Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

RINNOVAMENTO ECCLESIOLOGICO E "NUOVA EVANGELIZZAZIONE"

"Rifare con l'amore il tessuto cristiano della comunità cristiana. L'evangelizzazione e la testimonianza della carità  esigono oggi, come primo passo da compiere, la crescita di una comunità cristiana che manifesti in se stessa, con la vita e le opere, il vangelo della carità. E' vero, infatti, che sentiamo urgente rivitalizzare il tessuto sociale del nostro paese, con lo sguardo rivolto a tutta l'umanità: ma ciò ha come condizione «che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali». Se il sale diventa insipido, con che cosa infatti lo si potrà rendere salato"[1].

Questo passaggio  del documento CEI testimonia una presa di coscienza del magistero dei vescovi rispetto ad alcuni gangli  ecclesiologi ricorrenti nel documento medesimo e che sono di grande importanza per comprendere il rinnovamento ecclesiologico del Vaticano II. Si tratta di connessioni molteplici, ma che abbracciano almeno questi tre rapporti: 1) evangelizzazione e  testimonianza, 2) testimonianza e prassi della carità, 3) prassi della carità e vita comunitaria intraecclesiale.

Vangelo, testimonianza, carità e vita comunitaria non sono dunque le articolazioni letterarie, quanto  piuttosto i pilastri  dottrinali portanti degli  Orientamenti pastorali per gli anni '90. Si tratta non di grumi di elementi differenti che confluiscono e convergono, ma di vere e proprie voci di riferimento. Per noi sono lemmi teologicamente pregnanti.  Nel corso del mio contributo  partirò da queste voci per tentare un'analisi più approfondita di ciò che esse implicano, al fine di evidenziare i passaggi ecclesiologici ivi sottostanti.

Sì, perché di veri e propri passaggi si tratta, che appariranno più evidenti nel  confronto con i corrispettivi e contro‑equivalenti valori ecclesiologici preconciliari. Con ciò non si vuol dire che attraversati i guadi  di quell'ecclesiologia, la chiesa si è già rinnovata come per incanto.  E' sotto gli occhi di tutti che altro è la riflessione, altro è l'applicazione. All'ecclesiologia conciliare,  teologicamente maturata e pastoralmente proclamata,  non corrisponde sempre  un'ecclesialità  teologalmente rinnovata ed evangelicamente ispirata.  Non spetta a me  produrre una verifica  della concreta realizzazione dei contenuti  ecclesiologici in questione.   Un bilancio del genere andrebbe anche tracciato se non altro per serietà ed effettiva volontà "politica" di cambiare quanto ancora resta da cambiare. Ma perché  possa essere credibile, dovrà essere  polifonico e tener conto non solo di voci omogenee, che cantano nel coro, ma anche  ‑ dialetticamente  ‑ di  quelle opinioni critiche  che lungi dal  ledere una certa dignità  della Chiesa, sono al contrario la prima testimonianza dell'avvenuto  coinvolgimento di tutti nel sentire ecclesiam oltre che nel tradizionale sentire cum ecclesia . E' proprio questa maturazione di corresponsabilità  ciò che tutti si augurano,  compreso il testo dal quale siamo partiti, il quale così prosegue: "Ciascuno, secondo il proprio ministero e il dono dello Spirito Santo ricevuto, deve sentirsi impegnato in prima persona a edificare la comunità  nell'amore di Cristo, partecipando con piena corresponsabilità alla sua vita e alla sua missione"[2].

La corresponsabilizzazione di tutti per la chiesa implica, come si diceva, l'attraversamento di  alcuni passaggi obbligati, quei percorsi cioè che non dovrebbero essersi lasciati alle spalle  solo quanti hanno avuto la ventura di vivere le due stagioni, il preconcilio e  il concilio. L'ecclesiologia prima e dopo il concilio non rappresenta  infatti una cesura tra  epoche storiche diverse, quanto piuttosto diversi atteggiamenti spirituali e differenti impostazioni esistenziali. I veri passaggi avvengono a questo livello e interessano quelli che sono nati ecclesialmente dopo il Vaticano II, non meno di quelli che hanno partecipato al trapasso da un modo di essere chiesa all'altro. Anzi, interessano  probabilmente i primi più dei secondi, che non avendo nessuna esperienza di questi effettivi itinerari, possono ritenere valide  modalità  e impostazioni che invece sono soltanto una ricaduta nei vecchi modelli.

Sarà allora utile dedicare una parte della riflessione ai passaggi obbligati di ogni ecclesiologia conciliare, non solo per riscoprirne l'attualità, ma anche per verificare dove si collochi la nostra ecclesialità.  Accanto a questa ricognizione  mi sembra ugualmente doveroso  accogliere  con lealtà intellettuale e inventiva ecclesiale l'appello della CEI a "rifare con l'amore il tessuto cristiano della comunità cristiana", dando valore non retorico ma effettuale a quell'amore di cui si parla e con il quale occorre ritessere il tessuto cristiano di ogni nostra appartenenza ecclesiale.

Fatte queste doverose premesse e precisazioni, il mio intervento si articolerà secondo questi titoli:

I PARTE: I  PASSAGGI ECCLESIOLOGI DEL CONCILIO VATICANO II

  (Lineamenti analitici)

1)Dal vangelo creduto al vangelo vissuto;

2)Dall'attestazione dei segni prodigiosi al narrare Dio con una vita credibile;

3)Dalla carità come gesto individuale alla scoperta dell'amore come dinamismo teologale;

4)Dalla chiesa societas alla chiesa come popolo di Dio.

II PARTE: PER UNA RICOSTRUZIONE DEL TESSUTO ECCLESIALE NEL QUALE VIVIAMO (Alcune proposte "proponibili")

I PARTE: I PASSAGGI ECCLESIOLOGI DEL CONCILIO VATICANO II

1)Dal vangelo creduto al vangelo vissuto

Uno degli snodi fondamentali  della teologia del Vaticano II  è  la concezione della fede. Da essa dipende anche l'ecclesiologia  e  il mutato atteggiamento della Chiesa nei riguardi del mondo. Il Vaticano II professa infatti una fede che non è il solo ossequio intellettuale nei confronti delle verità della fede o della pura e semplice Verità in quanto tale. Per definire la fede il Vaticano I invocava   la soggezione dell'uomo al suo Creatore e la dipendenza della ragione umana (creata) alla Verità (increata) che è Dio [3], per il nostro Concilio invece la fede si esprime come accoglienza della vocazione che Dio rivolge all'uomo, una vocazione che si dispiega in tutta la sua ampiezza particolarmente nella Gaudium et Spes[4]  e che è chiamata alla vita trinitaria e a quella comunitaria, all'impegno fattivo e solidale  nella storia per migliorare il mondo.

Sulla base di questa vocazione si può comprendere la validità dell'affermazione che con il Vaticano II le gioie e angosce degli uomini sono entrate del Denzinger, cioè in quella raccolta di affermazioni riguardanti il nostro "depositum fidei"  e che termina di solito con le parole: "chi non crede in questa maniera sia scomunicato".

Ciò significa non solo, come di solito si asserisce, che con il Vaticano II la chiesa passa dalla scomunica al dialogo. E' in gioco non tanto una metodologia pastorale, quanto piuttosto una diversa comprensione della stessa fede. L'accento infatti è posto sull'adesione con la globalità dell'esistenza a una vocazione di amore, nel quale amore il mondo va guardato con gli occhi di Dio. Da ciò discende una prima conseguenza, così formulabile: non potrà capire il Concilio colui che non si accosta al mondo con l'amore del Concilio. Non lo capirà  mai nemmeno "l'uomo di chiesa" il cui cuore resta lontano da quei problemi ed aneliti di speranza testimoniati ed avvertiti dal Vaticano II. Mai come in questo caso, si realizza la massima agostiniana dell' amore come unica via per poter conoscere. In una frase, non solo chi non ama il Concilio non potrà capirlo, ma non lo capirà neanche chi non ama l' uomo, gli uomini e il loro futuro.

La fede è in definitiva un tutt'uno con la solidarietà e questo binomio si radica nell'affermazione conciliare: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d' oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo"[5]. All'afflato delle solidarietà si accompagna subito la dimensione "antropologica" della teologia conciliare, che rende la chiesa attenta all' uomo fino a sentirne la corresponsabilità: ciò che è autenticamente umano sta a cuore anche ai discepoli del Signore: "e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore" (ivi). Sono queste le premesse di una solidarietà che diventa nello stesso tempo accoglienza del dono di Dio della corresponsabilità e vita di comunione che sa testimoniare l'amore di Dio con il prodigio di una vita che concretamente e non retoricamente, né moralisticamente, ma nei fatti, si spende per i fratelli. Ma siamo già al secondo passaggio.

2) Dall'attestazione dei segni prodigiosi al narrare Dio con una vita credibile

L'ecclesiologia del Vaticano II viene di solito sintetizzata nella con‑vocazione alla vita trinitaria di uomini riuniti in un popolo, che seguendo Cristo e sotto l' influsso dello Spirito, camminano verso il regno. Per questa ragione la chiesa cammina anche insieme con il genere umano e nella sua storia. Con la storia umana i discepoli di Cristo sono realmente e intimamente solidali: "La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia" (ivi).

La Lumen Gentium precisa ulteriormente i destinatari e gli ambiti della solidarietà quando scrive: "Come Cristo ... è stato inviato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore affranto, a cercare e salvare ciò  che era perduto (Lc 19,10): così  pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dall' umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l' immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l'indigenza, e in loro intende di servire il Cristo"[6].

La chiesa del concilio intende restare fedele a queste consegne e pertanto a) riconosce  Cristo nei poveri e nei sofferenti; b) si premura di "sollevarli" dall'indigenza; c) intende servire Cristo

nei poveri. In tutto ciò vive la sua dimensione cristologica ed antropologica nello stesso tempo, è solidale con l' uomo  ed è fedele a Cristo.

Il sinodo dei vescovi convocati in via straordinaria per la valutazione del cammino post‑conciliare non esitò a dire: "L'ecclesiologia di comunione è l' idea centrale e fondamentale dei documenti del Concilio"[7]. Alla domanda cosa significasse "la complessa parola 'comunione', il Sinodo rispondeva: "Si tratta fondamentalmente della comunione  con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Questa comunione si ha nella Parola di Dio e nei Sacramenti[8]. Sembrerebbe, a prima vista, che si tratta di una comunione  che include solo una dimensione, quella spirituale‑sacramentale detta anche "verticale". Ma non è così. La definizione infatti riprende sostanzialmente quella della Lumen Gentium, che affermava che la chiesa è "sacramento ... dell' intima unione con Dio e dell' unità di tutto il genere umano"[9].  La comunione che è certamente effetto dell'azione dello Spirito Santo si riverbera, in primo luogo, all'interno della compagine ecclesiale,  convivenza armonica di pluriformi carismi: "Egli guida la Chiesa per tutta intera la verità (...), la unifica nella comunione e nel ministero, la istruisce e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti"[10].

 

Eppure si tratta di  una realtà comunionale che ha un valore sostanzialmente dinamico e che abbraccia subito la cosiddetta dimensione orizzontale, quella della "unione degli uomini", sulla quale non solo la Gaudium et spes, ma tutto il Concilio spesso ritornano. E' una comunione interumana indicata, sostanzialmente, come vocazione a partecipare alla vita di Dio[11], attraverso l'indispensabile mediazione di Cristo, ma che si estende oltre i confini puramente istituzionali o carismaticamente funzionali della chiesa medesima: "tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da Lui veniamo, per  Lui viviamo, a Lui siamo diretti"[12]. Da queste premesse ecclesiologiche il sinodo non può che ribadire: "Ciò è di grande importanza specialmente nei nostri tempi poiché  la Chiesa, in quanto una ed unica, come sacramento, è cioè segno e strumento di unità e di riconciliazione, di pace fra gli uomini, e le nazioni, le classi e i popoli"[13].

Non si tratta solo di immagini metaforiche, ma di una realtà "teologale", potremmo dire "teo‑antropologica", nel senso che il destino dell' uomo è assunto fino alla soglia della divina Trinità. Qui, attraverso la porta che è Cristo, l' uomo entra come figlio nel dinamismo comunionale che lo rende "partner" dialogante, amante  e vivente di Colui che è sua origine e fine, suo spessore e ragione stessa dell' esistere, senso ultimo in cui egli riceve senso.

Volendo chiarire il termine "comunione", i Vescovi Italiani hanno scritto, a loro volta, successivamente al Concilio: "Quando diciamo 'comunione' pensiamo a quel dono dello Spirito per il quale l' uomo non è più solo né lontano da Dio, ma è chiamato ad essere parte della stessa comunione che lega tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e gode di trovare dovunque, soprattutto nei credenti in Cristo, dei fratelli, con i quali condivide il mistero profondo del suo rapporto con Dio"[14].

Sulla base della comunione la testimonianza  riceve una connotazione nuova. Diventa motivo per  celebrare Dio e le sue opere salvifiche, fino ad arrivare ad essere il prodigio stesso dell'amore di Dio, della sua tenerezza che si riversa su ogni creatura umana. Il documento su Evangelizzazione e testimonianza della carità è molto esplicito a tale riguardo, quando afferma: "L'annuncio che la chiesa è chiamata a fare nella storia si riassume  ... in un'affermazione centrale: <<Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è "Via, Verità, Vita". Dalla forza e dalla radicalità di questo annuncio scaturiscono l'ardore della vita e dell'impegno dei cristiani, l'incisività e la capacità di rendere contemporanea all'uomo l'espressione con cui il messaggio è annunciato e portato a efficacia di vita, la novità e fecondità dei metodi di cui deve far uso oggi l'evangelizzazione"[15].

Facendo leva su  questa intima convinzione che non solo esprime, ma che ‑ per così dire ‑ grida il vangelo con la propria vita, si può comprendere cosa voglia dire l'episcopato italiano, quando in sintonia con il Vaticano II afferma nello stesso Piano pastorale: "Chi vuole annunciare e dialogare non può non partire dal proprio incontro personale con Cristo e da una vita profondamente innestata nell'esperienza della comunità cristiana. Anche se ‑ parallelamente ‑ deve sempre aver viva la consapevolezza che la verità che annuncia è Gesù Cristo, una verità più grande delle sue parole, della sua comprensione, della sua esperienza e delta vita stessa ella chiesa. Altrimenti, rischia di non annunciare Cristo ma se stesso, una sua verità"[16].

 

Ma ciò costituisce anche il presupposto per intendere la carità non più come gesto  pietistico individuale, ma come celebrazione dell'amore solidale e appassionato di Dio.

3)Dalla carità come gesto individuale alla scoperta dell'amore come dinamismo teologale

Allorquando si è nei paraggi della Verità, si è inevitabilmente anche accanto alla Carità di Dio. Questa riscalda il cuore e dà un'altra visione dell'uomo e degli uomini, così come dà un'altra visione dei rapporti che ogni cristiano deve intrecciare con gli altri. Anzi la presenza o l'assenza della carità è l'ultimo elemento discriminante ed è, alla fine, il più valido criterio di discernimento per sapere se ci siamo avvicinati veramente a Dio e non piuttosto ai nostri fantasmi, e che in realtà lontani da Dio, generano fanatismo, insofferenza, pietismo. Chi si accosta alla Verità, sa che non la possiede, ma piuttosto è da questa posseduto.

Ecco la citazione del testo in oggetto:  "proprio il possesso, o meglio l'essere posseduti da quella verità che è Cristo, non potrà non spingere il cristiano al dialogo con tutti"[17]. Un dialogo che non è che il primo passo di un dinamismo teologale che spinge alla solidarietà, cioè al sapersi fare fratello di strada, aprendo sentieri inediti di compagnia con gli uomini, anche con i diversi,  anzi proprio con loro: perché chi sa di essere posseduto dalla Verità che è Cristo entra nella Sua logica, nel suo donarsi, sicché ‑ continua il testo citato ‑ "annuncerà, sì, la verità con la vita e le parole ma facendosi <<giudeo con i giudei ... tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno>> (1 Cor 9, 19‑22). E saprà cogliere e apprezzare i <<semi di verità>, presenti in ogni uomo. Annuncerà perciò il vangelo della carità, ma non con l'imposizione, né con il risentimento, né con la pretesa (Is 42, 2‑3) bensì con la dolcezza, con l'umiltà e il rispetto pronto a rendere ragione della speranza che vive in lui (cfr. 1 Pt 3,15‑16)"[18]. Il motivo non può essere che uno solo ed è un motivo teologale più che teologico. E' infatti il sapersi trascinati da una carità che spinge ad ulteriori gesti di amore, perché è fuori discussione che il vangelo della carità non si annuncia se non attraverso la carità[19]. Una carità, che per essere nei paraggi di Dio non ha bisogno né di nascondersi, né di camuffarsi, ma nemmeno di ammantarsi di meriti e virtù, giacché tutto ci è stato donato[20].

Quest'ulteriore passaggio dai gesti di carità alla carità impiantata nell'amore di Dio si richiama direttamente agli altri due e sta a fondamento di un'evangelizzazione che, per così dire, si autostruttura da un suo interno dinamismo, quello della comunione e che giustifica il transito globale da un tipo di ecclesiologia in cui la chiesa si considerava societas a quella della chiesa come comunità e come popolo di Dio.

4)Dalla chiesa societas alla chiesa come popolo di Dio.

Due serie di testi, tratti dall'Enchiridion vaticanum (vol. 9), possono con molta più autorevolezza di me giustificare quanto sto per dire. La Commissione teologica internazionale nel 1985 in Temi scelti di ecclesiologia si esprime chiaramente Sulla preferenza conciliare dell'espressione "popolo di Dio" con queste parole: "Cosi, si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone del <<corpo di Cristo>> applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della Chiesa.  Le lettere di san Paolo,  nel loro insieme, sviluppano, infatti, quel paragone in varie direzioni, come nota la stessa Lumen gentium  al n.  7  [EV  1296‑303].  Tuttavia,  benché ponga in giusto rilievo  l'immagine della Chiesa <<corpo di Cristo>>, il concilio dà maggior risalto a quella di <<popolo di Dio>>, non fosse altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo  II  della  stessa  costituzione.  Anzi,  l'espressione <<popolo di Dio>>, ha finito per designare l'ecclesiologia conciliare. Difatti, possiamo asserire che si è preferito <<popolo di Dio>> alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali <<corpo di Cristo>> o <<tempio dello Spirito santo>>"[21].

Continuando, la Commissione presieduta dal Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il Cardinale J. Ratzinger, indica le ragioni di questa preferenza con queste parole: "La scelta è stata motivata da ragioni sia teologiche sia  pastorali  che,  secondo  l'opinione  dei  padri  conciliari,  si confermavano a vicenda: cosi, rispetto ad altre, l'espressione <<popolo di Dio>> aveva il vantaggio di meglio significare la realtà sacramentale comune, condivisa da tutti i battezzati, sia come dignità nella Chiesa, sia come responsabilità nel mondo; inoltre, con una stessa formula si evidenziavano insieme la natura comunitaria e la dimensione storica della Chiesa, secondo il desiderio di molti padri conciliari"[22].  La commissione teologica internazionale precisa ulteriormente: "D'altro canto, l'espressione <<popolo di Dio>> non è in sé immediatamente chiara al primo esame e, come ogni altra espressione teologica,  esige riflessione.  approfondimento e chiarimento per evitare false interpretazioni. Già sul piano linguistico, il termine latino populus non sembra adatto a tradurre direttamente il greco laos della Bibbia dei Settanta.    Laos è un termine che nei Settanta ha un significato   particolare e determinato, cioè non solo religioso ma anche direttamente soteriologico e destinato a trovare il proprio compimento nel Nuovo Testamento"[23]. Evidentemente è in quest'accezione soteriologica complessiva che qui si preferisce l'espressione conciliare. Ma a ciò si aggiunge un'ulteriore serie di precisazioni dottrinali, partendo dalle quali si giustifica pienamente la scelta linguistica tanto dei "modelli ecclesiologici" che il passaggio da una concezione della chiesa ad un'altra. Muta dunque l'essenza della chiesa? Certamente no. Cambiano solo i suoi aspetti non essenziali. La stessa Commissione teologica afferma:  "Distinguiamo anche la struttura essenziale della Chiesa  dalla sua figura concreta e mutevole (o la sua organizzazione).  La struttura essenziale comprende tutto ciò che   nella Chiesa  deriva  dalla  sua  istituzione  divina  (iure  divino), mediante la fondazione operata da Cristo e il dono dello Spirito santo. Benché non possa essere che unica e destinata a  perdurare sempre, questa struttura essenziale e permanente riveste sempre una figura concreta e un'organizzazione (iure ecclesiastico),  frutti  di  elementi  contingenti storici, culturali, geografici, politici... Perciò la figura concreta della Chiesa è normalmente soggetta a evoluzione ed è quindi il luogo ove si manifestano legittime, anzi necessarie differenze. La diversità delle organizzazioni rimanda tutta all'unità della struttura"[24].

L'ulteriore precisazione distingue senza separare del tutto, affermando:    "La  distinzione  tra  la  struttura  essenziale  e  la  figura concreta (od organizzazione) non significa che tra di esse vi sia una separazione. La struttura essenziale è sempre implicata  in  una  figura  concreta,  senza  la  quale  non  potrebbe sussistere. Per questo motivo la figura concreta non è neutra nei confronti della struttura essenziale che deve poter esprimere con fedeltà ed efficacia, in una determinata situazione.  Su alcuni punti, specificare con certezza ciò che dipende dalla struttura e dalla forma (o organizzazione) può richiedere un delicato discernimento"[25]   

Ciò non rende improponibile ma anzi precisa meglio il senso in cui si può parlare di "modelli ecclesiologici" che non intaccano l'essenza dottrinale della chiesa, essendo piuttosto i modi di pensare e di intendere non solo l'organizzazione storica, ma anche la struttura mentale con cui la chiesa è capita di volta in volta.

 La  chiesa, creatura dell'amore di Dio  e  convocazione della  sua Parola non esiste allo stato puro, ma  è "santa e insieme sempre bisognosa di purificazione"[26], perché  la chiesa  "non ignora affatto che tra i suoi membri,  sia  chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non sono mancati di quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa bene la chiesa quanto distanti siano tra loro il messaggio che essa  reca e  l'umana debolezza di coloro cui è affidato il vangelo.  Qualunque sia il giudizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo  esserne consapevoli e combatterli con forza e  con  coraggio, perché non ne abbia danno la diffusione del Vangelo" [27]. Si può dire che la Chiesa "sa bene quanto essa debba continuamente maturare in forza dell'esperienza dei secoli, nel modo di realizzare i suoi rapporti con il mondo"[28].

Questi accenni autocritici sono la riprova del superamento di un'idea statica  e idealistica della chiesa, riassumibile nell'espressione "societas perfecta". Se la chiesa è, a ragione, "indefettibile" rispetto al suo patrimonio di fede e rispetto  al valore della grazia inerente alla sua  sacramentalità),  non è però impeccabile e inamovibile  anche per ciò che  riguardava il suo metodo di rapportarsi al mondo. Da  Paolo  VI possiamo prendere alcuni espressioni di quella ecclesiologia della societas perfecta, che dovrebbe ormai essere stata  superata teologicamente, ma  non sempre lo è mentalmente e strutturalmente. Tali forme sono così riassumibili: 1) la chiusura in una sorta di  fortezza  astorica (metodo dell'autosufficienza); 2) la lotta senza tregua a  tutto  ciò che  è mondo e storia  (modello  dell'anatema);  3) l'immedesimazione in  modelli storici  e  sociali contingenti (il metodo dell'integralismo)[29]. Sono tutte forme ecclesiologiche che possono e devono essere superate attraverso una metodologia conciliare riassumibile nel dialogo e nella reciproca crescita e conoscenza[30].

E' risaputo che dopo gli esordi della chiesa vissuti  nella consapevolezza di essere fermento nel mondo religioso giudaico e lievito nel  contesto pagano  ad  essa circostante, nel mondo latino  si  cominciò  ben presto   a profilare la tendenza a dare sempre  più  valore  alla componente gerarchica, accorpando a parte la massa dei fedeli, chiamata  plebs o turba fidelium[31]. Ma ciò finì col rendere  irrilevante nei fatti una  teologia del popolo di Dio che invece era stata molto chiara nei  contenuti.  Del popolo di Dio si affermava infatti, biblicamente,  che era "stirpe  eletta, sacerdozio  regale, gente santa, popolo di sua  acquisizione  (di Cristo)". Così  era scritto nella prima  lettera di Pietro (1 Pt 2,9),  un passo che trova riscontri in espressioni  simili  dell' Antico e del Nuovo Testamento[32].

Una evangelizzazione che sia davvero nuova deve ripartire da questa ecclesiologia  complessiva che valorizza tutte le componenti del popolo di Dio e solo così potrà annunciare la salvezza in tutta la sua profondità ed estensione, una salvezza che raggiunge tutto l'uomo nel suo spessore concreto‑spirituale e ogni dimensione della sua vita sulla terra, nel suo spessore storico‑sociale. Al contrario

 un'evangelizzazione che pur autodeclamandosi nuova sottende ancora la chiesa come societas non è altro che una ricaduta nei modelli giudicati negativamente già dal magistero di Paolo VI. Non può, né potrà mai essere nuova. Non solo sarà vecchia, ma non sarà nemmeno vera e propria evangelizzazione. In essa non c'è spazio nei fatti, al di là dei discorsi accattivanti e delle invenzioni di linguaggi seducenti, perché non potrà nemmeno lontanamente  avvertire l'esigenza di quella evangelizzazione liberante di cui pur tanto parla la nostra  chiesa calabrese. Non potrà sentirne né l'ardore, né l'urgenza perché  tutta l'attenzione e  l'interesse  dei soggetti ecclesiali sono totalmente assorbite nella dimensione sacrale, all'interno della chiesa, e nella corsa ad ottenere potere, competitività e privilegi, nei rapporti con il mondo. Non è un mistero per nessuno che quanto più la chiesa riduce, nel suo interno,  la sua ecclesiologia a gestione del sacro e annuncio di un vangelo meramente spiritualistico e insistentemente moralistico, tanto più scende a compromessi e patteggiamenti al suo esterno. Ma in questa maniera c'è una ricezione dei sacramenti senza annuncio, un utilizzo di formule  propiziatorie e liturgiche senza legame con la vita, un'insistenza ossessiva sui principi senza prassi. Proprio ciò ferma e  perpetua  un  universo chiuso. In questo contesto la scandalosa divisione della società in ricchi ed impoveriti, le sue manifestazioni antisolidali ed antievangeliche, e persino le sue violenze occulte o strutturali,  suscitano ad alcuni l'impressione di essere ben  integrate con la religione e persino con un certo modello di chiesa, che convive con loro come universo ereditato  e che si perpetua per il solo fatto che è sempre esistito.

A fronte di questa concezione ecclesiologica statica e clerocentrica sta tuttavia oggi, almeno  nella riflessione teologica e in alcune esperienze  ecclesiali, un modello decisamente migliore:   quello della koinonìa, facendone conseguire un'ecclesiologia di comunione. E' chiaro che questa "non può essere  ridotta a pure questioni organizzative o a problemi  che  riguardino semplicemente i poteri", e "tuttavia l' ecclesiologia di comunione è anche fondamento per l' ordine nella chiesa e soprattutto  per una corretta relazione tra uniformità  e  pluriformità nella chiesa"[33].

In questo modello, che coniuga insieme la dimensione spirituale e quella  carismatica della chiesa, c'è certamente più  spazio per una crescita del popolo di Dio nel suo insieme e per una coscientizzazione di tutte le sue componenti. Ma se ci chiediamo se ci sia anche più spazio per un'evangelizzazione liberante che annunci e produca salvezza rispetto  ai problemi  impellenti  che affliggono l'uomo sociale e storico, ci imbattiamo subito nelle  "difficoltà dell'ortoprassi"  tra "tolleranza saggia e acquiescenza pericolosa",  come si esprime D. Farias. Sono gli eterni  scogli che si accompagnano a tutti i ritardi  nella stessa  attuazione  del Concilio, i cui impulsi  di  rinnovamento e la stessa catechesi sembrano  essere  oggi sempre più delegati a gruppi, movimenti e associazioni, che anziché favorirne una  crescita in senso globale e con un inserimento storico nel  territorio, coltivano i loro modelli ecclesiologici e seguono le indicazioni di leaders di movimenti nati altrove e a tendenza  prevalentemente spiritualistica[34]. 

L'impegno spesso serio che simili movimenti e associazioni dimostrano di profondere in attività liturgiche, formative e catechetiche, fanno sottovalutare  il fatto che manca spesso in loro quella  dimensione  storica dell'impegno della carità coniugata con la giustizia  che pure è in linea con il Concilio e che altro non è che il risvolto ortopratico di una vangelo non retorico.

Che cosa fare allora? Da quale ecclesiologia partire perché l'ampiezza soteriologica del vangelo possa estendersi in autenticità, senza strozzature e senza unilaterizzazioni? Ovviamente da quella del vaticano II, ma preso in tutta la sua interezza. Nei nostri ambienti una certa ecclesiologia comunionale‑carismatica si va affermando in alcune comunità parrocchiali e para‑parrocchiali. Testimonia una certa crescita nell'ecclesiologia della comunione, come in quella dei ministeri e della convivialità. Tutto ciò è positivo. Ma occorre subito dire con chiarezza che non è ancora sufficiente. Non solo perché non coglie nei fatti, pur affermandolo nelle dichiarazioni, lo spessore storico‑sociale del popolo di Dio in cui viviamo e di cui siamo parte. Ma soprattutto perché la semplice ecclesiologia della comunione ridotta alla comunione al proprio interno o alla crescita e alla formazione dei propri adepti non basta. Né basta ormai più lo slogan: dobbiamo crescere prima noi e poi ci dedicheremo agli altri! Come non basta l'altro che dice che la conversione riguarda i cuori e che se ci convertiamo prima noi, cambierà anche la società!

Non basta dire questo, non solo perché tali cambiamenti non sembrano essere all'orizzonte, nonostante il pullulare di fermenti associativi e l'estendersi di comunità di tipo importazione, ma perché stiamo assistendo inermi e senza aprire bocca al peggioramento sociale complessivo che ha oggi punte di vero e proprio imbarbarimento. Lo stesso che ogni giorno di più nel nostro paese e nella piena  legalità formale taglieggia  pensionati e famiglie modeste, studenti e giovani disoccupati, corrodendo ulteriormente l'utilizzabilità  di servizi sociali e pubblici, già annosamente deboli, come la sanità, il diritto allo studio, il diritto alla casa, il diritto a sposarsi e ad avere una famiglia. A fronte di tutto ciò l'ecclesiologia dei carismi e dei ministeri, quella della comunità per la comunità, quella della conversione dei cuori evidentemente non basta. Infatti tace, non per cattiva volontà, ma perché ritiene inutile anzi antibiblico  parlare e magari proporre itinerari di speranza che siano nello stesso tempo di lungo respiro (di indole escatologica), ma anche di vivibilità immediata (effettiva promozione umana).

 II PARTE: PER UNA RICOSTRUZIONE DEL TESSUTO ECCLESIALE NEL QUALE VIVIAMO (Alcune proposte "proponibili")

1)Dal popolo di Dio itinerante agli itinerari storici proponibili

Se, coerentemente con le linee analitiche  presentate, partiamo da un'ecclesiologia del popolo di Dio, sembrerà immediatamente più evidente che l'annuncio della buona notizia è davvero notizia di salvezza per chi ne è privo, a tutti i livelli: morale, sociale, economico, esistenziale. In una parola, è salvezza  nella sua complessità storica. L'ecclesiologia di chi non compie tale passo oltre il privato e oltre la cerchia della propria comunità si può senz'altro ritenere conciliare, ma è ancora di una conciliarità monca. Si ferma infatti al primo capitolo della costituzione Lumen gentium, quello della chiesa come mistero, ma non arriva a recepire nei fatti il secondo e tutti gli altri capitoli: quello della chiesa come popolo di Dio e quello di un laicato che  seguendo Cristo testimonia costruttivamente nel mondo che la sua salvezza è già venuta, anche se ancora non è compiuta (indole escatologica della chiesa peregrinante...). Così come non arriva ad accogliere nella prassi la costituzione pastorale Gaudium et spes.

Non solo il magistero conciliare, ma anche tutto quello postconciliare, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, agli interventi del nostro episcopato ci insegnano che la chiesa è popolo di  Dio in  cammino con Cristo e con gli uomini e  recepisce e  condivide  i bisogni e le speranze di tutti ed in primo luogo dei poveri. In questi  ritrova il perenne richiamo alla conversione, perché   vi riscopre i tratti del suo Signore. La scelta preferenziale per  i poveri è ribadita come passaggio indispensabile per coniugare insieme carità e giustizia. Gli stessi nostri vescovi italiani affermano: "In realtà, la carità autentica contiene in sé l'esigenza della giustizia: si traduce pertanto in un'appassionata difesa dei diritti di ciascuno. Ma non si limita a questo, perché è chiamata a vivificare la giustizia, immettendo un'impronta di gratuità e di rapporto interpersonale nelle varie relazioni tutelate dal diritto"[35].

Per chiarire che certe opzioni non sono un optional, né come forse qualcuno crede, residuati di linguaggio ideologico o sessantottino, mi si consenta ancora una citazione: "In questa prospettiva l'amore preferenziale per i poveri si mostra come <<un'opzione, o una forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica ugualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l'uso dei beni>>. Senza questa solidarietà concreta, senza attenzione perseverante ai bisogni spirituali e materiali dei fratelli, non c'è vera e piena fede in Cristo. Anzi, come ci ammonisce l'apostolo Giacomo, senza condivisione con i poveri la religione può trasformarsi in un alibi o ridursi a semplice apparenza (cfr. Gc 1, 27‑2, 13)"[36]

Da tutto il ragionamento svolto scaturiscono particolari conseguenze. La prima ci fa capire che l'evangelizzazione deve essere subito connotata come testimonianza profetica e progettualità liberante. Il convegno di Paola del 1991 ha rilanciato affermazioni come quelle sentite nella stessa città già nel 1978: "E' stata riconosciuta la necessità di una costante azione di denuncia  profetica della chiesa, più coraggiosa ed incisiva: questa diffusa esigenza rende evidente come le chiese locali in tutte le loro componenti, debbano  disporsi a riassumere un atteggiamento di servizio e  di distacco  da compromessi con il potere. Tali considerazioni  sono state  accompagnate  dal  riconoscimento  della  vigile  presenza dell'episcopato  calabro sui principali problemi emergenti  nella regione (mafia, lavoro, emigrazione)"[37].

Se il  peccato oltre ad essere dimensione  personale è anche struttura sociale e patto antisolidale,  la denuncia profetica deve essere accompagnata da un patto di  solidarietà e d'amore che sia progettuale e non vagamente  esortativo o narcisisticamente retorico. L'appello etico dei  nostri Vescovi deve intersecare tale progettualità concreta: "In un contesto povero come quello calabrese ogni pigrizia  e ogni inadempienza a questo riguardo è grave colpa  e,  socialmente, un gravissimo errore. Il grido di chi è oppresso dalle ingiustizie e le lacrime di quanti soffrono o si trovano nel  bisogno vanno considerati e compresi, prima che diventino esasperazione e minaccia di ribellione"[38].

Nell'ultimo  convegno dell'autunno 1991 l'episcopato  calabro  ha parlato  anch'esso di "progettualità", pur precisando limiti  e ambiti in cui deve essere sviluppata: "L'ordine politico,  economico, sociale postulano primariamente un ordine etico e una  progettualità  che, tenendo conto dell'identità della nostra  terra, delle sue risorse e potenzialità, l'immette in un cammino  possibile, graduale e convincente (...) La chiesa non ha progetti tecnici,  contingenti. Il suo è un progetto di conversione e  di  orientamento vitale onde il popolo calabrese sia libero nella  verità, nella ricerca della giustizia e nella solidarietà"[39].

 Un'evangelizzazione testimoniale  comprende, in positivo alcuni passaggi che sono l'educazione alla legalità; l'impegno  sociale,  che coniuga carità e giustizia; l'educazione alla partecipazione. Se si vuole essere efficaci, occorrerebbe però aggiungere che una simile testimonianza deve diventare  progettualità che non deve avere paura di scelte religiosamente coraggiose, eticamente irreprensibili e programmaticamente verificabili.

I convegni infatti rischiano di essere, alla lunga, dichiarazioni di buone intenzioni. Dal canto suo, il coraggio di un modello  di chiesa  liberante non deve essere controbilanciato,  come  sembra talora  di sentire in qualche intervento autorevole, da  affermazioni  che lo vanno successivamente ridimensionando, perché ci si  preoccupa di suscitare paure o interventi censori. Se la profezia è coraggiosa deve accontentarsi di non avere altre gratificazioni che se stessa. Essa è anche annuncio testimoniale,  in quanto evangelizza spazi ecclesiali ed ambiti locali  all'effettiva legalità, anche a costo di perdere appoggi e privilegi.  Per essere credibile, la sua progettualità deve includere  e prevedere verifiche puntuali, che le consentano quella progressività che è garanzia di realismo.

2) Alcuni itinerari proponibili

Solo alcuni abbozzi che ovviamente sono da verificare e concertare insieme, perché nascono dall'esigenza primaria di vivere qualsiasi progettualità come progettualità d'insieme. Riguardano l'autoevangelizzazione, la parrocchia, l'itinerario di catechesi per gli adulti.

2.1 Convertirsi a Cristo per convertire la Chiesa

Il primo itinerario proponibile è un itinerario di continua conversione a Cristo perché ci si possa convertire nella Chiesa e si possa insieme aiutare a convertire la Chiesa. Ciò non significa che qualcuno di noi si arroga il diritto di convertire gli altri, ma che insieme ci si mette in stato di conversione sicché come Chiesa si affronti e si pratichi l'autoevangelizzazione. A partire da questa autoevangelizzazione si può e si deve  correttamente impostare l'evangelizzazione degli altri.

In questo contesto l'autoevangelizzazione non può diventare un nuovo slogan accanto ad altri già assunti, ma deve prevedere analisi e interventi su a) soggetti, b) contenuti, c) modalità della evangelizzazione.

a)Autoevangelizzazione dei soggetti: Chi annuncia a chi il vangelo? Chi sono i soggetti dell'evangelizzazione come annuncio e chi sono i destinatari? Quale ruolo effettivo devono avere i diversi soggetti ecclesiali (pastori e presbiteri, operatori pastorali e altri soggetti oggi operanti come religiosi e gruppi, movimenti ed associazioni)? In cosa ciascuno di essi deve mettersi in  stato di conversione?

b)Evangelizzazione della società (i contenuti): Quali sono i contenuti del "vangelo"? Come passare nella comunità cristiana dalla spesso troppo reclamizzata "pace del cuore" a una effettiva pace collegata con la giustizia e la crescita della corresponsabilizzazione dei cristiani? Dopo la caduta di progetti storici collettivizzanti, cosa resta di valido del vangelo della pace e della giustizia anche come proposta e progetto di rapporti umani riconciliati e aggreganti che non rinunciano al valore di una solidarietà collettivamente realizzata?

c)Evangelizzazione degli stumenti (modalità): Quali sono gli strumenti per l'autoevangelizzazione della pace e della giustizia? Quali stiamo già adoperando? Quali sono stati i più utili, quali i più deboli e quali sono da revisionare? A quali rinunciare perché contrari al vangelo? Come arrivare a una valorizzazione di strumenti quali i luoghi di formazione, le pubblicazioni, i convegni ecc.?

2.2 La parrocchia

Se la parrocchia è ancora  riconosciuta così centrale per l'evangelizzazione, occorre elaborare un itinerario di autoevangelizzazione con il coraggio di rivedere e verificare alla luce dell'evangelo figura e ruolo dei parroci, consigli pastorali, strutture parrocchiali.

Occorre far sì che la parrocchia diventi non solo luogo di celebrazione, ma lugo dove si celebra e si inizia ad organizzare la speranza e dove si annunciano le beatitudini.

La parrocchia diventa un laboratorio dove si apprendono e si praticano le beatitudini. Si richiede perciò il primato effettivo della Parola di Dio, la rinuncia a ciò che è in contrasto con essa, la povertà e la sobrietà come segni credibili della potenza dell'evangelo.

La parrocchia diventa un laborario di convivialità e di convivenza dei diversi. Si pratica così l'annuncio testimoniale dell'accoglienza e della carità nei fatti, con un continuo verificare i progetti di crescita della società, collaborando a quelli che portano un'effettivo avanzamento degli impoveriti.

2.3 Itinerario catechetico degli adulti

La chiesa calabrese  elabora un itinerario di formazione degli adulti, che sia pilota anche per altri itinerari. Si individuano i temi centrali della fede, con un'attenzione tutta biblica sia nella ricerca delle figure che dei nuclei portanti del messaggio giudaico‑cristiano. Si compie un itinerario sperimentale, capace di autocorrezioni e soprattutto di autoevangelizzazione. Badando che il vero problema non è l'evangelizzazione, nuova o antica che sia, il vero problema è il vangelo, perché il Vangelo è Cristo. A Lui occorre sempre far riferimento. Un vangelo davvero accolto non si limita a credere astrattamente a Cristo, ma crede anche in ciò che lo stesso Cristo ha creduto: nell'uomo e nel suo futuro, nella fraternità e nella pace.

 



    [1]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza della carità.  Orientamenti pastorali per gli anni '90, 26.

 

    [2]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione ..., 26.

 

    [3]Dei Filius, cap. 3 (DS 3008).

 

    [4]E. KLINGER, Der Glaube des Konzils, in E. KLINGER und K. WITTSTADT (Hg.)  Glaube im prozess. Christsein nach dem II. Vatikanum. Für Karl Rahner, Herder, Freiburg / Basel / Wien 1984, 615.

 

    [5]GS 1, EV1, 1319.

 

    [6]LG 8. EV 1 306.

 

    [7]SYNODUS EPISCOPORUM Relatio finalis Ecclesia sub Verdo Dei mysteria Christi celebrans pro saluti mundi, C. 1, EV 9, 1800.

 

    [8] Ivi.

 

    [9]LG 1, EV1, 284.

 

    [10]LG 4, EV 1, 287.

 

    [11]DV 2, EV 1, 873.

 

    [12]LG 3, EV1,  286.

 

    [13] SYNODUS EPISCOPORUM, Relatio ..., C. 2. Ev 9, 1801.

 

    [14]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Documento pastorale Comunione e comunità: I. Introduzione al piano pastorale, Roma, 1 ottobre 1981, n.14: ECEI 3, 646.

 

    [15]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza ..., n. 25.

 

    [16]Ivi, n. 32.

 

    [17]Ivi.

 

    [18]Ivi.

 

    [19]Ivi.

 

    [20]Ivi, n. 32: "Ma questa carità, proprio perché genuina, non nasconderà ai fratelli la verità di Cristo, non la mutilerà o attenuerà nella ricerca di ingannevoli compromessi".

 

    [21]COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, 2.1: EV 9, 1683. In questa e nelle seguenti citazioni della Commisssione teologica internazionale le sottolineature sono mie.

 

    [22]Ivi 2.1: EV 9, 1684.

 

    [23]COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, 2.1 EV 9, 1685.

 

    [24]Ivi, 5.1: EV 9, 1711.

 

    [25]Ivi, 2.1: EV 9, 1712.

 

    [26]LG 8, EV 1, 306.

 

    [27]GS 43, DV 1, 1459.

  

 

    [28]Ivi.

 

    [29]"Com'e chiaro, i rapporti fra la chiesa e il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la chiesa  potrebbe  prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti,  cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come  potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono  riscontrarsi, anatematizzandoli e movendo crociate contro di  essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via" (PAOLO VI,  Ecclesiam suam III: EV 2, 195).

 

    [30]"Sembra a  noi invece che il rapporto della chiesa col mondo, senza  precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all'indole  adell'interlocutore  e  delle circostanze di fatto (altro  è  infatti  il dialogo  con  un fanciullo ed altro con un adulto; altro  con  un credente e altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall'abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni  fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società  moderna, dal  pluralismo delle sue manifestazioni, nonché  dalla  maturità dell'uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall'educazione  civile a pensare, a parlare, a trattare con  dignità  di dialogo" (PAOLO VI. Ecclesiam ...,EV2, 195).

 

    [31]Lo testimonia il modo di presentare la tripartizione classica dell' ordine: vescovi  in primo luogo; presbiteri  in secondo;  diaconi  in terzo. Al di sotto dei quali ci sono "tutti gli altri nella chiesa, non  insigniti di alcuna dignità", cioè dei "laici, ossia dei plebei,  ossia della plebe" sicché la chiesa ha queste sue membra: "vescovi, presbiteri, diaconi e folla dei fedeli (turba fidelium)"(Così il Migne nel suo commento a un testo di  Tertulliano: PL 2, 922, nota).

 

    [32]Già l' Esodo disegnava l'identità teologica del   popolo di Dio   con le parole "Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,6; cfr. anche 23,22); mentre l'  Apocalisse ribadisce la dignità regale e il carattere sacerdotale  con l' espressione: "li hai costituiti per Dio un regno di sacerdoti" (Apc 5,10; 1,6). Di un' eredità particolare parla anche il  libro degli  Atti, quando, per esempio, accenna all' "eredità  (klèros) tra  i santi" (At 26,18) e  Fil 2, 15, che paragona  la  funzione della comunità dei credenti a quella di un astro nel firmamento.

 

 

    [33]SYNODUS EPISCOPORUM, Relatio..., punto C,1: EV 9, 1800.

  

 

    [34]D. FARIAS, Situazioni ecclesiali i e crisi culturali nella Calabria  contemporanea, Marra, Cosenza 1987, 221‑233.

 

    [35]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza ..., n. 38.

 

    [36]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza ..., 39.

 

    [37]CONFERENZA EPISCOPALE CALABRA,Supplemento al Bollettino ecclesiastico Diocesano 2 (Luglio‑Dicembre 1979), 208.

 

    [38]Ivi.

 

    [39]Atti del 2° convegno ecclesiale regionale. Paola 29 ottobre‑1° novembre 1991. Nuova Evangelizzazione e Ministero di Liberazione in Calabria.  Documento conclusivo,  Editoriale Progetto 2000, Cosenza 1992, n. 25, pag. 354.