propria evangelizzazione. In essa non c'è spazio nei fatti, al di là dei
discorsi accattivanti e delle invenzioni di linguaggi seducenti, perché non
potrà nemmeno lontanamente avvertire l'esigenza
di quella evangelizzazione liberante di cui pur tanto parla la nostra chiesa calabrese. Non potrà sentirne né
l'ardore, né l'urgenza perché tutta
l'attenzione e l'interesse dei soggetti ecclesiali sono totalmente assorbite
nella dimensione sacrale, all'interno della chiesa, e nella corsa ad ottenere
potere, competitività e privilegi, nei rapporti con il mondo. Non è un mistero
per nessuno che quanto più la chiesa riduce, nel suo interno, la sua ecclesiologia a gestione del sacro e
annuncio di un vangelo meramente spiritualistico e insistentemente moralistico,
tanto più scende a compromessi e patteggiamenti al suo esterno. Ma in questa
maniera c'è una ricezione dei sacramenti senza annuncio, un utilizzo di
formule propiziatorie e liturgiche
senza legame con la vita, un'insistenza ossessiva sui principi senza prassi.
Proprio ciò ferma e perpetua un
universo chiuso. In questo contesto la scandalosa divisione della
società in ricchi ed impoveriti, le sue manifestazioni antisolidali ed antievangeliche,
e persino le sue violenze occulte o strutturali, suscitano ad alcuni l'impressione di essere ben integrate con la religione e persino con un
certo modello di chiesa, che convive con loro come universo ereditato e che si perpetua per il solo fatto che è
sempre esistito.
A fronte
di questa concezione ecclesiologica statica e clerocentrica sta tuttavia oggi,
almeno nella riflessione teologica e in
alcune esperienze ecclesiali, un
modello decisamente migliore: quello
della koinonìa, facendone conseguire un'ecclesiologia di comunione. E'
chiaro che questa "non può essere
ridotta a pure questioni organizzative o a problemi che
riguardino semplicemente i poteri", e "tuttavia l'
ecclesiologia di comunione è anche fondamento per l' ordine nella chiesa e
soprattutto per una corretta relazione
tra uniformità e pluriformità nella chiesa"[33].
In questo
modello, che coniuga insieme la dimensione spirituale e quella carismatica della chiesa, c'è certamente
più spazio per una crescita del popolo
di Dio nel suo insieme e per una coscientizzazione di tutte le sue componenti.
Ma se ci chiediamo se ci sia anche più spazio per un'evangelizzazione liberante
che annunci e produca salvezza rispetto
ai problemi impellenti che affliggono l'uomo sociale e storico, ci
imbattiamo subito nelle
"difficoltà dell'ortoprassi"
tra "tolleranza saggia e acquiescenza pericolosa", come si esprime D. Farias. Sono gli
eterni scogli che si accompagnano a
tutti i ritardi nella stessa attuazione
del Concilio, i cui impulsi
di rinnovamento e la stessa
catechesi sembrano essere oggi sempre più delegati a gruppi, movimenti
e associazioni, che anziché favorirne una
crescita in senso globale e con un inserimento storico nel territorio, coltivano i loro modelli
ecclesiologici e seguono le indicazioni di leaders di movimenti nati altrove e
a tendenza prevalentemente
spiritualistica[34].
L'impegno
spesso serio che simili movimenti e associazioni dimostrano di profondere in
attività liturgiche, formative e catechetiche, fanno sottovalutare il fatto che manca spesso in loro
quella dimensione storica dell'impegno della carità coniugata
con la giustizia che pure è in linea
con il Concilio e che altro non è che il risvolto ortopratico di una vangelo
non retorico.
Che cosa
fare allora? Da quale ecclesiologia partire perché l'ampiezza soteriologica del
vangelo possa estendersi in autenticità, senza strozzature e senza unilaterizzazioni?
Ovviamente da quella del vaticano II, ma preso in tutta la sua interezza. Nei
nostri ambienti una certa ecclesiologia comunionale‑carismatica si va
affermando in alcune comunità parrocchiali e para‑parrocchiali.
Testimonia una certa crescita nell'ecclesiologia della comunione, come in
quella dei ministeri e della convivialità. Tutto ciò è positivo. Ma occorre
subito dire con chiarezza che non è ancora sufficiente. Non solo perché non
coglie nei fatti, pur affermandolo nelle dichiarazioni, lo spessore storico‑sociale
del popolo di Dio in cui viviamo e di cui siamo parte. Ma soprattutto perché la
semplice ecclesiologia della comunione ridotta alla comunione al proprio
interno o alla crescita e alla formazione dei propri adepti non basta. Né basta
ormai più lo slogan: dobbiamo crescere prima noi e poi ci dedicheremo agli
altri! Come non basta l'altro che dice che la conversione riguarda i cuori e
che se ci convertiamo prima noi, cambierà anche la società!
Non basta
dire questo, non solo perché tali cambiamenti non sembrano essere
all'orizzonte, nonostante il pullulare di fermenti associativi e l'estendersi
di comunità di tipo importazione, ma perché stiamo assistendo inermi e senza
aprire bocca al peggioramento sociale complessivo che ha oggi punte di vero e
proprio imbarbarimento. Lo stesso che ogni giorno di più nel nostro paese e
nella piena legalità formale taglieggia pensionati e famiglie modeste, studenti e
giovani disoccupati, corrodendo ulteriormente l'utilizzabilità di servizi sociali e pubblici, già
annosamente deboli, come la sanità, il diritto allo studio, il diritto alla
casa, il diritto a sposarsi e ad avere una famiglia. A fronte di tutto ciò
l'ecclesiologia dei carismi e dei ministeri, quella della comunità per la
comunità, quella della conversione dei cuori evidentemente non basta. Infatti
tace, non per cattiva volontà, ma perché ritiene inutile anzi antibiblico parlare e magari proporre itinerari di
speranza che siano nello stesso tempo di lungo respiro (di indole
escatologica), ma anche di vivibilità immediata (effettiva promozione umana).
II PARTE: PER UNA RICOSTRUZIONE DEL
TESSUTO ECCLESIALE NEL QUALE VIVIAMO (Alcune proposte "proponibili")
1)Dal
popolo di Dio itinerante agli itinerari storici proponibili
Se,
coerentemente con le linee analitiche
presentate, partiamo da un'ecclesiologia del popolo di Dio, sembrerà
immediatamente più evidente che l'annuncio della buona notizia è davvero
notizia di salvezza per chi ne è privo, a tutti i livelli: morale, sociale,
economico, esistenziale. In una parola, è salvezza nella sua complessità storica. L'ecclesiologia di chi non compie
tale passo oltre il privato e oltre la cerchia della propria comunità si può
senz'altro ritenere conciliare, ma è ancora di una conciliarità monca. Si ferma
infatti al primo capitolo della costituzione Lumen gentium, quello della
chiesa come mistero, ma non arriva a recepire nei fatti il secondo e tutti gli
altri capitoli: quello della chiesa come popolo di Dio e quello di un laicato
che seguendo Cristo testimonia
costruttivamente nel mondo che la sua salvezza è già venuta, anche se ancora
non è compiuta (indole escatologica della chiesa peregrinante...). Così
come non arriva ad accogliere nella prassi la costituzione pastorale Gaudium
et spes.
Non solo
il magistero conciliare, ma anche tutto quello postconciliare, da Paolo VI a
Giovanni Paolo II, agli interventi del nostro episcopato ci insegnano che la
chiesa è popolo di Dio in cammino con Cristo e con gli uomini e recepisce e
condivide i bisogni e le
speranze di tutti ed in primo luogo dei poveri. In questi ritrova il perenne richiamo alla
conversione, perché vi riscopre i
tratti del suo Signore. La scelta preferenziale per i poveri è ribadita come passaggio indispensabile per coniugare
insieme carità e giustizia. Gli stessi nostri vescovi italiani affermano:
"In realtà, la carità autentica contiene in sé l'esigenza della giustizia:
si traduce pertanto in un'appassionata difesa dei diritti di ciascuno. Ma non
si limita a questo, perché è chiamata a vivificare la giustizia, immettendo
un'impronta di gratuità e di rapporto interpersonale nelle varie relazioni tutelate
dal diritto"[35].
Per
chiarire che certe opzioni non sono un optional, né come forse qualcuno
crede, residuati di linguaggio ideologico o sessantottino, mi si consenta
ancora una citazione: "In questa prospettiva l'amore preferenziale per i
poveri si mostra come <<un'opzione, o una forma speciale di primato
nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione
della chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore
della vita di Cristo, ma si applica ugualmente alle nostre responsabilità
sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente
circa la proprietà e l'uso dei beni>>. Senza questa solidarietà concreta,
senza attenzione perseverante ai bisogni spirituali e materiali dei fratelli,
non c'è vera e piena fede in Cristo. Anzi, come ci ammonisce l'apostolo
Giacomo, senza condivisione con i poveri la religione può trasformarsi in un
alibi o ridursi a semplice apparenza (cfr. Gc 1, 27‑2, 13)"[36]
Da tutto
il ragionamento svolto scaturiscono particolari conseguenze. La prima ci fa
capire che l'evangelizzazione deve essere subito connotata come testimonianza
profetica e progettualità liberante. Il convegno di Paola del 1991 ha
rilanciato affermazioni come quelle sentite nella stessa città già nel 1978:
"E' stata riconosciuta la necessità di una costante azione di
denuncia profetica della chiesa, più
coraggiosa ed incisiva: questa diffusa esigenza rende evidente come le chiese
locali in tutte le loro componenti, debbano
disporsi a riassumere un atteggiamento di servizio e di distacco
da compromessi con il potere. Tali considerazioni sono state
accompagnate dal riconoscimento della vigile presenza dell'episcopato calabro sui principali problemi
emergenti nella regione (mafia, lavoro,
emigrazione)"[37].
Se
il peccato oltre ad essere
dimensione personale è anche struttura
sociale e patto antisolidale, la
denuncia profetica deve essere accompagnata da un patto di solidarietà e d'amore che sia progettuale e
non vagamente esortativo o narcisisticamente
retorico. L'appello etico dei nostri
Vescovi deve intersecare tale progettualità concreta: "In un contesto
povero come quello calabrese ogni pigrizia
e ogni inadempienza a questo riguardo è grave colpa e,
socialmente, un gravissimo errore. Il grido di chi è oppresso dalle
ingiustizie e le lacrime di quanti soffrono o si trovano nel bisogno vanno considerati e compresi, prima
che diventino esasperazione e minaccia di ribellione"[38].
Nell'ultimo convegno dell'autunno 1991 l'episcopato calabro
ha parlato anch'esso di
"progettualità", pur precisando limiti e ambiti in cui deve essere sviluppata: "L'ordine
politico, economico, sociale postulano
primariamente un ordine etico e una progettualità che, tenendo conto dell'identità della
nostra terra, delle sue risorse e
potenzialità, l'immette in un cammino
possibile, graduale e convincente (...) La chiesa non ha progetti tecnici, contingenti. Il suo è un progetto di
conversione e di orientamento vitale onde il popolo calabrese
sia libero nella verità, nella ricerca
della giustizia e nella solidarietà"[39].
Un'evangelizzazione testimoniale comprende, in positivo alcuni passaggi che
sono l'educazione alla legalità; l'impegno
sociale, che coniuga carità e
giustizia; l'educazione alla partecipazione. Se si vuole essere efficaci,
occorrerebbe però aggiungere che una simile testimonianza deve diventare progettualità che non deve avere paura di
scelte religiosamente coraggiose, eticamente irreprensibili e
programmaticamente verificabili.
I
convegni infatti rischiano di essere, alla lunga, dichiarazioni di buone
intenzioni. Dal canto suo, il coraggio di un modello di chiesa liberante non
deve essere controbilanciato, come sembra talora di sentire in qualche intervento autorevole, da affermazioni che lo vanno successivamente ridimensionando, perché ci si preoccupa di suscitare paure o interventi
censori. Se la profezia è coraggiosa deve accontentarsi di non avere altre
gratificazioni che se stessa. Essa è anche annuncio testimoniale, in quanto evangelizza spazi ecclesiali ed
ambiti locali all'effettiva legalità,
anche a costo di perdere appoggi e privilegi.
Per essere credibile, la sua progettualità deve includere e prevedere verifiche puntuali, che le
consentano quella progressività che è garanzia di realismo.
2) Alcuni
itinerari proponibili
Solo
alcuni abbozzi che ovviamente sono da verificare e concertare insieme, perché
nascono dall'esigenza primaria di vivere qualsiasi progettualità come
progettualità d'insieme. Riguardano l'autoevangelizzazione, la parrocchia,
l'itinerario di catechesi per gli adulti.
2.1
Convertirsi a Cristo per convertire la Chiesa
Il primo
itinerario proponibile è un itinerario di continua conversione a Cristo perché
ci si possa convertire nella Chiesa e si possa insieme aiutare a convertire la
Chiesa. Ciò non significa che qualcuno di noi si arroga il diritto di
convertire gli altri, ma che insieme ci si mette in stato di conversione sicché
come Chiesa si affronti e si pratichi l'autoevangelizzazione. A partire da
questa autoevangelizzazione si può e si deve
correttamente impostare l'evangelizzazione degli altri.
In questo
contesto l'autoevangelizzazione non può diventare un nuovo slogan accanto ad
altri già assunti, ma deve prevedere analisi e interventi su a) soggetti, b)
contenuti, c) modalità della evangelizzazione.
a)Autoevangelizzazione
dei soggetti: Chi annuncia a chi il vangelo? Chi sono i
soggetti dell'evangelizzazione come annuncio e chi sono i destinatari? Quale
ruolo effettivo devono avere i diversi soggetti ecclesiali (pastori e
presbiteri, operatori pastorali e altri soggetti oggi operanti come religiosi e
gruppi, movimenti ed associazioni)? In cosa ciascuno di essi deve mettersi
in stato di conversione?
b)Evangelizzazione
della società (i contenuti): Quali sono i contenuti del
"vangelo"? Come passare nella comunità cristiana dalla spesso troppo
reclamizzata "pace del cuore" a una effettiva pace collegata con la
giustizia e la crescita della corresponsabilizzazione dei cristiani? Dopo la
caduta di progetti storici collettivizzanti, cosa resta di valido del vangelo
della pace e della giustizia anche come proposta e progetto di rapporti umani
riconciliati e aggreganti che non rinunciano al valore di una solidarietà
collettivamente realizzata?
c)Evangelizzazione
degli stumenti (modalità): Quali sono gli strumenti per
l'autoevangelizzazione della pace e della giustizia? Quali stiamo già
adoperando? Quali sono stati i più utili, quali i più deboli e quali sono da
revisionare? A quali rinunciare perché contrari al vangelo? Come arrivare a una
valorizzazione di strumenti quali i luoghi di formazione, le pubblicazioni, i
convegni ecc.?
2.2 La
parrocchia
Se la
parrocchia è ancora riconosciuta così
centrale per l'evangelizzazione, occorre elaborare un itinerario di
autoevangelizzazione con il coraggio di rivedere e verificare alla luce dell'evangelo
figura e ruolo dei parroci, consigli pastorali, strutture parrocchiali.
Occorre
far sì che la parrocchia diventi non solo luogo di celebrazione, ma lugo dove
si celebra e si inizia ad organizzare la speranza e dove si annunciano le
beatitudini.
La
parrocchia diventa un laboratorio dove si apprendono e si praticano le
beatitudini. Si richiede perciò il primato effettivo della Parola di Dio, la
rinuncia a ciò che è in contrasto con essa, la povertà e la sobrietà come segni
credibili della potenza dell'evangelo.
La
parrocchia diventa un laborario di convivialità e di convivenza dei diversi. Si
pratica così l'annuncio testimoniale dell'accoglienza e della carità nei fatti,
con un continuo verificare i progetti di crescita della società, collaborando a
quelli che portano un'effettivo avanzamento degli impoveriti.
2.3
Itinerario catechetico degli adulti
La chiesa
calabrese elabora un itinerario di
formazione degli adulti, che sia pilota anche per altri itinerari. Si
individuano i temi centrali della fede, con un'attenzione tutta biblica sia
nella ricerca delle figure che dei nuclei portanti del messaggio giudaico‑cristiano.
Si compie un itinerario sperimentale, capace di autocorrezioni e soprattutto di
autoevangelizzazione. Badando che il vero problema non è l'evangelizzazione,
nuova o antica che sia, il vero problema è il vangelo, perché il Vangelo è
Cristo. A Lui occorre sempre far riferimento. Un vangelo davvero accolto non si
limita a credere astrattamente a Cristo, ma crede anche in ciò
che lo stesso Cristo ha creduto: nell'uomo e nel suo futuro, nella fraternità e
nella pace.
[1]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione
e testimonianza della carità.
Orientamenti pastorali per gli anni '90, 26.
[4]E. KLINGER, Der Glaube des Konzils, in
E. KLINGER und K. WITTSTADT (Hg.) Glaube
im prozess. Christsein nach dem II. Vatikanum. Für Karl Rahner, Herder,
Freiburg / Basel / Wien 1984, 615.
[7]SYNODUS EPISCOPORUM Relatio finalis Ecclesia
sub Verdo Dei mysteria Christi celebrans pro saluti mundi, C. 1, EV
9, 1800.
[14]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Documento
pastorale Comunione e comunità: I. Introduzione al piano pastorale, Roma, 1
ottobre 1981, n.14: ECEI 3, 646.
[20]Ivi, n. 32: "Ma questa carità, proprio perché
genuina, non nasconderà ai fratelli la verità di Cristo, non la mutilerà o
attenuerà nella ricerca di ingannevoli compromessi".
[21]COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi
scelti di ecclesiologia, 2.1: EV 9, 1683. In questa e nelle seguenti
citazioni della Commisssione teologica internazionale le sottolineature sono
mie.
[29]"Com'e chiaro, i rapporti fra la chiesa e
il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente
parlando, la chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal
commercio della società profana; come
potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatematizzandoli e movendo
crociate contro di essi; potrebbe
invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso
preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via"
(PAOLO VI, Ecclesiam suam III: EV
2, 195).
[30]"Sembra a
noi invece che il rapporto della chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa
meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma
adattato all'indole adell'interlocutore e
delle circostanze di fatto (altro
è infatti il dialogo
con un fanciullo ed altro con un
adulto; altro con un credente e altro con un non credente).
Ciò è suggerito: dall'abitudine ormai diffusa di così concepire le
relazioni fra il sacro e il profano,
dal dinamismo trasformatore della società
moderna, dal pluralismo delle
sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell'uomo, sia religioso che non
religioso, fatto abile dall'educazione
civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo"
(PAOLO VI. Ecclesiam ...,EV2, 195).
[31]Lo testimonia il modo di presentare la
tripartizione classica dell' ordine: vescovi
in primo luogo; presbiteri in
secondo; diaconi in terzo. Al di sotto dei quali ci sono
"tutti gli altri nella chiesa, non
insigniti di alcuna dignità", cioè dei "laici, ossia dei
plebei, ossia della plebe" sicché
la chiesa ha queste sue membra: "vescovi, presbiteri, diaconi e folla dei
fedeli (turba fidelium)"(Così il Migne nel suo commento a un testo di Tertulliano: PL 2, 922, nota).
[32]Già l' Esodo disegnava l'identità teologica
del popolo di Dio con le parole "Voi sarete per me un
regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,6; cfr. anche 23,22);
mentre l' Apocalisse ribadisce la
dignità regale e il carattere sacerdotale
con l' espressione: "li hai costituiti per Dio un regno di
sacerdoti" (Apc 5,10; 1,6). Di un' eredità particolare parla anche il libro degli
Atti, quando, per esempio, accenna all' "eredità (klèros) tra i santi" (At 26,18) e
Fil 2, 15, che paragona la funzione della comunità dei credenti a
quella di un astro nel firmamento.
[34]D. FARIAS, Situazioni ecclesiali i e crisi
culturali nella Calabria contemporanea,
Marra, Cosenza 1987, 221‑233.