Contributo teologico per una lettura della situazione pastorale del
popolo di Dio in Calabria
La premessa vuole offrire qualche raccordo con i relatori che mi hanno preceduto. Essi hanno raccolto la domanda generale della Calabria di fronte alla sfida del duemila. In realtà, come già è emerso dai loro contributi, le sfide sono più di una. Non è il duemila in quanto tale a sfidare la Calabria, perché è pur sempre un dato convenzionale di calcolo dell’inesorabile scorrere del tempo. Si tratta invece di un insieme di fattori, alcuni dei quali sono per la verità molto preoccupanti, altri invece costituiscono delle vere e proprie occasioni storiche per una presa di coscienza ed una crescita complessiva della stessa Calabria. Ma, a questo riguardo, si impone un’altra precisazione: quella relativa al soggetto sfidato. Chi è? La Calabria. E che cosa vuol dire qui la Calabria? Sembra ovvio che il termine indichi, alquanto evocativamente, quel dato storico-geografico-culturale nel quale viviamo. In quanto dato complessivo, certamente la Calabria deve, volente o nolente, confrontarsi con la sua storia presente e prossima futura. In questo contesto il problema riguarda tuttavia la nostra realtà ecclesiale, ciò che noi siamo, ciò che rappresentiamo. Rappresentiamo la Calabria tout court? Certamente no. Chi siamo allora e che stiamo a fare in questo convegno? La risposta non può essere solo storico-sociologica, ma deve essere teologica. Siamo una rappresentanza del popolo di Dio che è in Calabria e all’interno di questa realtà ecclesiale ci siamo interrogati, ci interroghiamo, recepiamo proposte e suggerimenti che valgono fin quanto vale la nostra appartenenza e la nostra rappresentatività. Di certo non siamo insensibili alle sorti della Calabria. Al contrario, la nostra solidarietà e il nostro coinvolgimento con la realtà territoriale cresce nella misura in cui ce ne sentiamo parte viva, parte integrante.
Lo facciamo però come realtà ecclesiale, come lievito e fermento all’interno di qualcosa, il territorio calabrese, che di per sé non si identifica, né deve identificarsi, con la Chiesa che in questo territorio cammina, sapendo che la sua patria è altrove, e che tuttavia non può ignorare le popolazioni (come alcuni preferiscono[1]) che vivono in questa terra. Al contrario, parla e medita, analizza e propone, per amore di questo popolo, per amore del quale non può tacere[2]. Rappresentiamo pertanto quella parte del popolo di Dio che non si rassegna a tacere, un popolo, questo sì, ecclesiologicamente unico, nonostante tutte le differenziazioni sociologiche.
A fronte delle cosiddette “sfide”, termine al quale, personalmente, preferisco quello di mutate condizioni contestuali, il popolo di Dio che è in Calabria proprio come evento di chiesa e quindi come realtà motivata e tenuta insieme dalla fede, vuole riascoltare e ri-annunciare la lieta notizia di Gesù. È convinto che da Cristo, suo Maestro e Signore, ha molto ancora da imparare, anche e soprattutto, per leggere serenamente e, per quanto è possibile, con competenza, la realtà nella quale si trova a vivere, per valutarla profeticamente e per progettarla e agire coerentemente.
Da qui il taglio della mia relazione che porta il titolo Contributo teologico per una lettura della situazione pastorale del popolo di Dio in Calabria. È un contributo che, sullo sfondo di tre suggestioni bibliche, quasi delle icone in movimento, si prefigge di sollecitare su un piano teologico-pastorale una riflessione sull’esistente, che in parte è emerso (nella fase preparatoria) e in parte ancora è da approfondire (nello svolgimento del convegno), e per offrire qualche linea di lettura e qualche praticabile via di applicazione pastorale.
Tutto ciò ha a che fare con il nostro riascolto e riannuncio del Vangelo, da recepire e da porgere agli altri, e quindi con la disponibilità ad ascoltare e a parlare (è il primo punto dell’intervento, Capaci di udire e di parlare). Richiede al contempo un orizzonte visivo particolare, per scorgere l’opera di Dio nel mondo e nella storia, uno sguardo contemplante, al quale farò un esplicito riferimento nel secondo punto, dal titolo Avere occhi trasparenti per leggere le opere di Dio. Con una contemplazione che non resta nell’alveo, pur sacro, del proprio intimo, ma si apre sempre all’esterno, consegnandosi all’amore, con un’azione estroversa, che offre la solidarietà della speranza e delle proprie risorse al mondo circostante. È quanto annoterò all’ultimo punto, Dalla condivisione del pane eucaristico alla condivisione della storia.
Partiamo da una prima icona evangelica: Gesù che guarisce il sordomuto:
«Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!”» (Mt 7,31-37).
Il popolo di Dio in Calabria, anche a giudicare dalle risposte pervenute al convegno, non ci sembra propriamente sordomuto: canta e parla, riflette e fa convegni, piange e si piange addosso, ma ritorna ogni volta a sorridere e riprende ad agire con la tenacia di chi fa questo da anni, da secoli, da due millenni. Talora gli fa da contrappunto quello che è stato chiamato «il canto smarrito del solitario operare»[3].
Le risposte pervenute alle domande dell’IL (Instrumentum laboris) - relativamente alla recezione dei precedenti convegni di Paola - evidenziano una certa capacità di recezione e quindi di ascolto, ma che tuttavia non è ancora piena, diretta, coinvolgente. Quanti hanno risposto affermano che i convegni hanno avuto effetti positivi, talvolta indicati come indiretti o impliciti. Hanno provocato una sorta di onda lunga, che ha influenzato la vita ecclesiale[4]. Gli ambiti che ne sono stati toccati positivamente riguardano la pastorale della coppia e della famiglia[5], fino alla costituzione dei “centri familiari di ascolto”[6], e una presa di coscienza, seppure «lenta» per una maturazione della «responsabilità dei laici nell’edificazione della Chiesa»[7]. Qualche annotazione più critica è pervenuta sulla fase preparatoria di “Paola 2” e sul non del tutto soddisfacente coinvolgimento di “fedeli” e «comunità ecclesiali durante lo svolgimento del convegno»[8], pur con l’apprezzamento per gli effetti positivi dovuti alla centralità della riflessione sulla missionarietà della Chiesa e sulla liberazione.
In un caso, la difficoltà a una pastorale d’insieme, che viene registrata come difficile già in campo diocesano, spinge fino a suscitare «in alcuni qualche serio interrogativo sul reale significato, teorico e storico, della “regione”, sia ecclesiale sia civile, in generale e nella specifica situazione calabrese di oggi e di domani»[9]. In un altro caso si segnala la difficoltà della verifica, giacché presso il popolo di Dio «una verifica in questo senso resta problematica: l’esperienza dei Convegni precedenti non è ancora diventata “popolare”»[10].
Contrariamente a chi ha lamentato una «diffusa diffidenza per il moltiplicarsi sia delle iniziative che delle analisi, che in questi ultimi anni sembrano aver polarizzato e saturato gli spazi di impegno e di riflessione»[11], l’estensore della relazione precedente aggiunge che «occorrono ancora molti Convegni, molte preparazioni, molte verifiche, prima che il metodo ecclesiale “nuovo”, per così dire, “del convenire a raccolta”, a temi, a tappe, diventi “pane quotidiano” per il popolo di Dio»[12]. Le altre osservazioni sulla ricezione dei precedenti convegni di Paola vanno più o meno nello stesso senso: al di fuori della cerchia dei partecipanti, non c’è stata una diffusione capillare, né una loro conoscenza diretta e tuttavia ci sono stati effetti benefici, che per alcuni hanno raggiunto anche il campo della liturgia[13], mentre per altri invece il rinnovamento liturgico è stato più formale che reale[14]. Le altre risposte pervenute, quando affrontano direttamente e concretamente le domande poste dall’IL, ritengono che tra i dati positivi sono da annoverare: «una certa apertura all’esterno: una maggiore attenzione al sociale[15]; un impegno più puntuale e mirato nelle attività della Caritas; una certa valorizzazione del laicato; uno stimolo al volontariato; una maggiore cura della catechesi che viene rivolta alle varie fasce di età ed alla preparazione ai sacramenti ed alla famiglia; una più accurata preparazione alla liturgia»[16].
Tutto ciò riguarda la recezione dei precedenti convegni di
Paola, ci fa registrare una certa capacità di ascoltare e di parlare, quella
stessa capacità che si evince dal fatto che alla segreteria del convegno sono
pervenute relazioni diocesane, dove si afferma una certa mobilitazione delle
realtà di base nella fase della preparazione del convegno. Ciò non vale per
tutti i casi e non significa affatto che ci sia stato un coinvolgimento
generalizzato dell’intero popolo di Dio che è nella terra di Calabria. Non
mancano espressioni di rammarico, raccolte a voce, che attestano però scarsa
partecipazione delle parrocchie e delle entità ecclesiali locali. Cosa
concludere? Che anche questo è una riprova che sordità e mutismo non sono stati
ancora del tutto sconfitti.
Ciò non significa indisponibilità all’ascolto della Parola di Dio scritta. Al contrario. Sul piano della formazione biblica, in molte diocesi si registra con soddisfazione una fioritura di iniziative, dai centri di ascolto ai gruppi biblici a tutte le altre attività collegate alla centralità della Parola di Dio[17]. Anche in gruppi, movimenti, associazioni e cammini formativi, dei quali in genere si lamenta la tendenza alla chiusura e a costituire tracciati ecclesiali autoreferenti[18]. È tuttavia innegabile che mutismo e sordità non sono stati del tutto guariti almeno rispetto alla Parola di Dio vivente e profetica. Il popolo di Dio che è in Calabria ascolta anche la parola del papa e dei vescovi, non manca di “udire” omelie e interventi, talora interessanti, in incontri parrocchiali, zonali e diocesani. Li “sente” direttamente e di persona, ma anche alla televisione, che in Calabria non lesina mai spazio ai momenti religiosi, soprattutto se arricchiti della presenza prestigiosa (anche e soprattutto per le reti televisive private) dei vescovi. Ma tutto ciò è propriamente “ascoltare” o non corre il rischio di essere solo ancora un puro e semplice “sentire”?
Quasi tutti affermano che c’è ancora una frattura tra appartenenza formale alla chiesa e vita cristianamente vissuta, che è avvertita in misura più o meno grave. Ma ciò significa che il nostro popolo di Dio sta cominciando ad apprendere la difficile arte dell’ascolto, imparando a registrare anche le sollecitazioni della storia, le cosiddette “sfide” dell’oggi. Pertanto ha bisogno di ri-ascoltare e di ri-annunciare la Parola di Dio non solo come evento sacrale che interpella la singola persona, ma come Parola con-vocante, cioè come Parola che crea e rinnova lo stesso popolo, lo sorregge nella fede e costituisce il fondamento ultimo nella sua tenacia.
La realtà ecclesiale che sta emergendo dai nostri convegni e dalle nostre analisi, per quanto artigianali e spesso più intuitive che frutto di campionature scientificamente inoppugnabili, ci porta a dire che il popolo di Dio che vive in Calabria non è propriamente sordo, ma è ancora debole d’udito. Non soffre di afasia, ma di flebilità di voce, talora sembra soffrire di afasie passeggere. Alla domanda «che cosa dice la gente di Cristo», intendendo in generale che cosa si dice nella nostra regione su Gesù, le risposte pervenute indicano, da un lato, una scarsa conoscenza anche sul piano intellettuale, «a causa di una catechesi quasi sterile in atto e una cultura laica che sul religioso e sul cristianesimo si affaccia ben poco»[19]. Ci allarmano su alcune forme di tipologia esistenziale di persone che ormai vanno avanti come se Dio non esistesse[20]. Segnalano come soggetti più esposti a questa sorta di ateismo di fatto i giovani, oggi più che mai allettati dalla tentazione della mediocrità[21]. Ci informano che ci sono «preti giovani che non reggono all’urto del 2000»[22], fino ad asserire che «manca nei giovani la consapevolezza dell’importanza della “Buona Novella”»[23].
Riguardo alla persona di Gesù, le osservazioni in proposito escludono in genere anche nei giovani il rifiuto categorico, l’indifferenza radicale e l’agnosticismo, e tuttavia evidenziano un’incoerenza di fondo, fatta risalire alla scarsa conoscenza di Gesù, un atteggiamento sostanzialmente simile tanto nei frequentanti[24] che nei non frequentanti delle nostre chiese[25].
Il quadro diventa più composito relativamente alle diverse fasce d’età. C’è qualcosa che accomuna tutti i gruppi: una fede ancora troppo individualisticamente “interessata” (per la soluzione dei propri problemi e quelli della propria famiglia), intrisa di sensazionalismo, ricerca del prodigioso, che convive con la consultazione sistematica di maghi e veggenti. Una fede più consapevole è per una certa parte gestita da gruppi e movimenti ecclesiali, ma talora anche da figure carismatiche o ritenute tali. All’interno di queste modalità evidentemente ancora immature di vivere il rapporto con Cristo, ci sono diversificazioni notevoli. Si registra che i più anziani, spesso non autosufficienti, sembrano corredati di una fede forte, di «grande senso etico e di grande spiritualità», mentre gli anziani autosufficienti mostrano maggiore inclinazione verso una religiosità più formale e preghiere stereotipate[26] pur con notevoli eccezioni laddove, soprattutto nelle campagne, tra le donne di una certa età, si trova un’effettiva pratica del Vangelo[27].
Altri mettono in rilievo una religiosità «chiusa» degli adulti, che si trovano ad essere come compressi tra forme di vita tradizionali (tra le quali c’è il dato religioso) e i richiami del consumismo e secolarismo. Un esempio esprime emblematicamente questa situazione. Nella liturgia di S. Giovanni Crisostomo dei paesi albanesi, la tradizione fa professare ai cristiani la loro fede in Cristo con le toccanti parole: «Credo, Signore, e confesso che Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, che sei venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io». Formula cristologica elevata e concreta, che tuttavia, come troviamo nella relazione che la riporta, «sembra restare un suono esterno alle coscienze, non una proclamazione di Verità atta a trasformarle e a trasformarsi in revisione effettiva di vita, propria del discepolo che si mette alla sequela del Maestro e Signore e, in quanto tale, “lievito che fa fermentare tutta la pasta”»[28].
In conclusione, il popolo di Dio che è in Calabria canta e prega, con preghiere antiche e con richieste impellenti di aiuto. Ascolta e asseconda i rintocchi delle campane che chiamano a festa o a lutto. Nei centri storici, aventi un’identità sociologica più forte delle periferie, la religione non solo sopravvive, ma cementa ancora la società e dà un certo senso alla vita. Per riprendere la nostra immagine di fondo, il nostro popolo appare talvolta incantato dalle voci delle sirene del momento storico in cui viviamo, ed è distolto, almeno in parte, dall’ascolto della Parola che veramente conta, perché dà importanza eccessiva a quelle parole umane, che pur non contando quanto la Parola di Dio, hanno ancora troppo peso sulla bilancia dei suoi problemi e dei suoi crucci. Pur proteso ad ascoltare l’unico Signore, in parte reagisce con generosità e dignità, in parte ancora si ferma ad ascoltare (o semplicemente finge, per mancanza di coraggio) gli ordini di altri signori. Ci riferiamo ai signori della ‘ndrangheta, a quelle delle estorsioni, ancora esistenti, fino a quelli che possono esigere il rituale minuto di silenzio per i loro morti prima di una partita di calcio. Ma ci riferiamo anche alle altre signorie o baronie, da quelle civili a quelle talora sacrali di personaggi intoccabili. Tra “il Signore Dio e gli altri signori” in molti casi sembra che non si compia una scelta netta e decisa. Una scelta irreversibile. La formazione ordinaria e il ri-annuncio straordinario del Vangelo (missioni popolari, itinerari formativi ed altro) ne tengano conto. Al popolo di Dio nella sua interezza e a ciascuno secondo ogni fascia di età o situazione, a noi tutti il Maestro restituisce la capacità di udire e di parlare, ma proclama anche: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).
Viviamo in una società che complessivamente non si accorge
di subire la scelta di servire a mammona, al punto che il predominio del
denaro, riducendo ogni giorno di più la politica a finanza[29]
fa sì che si avveri l’adagio riportato in nota nella relazione di Sabatini:
«Sono uomini, milioni di uomini, destinati, loro malgrado alla “irrilevanza
economica” e per conseguenza all’irrilevanza sociale»[30].
Ma ciò significa non solo che l’economia sacrificherà sempre più il sociale, ma
anche che la finanza rischia di trionfare sulla politica e il “valore” del
denaro su ogni altro valore[31].
Ma possiamo rassegnarci a una simile disfatta? Non solo il nostro convegno, ma
la nostra stessa fede dicono di no. Ascolteremo Gesù soprattutto su questo
punto, allorché egli afferma che il denaro non può diventare il nostro padrone
e che l’uomo vale più del cibo che mangia e del vestito che indossa[32]?
Sarà questa una delle discriminanti principali dell’autenticità della nostra
fede, personale e comunitaria. Ma per arrivare a tanto dovremo re-imparare non
solo ad ascoltare, ma anche a vedere la realtà con occhi nuovi, perché abbiamo
bisogno di essere continuamente guariti anche dalle nostre cecità. Ma ciò
significa saper elaborare una pastorale del vedere correttamente, oltre che
dell’ascoltare e del parlare rettamente.
L’icona di riferimento al secondo blocco di osservazioni dal vissuto delle nostre chiese è la guarigione del cieco di Betsàida:
«Giunsero a Betsàida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo. Allora preso il cieco per mano, lo condusse fuori del villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: “Vedi qualcosa?”. Quegli, alzando gli occhi, disse: “Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano”. Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa. E lo rimandò a casa dicendo: “Non entrare nemmeno nel villaggio”» (Mc 8,22-26).
Sappiamo tutti che le guarigioni evangeliche non sono solo dei racconti che documentano l’attività amorevole di Gesù verso gli infelici del suo tempo, in prevalenza verso quelli appartenenti al popolo di d’Israele. Gli interventi di Gesù riportati dai vangeli sono anche episodi esemplari, strumenti comunicativi straordinari, per segnalare alla chiesa di sempre da che cosa ha bisogno di essere continuamente guarita dal suo Signore, e quindi per indicare anche le sue carenze, i suoi limiti o le sue patologie (alcune delle quali sembrano per la verità essersi cronicizzate).
Il popolo di Dio che è oggi in Calabria non è del tutto cieco. Vede Cristo come Maestro e Signore della sua storia, eppure il suo sguardo non è del tutto limpido. Talvolta vede gli uomini come alberi e ha bisogno, al pari della chiesa di Laodicea dell’Apocalisse, del “collirio” che guarisca la sua miopia (cf. Ap 3,18). Quali sono le sue allucinazioni, le sue miopie, le sue distorsioni visive e da che cosa sono causate? Qual è il collirio che il Signore viene di nuovo a spalmare sulle pupille?
Accenniamo innanzi tutto alle sue allucinazioni, perché
proprio di questo talora si tratta. Non è stata ancora allestita una mappa, né
è stata studiata a fondo la natura dei tanti fenomeni “straordinari”, che
sembra abbiano un terreno particolarmente fertile in Calabria. Si ode troppo
frequentemente di visioni e lacrimazioni, autoproclamazioni di maestri e
maestre che si ritengono ispirati direttamente dallo Spirito Santo, alcuni dei
quali parlerebbero direttamente con i defunti, altri scaccerebbero spiriti
maligni, altri ancora leggerebbero direttamente nell’intimo, intuendo
infallibilmente la vocazione alla quale Dio chiama le singole persone.
L’affermazione e diffusione di fenomeni simili trova ovviamente una vasta eco e sostenitori spesso convinti, talora anche tra
presbiteri e consacrati, oltre che vere e proprie folle, che non esitano a
spostarsi in autobus o con mezzi propri da un capo all’altro della Calabria,
pur di partecipare a momenti talora di esaltazione collettiva, o di poter
consultare, o almeno vedere, i soggetti ritenuti ispirati da Dio. È tempo che
il popolo di Dio in Calabria non sia più abbandonato a se stesso
nell’assecondare o avallare tali fenomeni, che tra l’altro, mantengono chi li
asseconda in una situazione di soggezione sacrale, impedendo quella maturazione
della vita cristiana che tutti invochiamo. Ascoltare la voce di Gesù come
nostro unico Maestro significa anche essere capaci di prendere opportuni e
comuni provvedimenti, esercitando quel discernimento comunitario, che dimostri
nei fatti un’unitarietà pastorale di intenti, prima ancora che di progetti.
Ma non è solo questo il campo in cui rischiamo di vedere alberi che camminano, giacché - come non poche relazioni sottolineano - ci sono ancora miopie e distorsioni visive di vario genere, che vanno anch’esse tenute in considerazione, per progettare una pastorale d’insieme realistica e credibile. Pur rimarcando qui e là lacune di argomenti che l’IL non tratterebbe (cosa del resto impossibile in un testo breve pensato come base e non come somma di tutti i problemi e dei temi delle commissioni che se ne occupano specificamente), si registra, in genere, la conferma di quelle ipotesi anticipate nello stesso IL. Sicché anche il riferimento alla famiglia, considerata non solo come indiscusso e indiscutibile valore, ma anche come ostacolo alla sequela di Gesù, allorché diventa orizzonte ultimo ed immodificabile di identità, è ritenuto sostanzialmente corretto, almeno come analisi «abbastanza realistica, cosa che non era stata accettata in Paola 2»[33]. Alla stessa stregua, sono apparsi di corto respiro e senz’altro frenanti i provvedimenti legislativi della Regione Calabria, le continue crisi di governo regionale o ad altri livelli, la non utilizzazione di fondi destinati alla regione, ma anche la corsa ai consumi in una popolazione quale la nostra che sembra essere “moderna“ solo in questo. Ciò significa che un effettivo cambiamento può darsi se investiamo le nostre risorse nella formazione non solo estrinsecisticamente “religiosa“ ma anche in quella etica, che da noi assume sempre più l’urgenza di una formazione allo sviluppo autonomo e autopropulsivo[34]. In questi termini precisi viene menzionato il “Progetto culturale“, anche in funzione di una “riconciliazione” che riconduca ad unità fenomeni complessi è sfuggenti, quali l’emigrazione e l’immigrazione[35], attraverso una piena e valorizzazione della profezia e della laicità, che, si aggiunge, «devono essere riconosciute come momenti essenziali e importanti della vita del popolo di Dio nella chiesa»[36]. Tra le distorsioni dalle quali occorre guarire si indicano l’individualismo e il notevole grado di conflittualità che si rinvengono in Calabria, al punto che «gruppi politici ritengono più giusto danneggiare gli avversari che spendere energie per perseguire il bene della comunità»[37]. Ciò sarebbe alla base di un atteggiamento non dirompente verso la malavita organizzata, per poter convivere con essa con il minor danno possibile (e ciò esclude una resistenza collettiva), mentre da un altro versante «non ci si rende conto di quanto un atteggiamento di arroganza, di prepotenza, di privilegio, anche senza giungere ad azioni penalmente perseguibili, possa favorire la diffusione di una cultura mafiosa è quindi, indirettamente, le stesse azioni delittuose della ‘ndrangheta»[38].
L’ascolto di Gesù Maestro e Signore può portare il popolo
di Dio che è in Calabria anche al superamento delle strettoie intimistiche
nelle quali valori enormi come la cultura, la pace, la profezia, la
contemplazione, l’etica vengono spesso confinati. In questo contesto è da
recepire l’invito ad elaborare una cultura che investa i più disparati campi
dell’agire cristiano[39].
Ciò che si può qui asserire riprende le sollecitazioni di quanti hanno
sottolineato il bisogno di essere «segno di trascendenza, segno della salvezza
donataci in Cristo, una salvezza che si fa celebrazione e testimonianza di
vita»[40].
È quello che noi ci sentiamo di chiamare “dimensione contemplativa dell’agire
del cristiano nel mondo”. La contemplazione di Gesù, intesa come ascolto e
capacità di vedere nella sua ottica rende tutti (religiose e religiosi, portatori di un ministero e quanti altri
portatori di un carisma o di una specificità del popolo di Dio), capaci di
scegliere coloro che Gesù ha scelto: i poveri, in primo luogo, in tutte le loro
nuove manifestazioni. Essi sono per Gesù e devono diventare per tutto il popolo
cristiano “i primi” dopo l’Unico[41].
Se un discernimento è necessario anche nel popolo di Dio che è in Calabria, le tante forme di spiritualismo, più che di spiritualità, che vi attecchiscono devono essere vagliate sulla base di un criterio interno alla stessa contemplazione, che, quando è veramente tale, non lascia mai indifferenti verso gli altri, soprattutto verso i poveri, che sono i più manchevoli di beni (di ogni genere: dal lavoro alla dignità, dai beni materiali a quelli spirituali). Il principio è stato formulato dal papa in questi termini «non c’è rinnovamento, anche sociale, che non parta dalla contemplazione»[42], ma vale anche l’espressione reciproca: «non c’è contemplazione che non porti al rinnovamento, anche sociale».
È stato detto della nostra società che appare sempre più come la città di Caino[43], nel senso che è una civiltà violenta, che a motivo delle sue stesse strutture miete sempre più vittime. Cosa possiamo dire della Calabria? Non ci sentiamo di affermare che anch’essa è tale. Sappiamo però che in questa terra convivono, come la zizzania e il buon grano, Caino ed Abele. Caino ha fatto di questa terra, al pari delle altre regioni del Sud non solo d’Italia, ma del mondo, la sua roccaforte strutturale, che miete vittime numerosissime tra i meno protetti economicamente[44]. Il nostro popolo è un Abele che reagisce talora con la nonviolenza, talora però anche con l’indifferenza e ancora troppo spesso con l’omertà. Come potrà la nostra terra diventare compiutamente una città di pace? Dove rivolgere lo sguardo contemplante per attingere la forza per un’impresa così grande? Ancora verso Cristo, riscoperto questa volta come il nuovo ed ultimo Abele, Agnello immolato, eppure risuscitato e vivente, colui che rappresenta i nostri morti e i martiri della violenza, il cui sangue grida più forte di quello del primo Abele, reclamando che abbia fine la stessa violenza[45]. Il suo sangue insieme con il suo corpo sono da contemplare con intensità, perché diventino forza che spinge a cambiare la nostra città da città dell’oppressione a città della condivisione.
Con l’icona di Cristo nuovo Abele, che sta in piedi di fronte a noi risorto e parla con la sua voce più eloquente del primo, ci avviamo a concludere il nostro contributo, introducendo la discussione su alcune proposte pervenute dalle comunità diocesane e da altri e sulle quali, oltre che sul resto, si dovrà ovviamente pronunciare l’intero convegno. Esse partono dalla stessa urgenza, che posso qui riassumere come urgenza di ridare corpo storico al corpo mistico della chiesa[46], e di restituire al pane dell’eucaristia il suo valore e il suo sapore di pane quotidianamente da condividere con gli altri. Le proposte richiedono pertanto una reimpostazione della formazione, perché tutti diventiamo capaci di riconoscere Cristo come Maestro e Signore nella vita, nei fatti e nei processi storici in cui viviamo. Esprimono più in generale il bisogno di un progetto pastorale non generico, non evanescente, concreto e con punti ben individuabili e che tutti siano in grado di capire e di ripetere. Un progetto che ai soliti e pur sempre validi obiettivi della formazione dei formatori, dell’educazione all’impegno, della valorizzazione della famiglia, della riscoperta della “pietà popolare” purificata, della formazione alla legalità, dell’educazione al rispetto della vita e all’autoprogettualità, affianchi un itinerario pastorale preciso che ricompagini il nostro universo ecclesiale, lo sottragga alle spinte centrifughe delle esperienze ecclesiali “parallele” e a quelle misticheggianti delle fughe nell’intimismo. Preveda momenti e scansioni di tappe progressive, da indicare con precisione e da valutare con discernimento evangelico.
Le richieste pervenute dalla base reclamano proposte concrete, anche se talora risentono di un’impostazione settoriale, perché insistono, ciascuna dal suo versante, sulla pastorale della famiglia, del laicato, della cooperazione missionaria tra le chiese, della cultura, del mondo del lavoro, degli emigranti, dell’ambiente sanitario ecc.
A mio modesto modo di vedere, la soluzione non viene dalla moltiplicazione delle tante pastorali o dal sapiente dosaggio della loro compresenza, ciascuna delle quali rivendica importanza e persino urgenza. Può venire piuttosto dal portare fino in fondo e con coerenza un impegno scaturito da premesse e progetti comunitariamente assunti, dei quali alcuni sono già stati già approvati, anche se non sono sempre conosciuti. Può venire da un tentativo di sintesi che non mortifichi le esperienze già in atto, ma che le ricomponga tutte nell’alveo dell’attività primaria e irrinunciabile del popolo di Dio, in quanto popolo che deve riascoltare Gesù per poterlo proporre, deve contemplarlo per poterlo trasmettere, deve sentirlo compagno di strada per testimoniarlo anche agli altri.
Un progetto pastorale valido non può che essere cristocentrico, nel senso che deve comunicare sempre il Vangelo di Gesù e Gesù come Vangelo, ma deve, per quanto possibile, riferirsi alla prassi di Gesù. Deve ritrovare nel Suo agire contenuti e metodi. L’agire del popolo di Dio non può che assecondare quello del suo Maestro. Senza pretendere di predeterminare un progetto pastorale, che deve scaturire dal convegno stesso, mi permetto di suggerire una griglia di punti che mi sembrano qualificare l’agire di Gesù, per collegarvi organicamente anche l’agire della chiesa che noi siamo.
In una pastorale contestualizzata nel nostro territorio si può ripartire dall’agire di Gesù riscoprendo nella sua attività queste dimensioni:
a) attività kerygmatica (dimensione missionaria); b) attività liberatrice (dimensione salvifica); c) attività convocatrice (riconvocazione del popolo di Dio).
a) L’attività missionaria della Chiesa riparte dall’annuncio di un fatto nuovo e sconvolgente: l’amore gratuito e soccorrevole di Dio verso quanti normalmente sono ritenuti e si ritengono esclusi dal circuito della salvezza, dai canali della gioia. L’evangelizzazione passa attraverso le tante vie della predicazione e della formazione. Ponendo al primo posto l’ascolto della Parola di Dio, l’annuncio è molto di più di un indottrinamento o un insegnamento etico o religioso. È un messaggio di gioia e di speranza, un invito a rialzarsi in piedi per vivere la festa che il Regno fa irrompere nel mondo. La formazione, mentre discerne la volontà di Dio, pronuncia anche un giudizio preciso sul mondo e sulle vicende umane, sui suoi interessi e i suoi “valori”. Insegna a leggere la realtà e a valutarla, educando a vivere secondo le beatitudini. Mira ad una coscientizzazione doverosamente critica, che renda la persona capace di reggere agli scoraggiamenti, rifuggendo il vittimismo e quella sorta di autoemarginazione ecclesiale, amareggiata e dolente che miete ancora tante vittime nel popolo di Dio. Nell’insistere continuamente anche sulla propria mai compiuta conversione, la formazione è sanamente autocritica[47]. In questo contesto si recepisce da più parti una raccomandazione che si trasmette doverosamente ai vescovi: maggiore vigilanza e più ponderato discernimento anche per le vocazioni sacerdotali, alcune delle quali, secondo l’esperienza di questi ultimi anni, sono risultate non solo segnate dall’accentuata fragilità dei giovani di oggi, ma anche da insicurezze profonde, con conseguenti dinamismi di ripiego e di compensazione, nocivi tanto alla persona che alla comunità. Si raccomanda anche che nel loro primo incarico i giovani presbiteri non ricevano incarichi gravosi o di grande responsabilità, come parroci o altro, ma siano affiancati da altri confratelli.
B) L’attività liberatrice o liberante del popolo di Dio, attinge anch’essa direttamente all’attività di Gesù e ne è la continuazione. I ministeri specifici dei membri del popolo di Dio (anche quelli “ordinati”) si radicano in una ministerialità complessiva che va scoperta come servizio di salvezza e di libertà. Alla luce del vangelo, i ministeri non sono comprensibili nell’ottica del privilegio o del “potere”, o secondo una nuova patologia oggi sempre più invasiva, quella del protagonismo. Si possono riassumere secondo la loro struttura evangelica di una ministerialità come liberazione in senso pieno: servizio reso a Dio e servizio reso in nome di Dio: affrancamento da tutto ciò che rende l’uomo meno uomo. Guardando a Gesù, i ministeri restituiscono all’oppresso la sua dignità, danno il coraggio di continuare a vivere, guariscono le ferite dell’animo. Il ministero non può deviare da questa via maestra della prassi di Gesù, ma conformemente al suo modello, va alla ricerca e fa visita agli altri (ministerium visitationis), sa consolare e confortare gli affranti (ministerium consolationis), contribuisce alla guarigione delle ferite della condizione umana (ministerium medicationis) e rinvigorisce i fratelli con la testimonianza che Dio ci è vicino (ministerium attestationis). Da qui nasce l’esigenza di una pastorale concreta che privilegi l’impegno continuo per la liberazione di tutti gli esseri umani e di tutto l’essere umano, con una particolare preferenza per i più infelici, e in una continua ricerca di un’effettiva giustizia, da conseguire con i mezzi nonviolenti e convincenti della pace. A ciò è da aggiungere l’attenzione verso il creato, con una formazione che sia anche ecologica, che non va snobbata, perché è anch’essa espressione della carità e della solidarietà per chi verrà sulla terra dopo di noi.
C) L’attività convocatrice di coloro che hanno questa ministerialità specifica s’innesta su una più generale vocazione dell’intero popolo di Dio a radunare l’intera famiglia umana. Da Gesù Signore la sua comunità impara un’attitudine particolare, che è quella di sentire la sorte degli altri come la propria sorte. Apprende la gioia e il valore dello stare insieme, oltre che dell’essere una cosa sola. Si possono ricomporre le modalità di tale senso di comune appartenenza in termini che invitano a una concretezza e fattibilità storica, come questi: fraternità contemplante, significanza esistenziale, trasparenza sacramentale, condivisione della festa e condivisione dei beni (materiali e spirituali).
Il popolo di Dio che è in Calabria deve rivedere la sua attitudine a vivere la riconciliazione e la convivialità. Ciò vale sia verso l’esterno, che verso l’interno. È riconciliazione su tutti i livelli, superando individualismi, litigiosità, rancori e vendette. Ma è anche costruzione effettiva di unità all’interno del popolo di Dio. Riscoprire l’unità dunque? Certamente. A partire dalle celebrazioni eucaristiche domenicali, che devono essere il luogo “normale” dove tutti i cristiani si ritrovano, senza deroghe e permessi speciali, per vivere la comunione nella concretezza anche del celebrare tutti insieme[48].
Convivialità è riscoperta della gioia dello stare insieme tutti, per ritornare nei propri ambienti di vita con un segno ulteriore: quello dell’essere una cosa sola in Cristo. È da chiedere come dono, ma è anche da costruire nell’autoeducazione al senso della fraternità, che si riscopre ogni giorno nella preghiera e nello spezzare il pane, ma che sa condividere anche i beni materiali, oltre che quelli spirituali, per dare trasparenza ai segni sacramentali e per non rendere irrilevanti le speranze delle quali siamo custodi e responsabili davanti al mondo e soprattutto davanti al Cristo.
Chiudo con un’ultima immagine, un’istantanea, questa volta, colta attraverso la televisione, dalla vita del nostro popolo e dalla nostra terra, purtroppo ancora insanguinata. Sulle strade di Locri, una “porzione” del popolo di Dio cammina. Cammina insieme con il suo Vescovo, per testimoniare il Dio della vita e del perdono. Sono in molti. Rispetto agli anni precedenti, quando mi sono trovato anch’io su quelle strade a camminare per la pace di una terra tormentata, sono più numerosi. Non ci sono ancora tutti, è vero, ma è lì che avremmo voluto essere anche tutti noi, noi qui radunati e tutti quelli che rappresentiamo. A quel popolo, al quale apparteniamo anche noi, il Maestro dice ancora: «In piedi, voi che amate la vita e la pace in una terra dove la pace e la vita sono ancora ferite dalla smania del potere e dall’idolatria del denaro! In piedi voi che avete fame e sete di giustizia, perché il vostro cammino è già ben avviato! Non desistete, non voltatevi indietro, seguitemi, perché conosco la strada, anche la strada di una sconfitta che è solo apparente, perché io ho vinto la morte!».
[48]In questa ricerca concreta dell'unità, a partire dalle celebrazioni più importanti del popolo di Dio, è da intendersi, a quel che ne sappiamo, il provvedimento dell'episcopato pugliese di convocare tutto il popolo di Dio alla stessa unica celebrazione della veglia pasquale, non permettendone altre parallele.