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L’assunzione dell’altro come dimensione etica della Pacem in terris (P.T.)
Pubblicato in Aa.vv., Costruire la pace sulla terra, a cura di S. Tanzarella, Edizioni La
Meridiana, Molfetta (BA) 1993, 81-110
1
Premessa
Prendiamo
l'avvio da quanto scriveva nel decimo anniversario della P.T. l'allora
presidente della commissione Justitia et pax, il Cardinale Maurice Roy.
"In questo decimo anniversario della Pacem in terris, - affermava - noi sentiamo che la chiesa e il
mondo non possono e non vogliono dimenticarla. Nello stesso tempo, ne prendiamo
coscienza: questa parola, che la chiesa rivolgeva a se stessa e al mondo si
è arricchita durante questo decennio..."[1]. Da
allora altri due decenni sono trascorsi eppure quella dichiarazione, che era
insieme attestazione e raccomandazione all'intera chiesa, non ha perso la sua
attualità. Il tema della pace non è mai datato, non solo perché di pace ha
sempre più bisogno il nostro mondo, ma perché a questo tema si può ricondurre
la concretizzazione storico-politica complessiva della salvezza operata da
Cristo oggi annunciata e celebrata
dalla chiesa.
Il
bilancio del Card. Roy partiva da alcune linee analitiche interessanti per la loro concretezza, perché
individuavano alcuni nodi attraverso i quali passa inevitabilmente la pace
tanto auspicata dalla P.T. e che sono anche il necessario attraversamento di
una qualsiasi riflessione teologica sulla pace medesima. Misurarsi con il suo
spessore storico concreto significa ancora oggi sostanzialmente sollevare tre
quesiti. Il primo è: quali sono i soggetti investiti dalla costruzione della
pace e in che maniera l'elemento personale, quello collettivo e quello
ecclesiale ne sono direttamente investiti? Il secondo: quale metodo di fondo
adottare, oltre le singole metodologie applicative che partono da questo e possono essere anche diverse, e tuttavia senza del quale non è pensabile una
riflessione cristiana della pace? Infine: di quali approfondimenti, cambiamenti
e integrazioni, nel frattempo intervenuti dobbiamo tener conto, per cogliere il
magistero ecclesiale sulla pace nella sua complessità e nella sua attuale evoluzione?
Ovviamente
il presente contributo non può rispondere a queste domande se non
indirettamente. Il metodo della scrittura collettiva di questo libro, pur nel
suo inevitabile carattere antologico e miscellaneo, dovrebbe aiutare il lettore
a poterlo fare da solo a lettura ultimata. Il lavoro personale di comporre in unità organica i testi qui
offerti sono una fatica non aggirabile, ma alla fine sono il frutto più
proficuo di chi si accosta alla verità da diverse angolazioni.
La mia analisi tocca solo tangenzialmente i primi due interrogativi (soggetti e metodo
fondamentale) e si limita ad alcuni ulteriori riferimenti magisteriali solo
quando ciò si ritenesse necessario. Compie tuttavia il tentativo di declinare
tali termini in gioco secondo il valore cardine della solidarietà. Una
solidarietà non generica, ma che si va definendo come prendersi cura
dell'altro, cioè l'altro essere umano, diverso o simile a noi che sia. Un atto quindi di scelta e di responsabilità
qui indicato nell'espressione: assunzione dell'altro. Tale
compartecipazione al destino dell'altro, nelle sue cadute e nelle sue speranze (di acclimatazione e di
sapore prettamente conciliare) comporrà i lineamenti e la sostanza della
solidarietà qui trattata. Anche se
questa è oggi esplicitata con maggiore chiarezza tematica solo dal magistero
pontificio più vicino a noi, si cercherà di individuarne le radici piuttosto
nascoste, ma fortemente presenti nella P.T., per metterla in diretto rapporto
all'assunzione dell'altro, al fine di ricavarne indicazioni operative ancora
praticabili dai soggetti operanti la pace. Dopo uno schema introduttivo che
attraversa l'intero testo della P.T. alla ricerca di ciò che ha a che fare con
la solidarietà, si evidenzieranno le linee tematicamente interconnesse tra
solidarietà e pace, per verificare infine quanto sia presente l'assunzione dell'altro in tutta la
problematica trattata.
2 Schema della P.T. e
solidarietà
Seguiamo
il testo annotando tutto ciò che interessa il nostro tema, aggiungendo solo
alcuni sottotitoli alla struttura
dell'enciclica. Sotto il titolo generale De pace omnium gentium (la pace
tra tutte le genti), il documento pontificio si snoda in un'introduzione e
cinque capitoli.
2.1 Introduzione
La pace è messa in rapporto con il "pieno
rispetto dell'ordine stabilito da Dio" (n. 1). L'ordine riguarda
molteplici rapporti: è tra gli esseri umani, ma esiste in genere tra tutte le
creature, sicché c'è un ordine già nella natura che è all'origine dell'armonia
dell'universo. Mentre le forze irrazionali
provocano disarmonia nel mondo
infraumano, l'uso della forza provoca disarmonia tra uomini e popoli.
2.2 PARTE I: L'ordine
tra gli esseri umani (n. 2) [I presupposti della solidarietà]
La realtà politica sociale (res publica sua
cuiusque) richiede un ordine da costruire, fondato sul fatto che ogni
essere umano è persona (dotato di intelligenza e libertà) (n.3) e come tale è
soggetto di diritti e doveri. Dalla natura si ricevono diritti universali, inviolabili,
inalienabili. Dalla redenzione si riceve una particolare dignità: l'uomo è redento dal sangue di Cristo è Figlio di
Dio ed erede della gloria futura (n.3).
A. I DIRITTI (nn.4-11) riguardano: l'esistenza
integra fisicamente e moralmente, l'istruzione, il culto religioso, la propria
autodeterminazione, la famiglia, la vita consacrata, il lavoro e la giusta
retribuzione, la proprietà privata, l'associazione, l'emigrazione.
Particolarmente importante è il motivo dei diritti: essi nascono
dall'appartenenza alla comunità umana. Ciò dà all'essere umano diritto alla
partecipazione attiva alla vita politica e alla sicurezza giuridica.
B. I DOVERI (nn.12-14) corrispondono ai diritti,
perché diritti e doveri sono ogni volta
reciproci laddove esistono persone
diverse e perché il disordine nasce dal misconoscimento di
questa reciprocità. Ma qui si tocca anche il principio di mutualità (fonte
di solidarietà): "cercare gli uni il ben degli altri" (alii
aliorum quaerant bonum), che
richiede di preparare una "consuetudine" civica che l' assecondi. La
mutualità esige che i rapporti non siano basati sulla forza, ma su decisioni "prese (...) per convinzione, di propria iniziativa, in
attitudine di responsabilità (officii conscientia) e non in forza di coercizioni o pressioni
provenienti soprattutto dall'esterno" (n. 15).
C'è un esplicito riferimento biblico che fa ben intendere la mutualità e la colloca
sul piano della solidarietà: "Siamo membri gli uni degli altri" (n.
16) (Ef 4,25). L'amore non è
accessorio, ma fondamentale per la hominum communitas, tradotta come convivenza
umana (n. 16) ed è definito "atteggiamento d'animo che fa sentire come
propri i bisogni e le esigenze altrui, rende partecipi gli altri dei propri beni
e mira a rendere sempre più vivida la comunione nel mondo dei valori
spirituali" (ivi. ). E' un valore non solo biblico-teologico, ma
anche filosofico, se la "convivenza" per gli esseri umani "si
addice alla dignità di essere portati dalla loro stessa natura razionale ad
assumere la responsabilità del proprio operare" (n. 16). Si noti l'appello
all'operare (ciò che oggi si chiamerebbe prassi), oltre che al
riferimento alla razionalità della natura umana.
Il n. 17 chiarisce l'indole spirituale della
natura umana e di quella convivenza detta ora societas hominum e
che al n. 18 è chiamata hominum
consortio. La "convivenza umana" viene ulteriormente descritta
come realtà "pertinente innanzi tutto l'animo" (trad. un "fatto
spirituale"): "comunicazione
di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e adempimento di
doveri; impulso e richiamo al bene morale". Ha il carattere dell'oblatività e della mutualità:
"permanente disposizione ad
effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi: anelito ad una mutua e
sempre più ricca assimilazione di valori spirituali" (n. 17). Cultura,
economia, istituzioni sociali e politiche si devono alimentare proprio in
questi valori spirituali.
A fondamento di tale ordine etico si porta il
fondamento oggettivo che è Dio stesso, "prima Verità e sommo Bene",
"la sorgente più profonda da cui
soltanto può attingere la sua genuina vitalità una convivenza fra gli
essere umani ordinata, feconda, rispondente alla loro dignità di persone"
(n. 18). Vi si ritorna alla fine del paragrafo dicendo che gli esseri umani
aperti ai valori spirituali sono portati "ad assumere i rapporti tra se
stessi e Dio a solido fondamento e criterio supremo della loro vita: di quella
che vivono nell'intimità di se stessi e di quella che vivono in relazione con
gli altri".
Il n. 19 indica i "Segni dei tempi" che
caratterizzano la nostra epoca: l'autopromozione alla soggettività dei
lavoratori; la coscienza della dignità
della donna; l'indipendenza politica dei popoli un tempo colonizzati. Giovanni XXII
li sintetizza nel superamento del
complesso di inferiorità in alcuni e di superiorità in altri e, "almeno
sul piano della ragione e della dottrina" nella mancanza di fondamento
alle discriminazioni razziali (hominum discrimen). "Ciò rappresenta
una pietra miliare sulla via che conduce all'instaurazione di una convivenza
umana informata ai principî sopra esposti" (ivi. ).
2.3 PARTE II: Rapporti
tra gli esseri umani e poteri pubblici
all'interno delle singole comunità politiche [La solidarietà come
principio regolatore delle comunità politiche]
Si afferma il bisogno e il valore dell'autorità
(n. 20), per assicurare l'ordine e contribuire ad attuare il bene comune in grado
sufficiente. La restrizione di S. Giovanni Crisostomo vuol impedire l'idolatria
del governante e l'autoritarismo: "Che dici? Forse ogni singolo governante
è costituito da Dio? No, non dico questo: qui non si tratta di singoli
governanti, ma del governo[2]. Da qui la precisazione che l'autorità deve
disporre, ma "secondo ragione", né può avere valore meramente
coercitivo, essendo in primo luogo "una forza morale". Fa pertanto
appello alle coscienze al fine della pratica della mutualità: "al dovere
cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di
tutti", fermo restando che solo Dio può obbligare gli altri interiormente.
Il contrasto tra disposizione dell'autorità umana e legge divina è tutto a
vantaggio della legge divina. La legge umana in questo caso, "si denomina
legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un
atto di violenza" (n. 21).
Si potrebbe dire che il nome della solidarietà in questa parte
dell'enciclica è l'attuazione del
bene comune è (n. 22).
Il n. 23 ne indica i soggetti: spetta a
tutti gli esseri umani e a tutti i corpi intermedi, i quali sono tenuti a
portare il loro specifico contributo. Ne precisa il fine: L'autorità
pubblica non può favorire né singoli né una singola parte della società. Si
cita un testo di Leone XIII che sembra soprattutto oggi di massima
attualità: "Né in veruna guisa si deve far sì che la civile autorità serva
all'interesse di uno o di pochi, essendo essa invece stabilita a vantaggio di
tutti"[3]. Non sono ammesse forme di privilegio né
preferenza di alcuni a danni di altri,
né il pratico svuotamento dell'esercizio dei diritti (n. 27). Al contrario, si
arriva a indicare per i cittadini anche "una tutela giuridica efficace
tanto nei loro vicendevoli rapporti che
nei confronti dei funzionari pubblici" (n. 28).
Si indica inoltre il contenuto del bene comune: è lo sviluppo integrale della
persona[4]. La solidarietà coniuga insieme ed armonizza
diritti e doveri degli esseri umani, e tale armonizzazione costituisce il compito
fondamentale dei poteri pubblici. Perché l'indicazione di tale attuazione
non resti generica, vengono indicati al n. 26 i servizi essenziali che
l'autorità pubblica deve garantire e promuovere: viabilità, trasporti,
comunicazioni, acqua potabile, abitazione, assistenza sanitaria, istruzione,
condizioni idonee per la vita religiosa, mezzi ricreativi, nonché sistemi
assicurativi e forme di corresponsabilizzazione ai diversi livelli (culturale,
lavorativo etc.).
Dalla solidarietà, implicitamente supposta deriva
anche la partecipazione di tutti alla vita pubblica (n. 30), avvertendo che né
la volontà del singolo individuo, né quella del gruppo cui esso appartiene sono
"fonte prima ed unica donde scaturiscono diritti e doveri e donde promana
tanto l'obbligatorietà delle costituzioni che l'autorità dei poteri
pubblici" (n. 31). Si ripudiano così le dottrine di impostazione
liberista, e l'individualismo ad esso collegato. La fonte è, al contrario quel bene
comune, di cui la solidarietà non è che un' espressione.
2.4 PARTE III: Rapporti
fra le comunità politiche [La solidarietà come principio regolatore tra le
diverse comunità politiche]
L'enciclica prosegue mettendo in rapporto
organico i diritti individuali con i doveri verso la comunità politica e con i
diritti di essa. Viene riconosciuto il principio di autorità, ma ne vengono
anche indicati i limiti derivanti dalla sua stessa finalità, quella del bene
comune (n. 32). Verità e giustizia esigono il ripudio di qualsiasi idea di
superiorità tra un essere umano sull'altro e l'armonizzazione tra diritti e
doveri tra una comunità e l'altra, il rispetto delle minoranze (nn. 33-35).
Solo un'effettiva solidarietà può far capire la superiorità del lavoratore sul
capitale e la necessaria accoglienza verso i profughi (nn. 37-38). La
solidarietà operante può essere l'humus e la base effettiva di una pace
da costruire nel disarmo (n. 39) e nella collaborazione ai popoli in via di
sviluppo (n. 40), riconoscendo in tale trapasso storico uno dei "segni dei
tempi" (n. 41).
2.5 PARTE IV: rapporti
degli esseri umani e delle comunità politiche con le comunità mondiali [Solidarietà
come interdipendenza tra i popoli]
L'esigenza della collaborazione riguarda
oggigiorno non solo gli uomini all'interno di una singola comunità politica, ma
anche le stesse comunità tra loro ed ha lo scopo di realizzare una convivenza
sempre più comunitaria a livello mondiale (n. 44). La circolazione di idee,
uomini e risorse ha infittito i rapporti e portato i popoli a
un'interdipendenza di fatto.
Le trasformazioni storiche hanno però mostrato
come la nuova situazione e l'esigenza di una simile interdipendenza siano
sfasate l'una rispetto all'altra. Ciò rende particolarmente urgente
l'elaborazione di strumenti giuridici e strutture adeguate al perseguimento di
una finalità così vasta e complessa (n. 45).
Punto di
partenza e d'arrivo irrinunciabile sembra tuttavia essere il perseguimento del
bene comune universale (n. 46), con il rispetto dei diritti individuali in ogni
essere umano e non imponendo nulla per forza nemmeno alle comunità politiche,
ma ricorrendo, al contrario, al principio di sussidiarietà (nn. 46-49). In
questo contesto si ricorda l'ONU per richiamare lo spirito e la finalità in cui
essa è nata: il conseguimento e il mantenimento della pace fra i popoli (n.
50).
2.6 PARTE V: RICHIAMI
PASTORALI
La solidarietà è legata ad alcuni rilievi che
vogliono mettere in luce il giusto apporto dei credenti alla costruzione di una
civiltà solidale.
I richiami contengono osservazioni in negativo e
proposte in positivo. In negativo, si indicano alcuni difetti dei
cristiani nell'esercizio della solidarietà politica: la separazione tra fede
personale e la vita politica oppure una sorta di autosufficienza della fede: il
ritenere che essa basti, senza avvertire la necessità di una competenza
professionale e scientifica (nn. 52-53)e di una ricomposizione tra fede
religiosa ed attività etica (n. 54). In positivo, si propone una sintesi tra i valori spirituali e quelli
scientifici.
Giovanni XXIII non si nasconde che la sintesi non
può essere solo invocata retoricamente, ma deve essere frutto di una formazione
rinnovata che educhi a questa finalità e al metodo più idoneo per arrivarvi (n.
55). Riguarda i cristiani ed interessa tutti, per la vastità dell'opera da
compiere e per il cammino nuovo sul quale l'intera umanità è ormai avviata (n.
56).
L'assunzione dell'altro è qui espresso nel
riconosciuto valore degli "uomini di buona volontà" verso i quali i
cattolici sono chiamati a dimostrare capacità di dialogo e di collaborazione.
La necessaria vigilanza affinché non si incappi i compromessi contrari alla stessa
autenticità evangelica, i cattolici, ripete la P.T., riprendendo la Mater et
magistra "siano e si mostrino animati di spirito di comprensione,
disinteressati e disposti ad operare lealmente
nell'attuazione di oggetti che siano di loro natura buoni o riducibili al bene" (n. 57)[5].
Persino gli "erranti", nonostante
la non accettazione dei loro errori,
sono da accogliere e da considerare e trattare in conformità alla loro dignità
di essere umani e di interlocutori di Dio, in cui non si spegne mai il richiamo
della verità (ivi). Ma ciò significa sapere e dover distinguere le
dottrine erronee nel loro stadio originario con i movimenti attuali che pur
hanno avuto origine a partire da quelle dottrine (ivi).
Sui reali
soggetti della solidarietà interumana si riconosceva nell'enciclica che
non erano in molti (n.59) (ma viene spontaneo domandare se dopo trent'anni
siano aumentati) e si aggiungeva che il metodo non può ignorare una legge di
natura insuperabile, quella della gradualità (n. 58), che pur chiamando
a un compito immenso (n. 59), attinge
la sua forza e la sua ultima motivazione in Cristo, Principe di pace (n. 60).
Ma presentati analiticamente i punti più
attinenti alla solidarietà che si possono cogliere nella P.T. cerchiamo ora di sistemarli in maniera più
organica. Sembra non si vada lontano dal vero nell'individuare il principio
architettonico dell'enciclica nella recezione e nell'accoglienza dell'altro
come discriminante etica che coniughi insieme i segni dei tempi e lo specifico
della carità cristiana. Proprio questo situarsi moralmente nei confronti
dell'altro con responsabilità e in obbedienza alla propria coscienza fa nascere
il grande tema della solidarietà. Non che se ne parli in maniera sempre diretta
e formale: come si è visto, le sue articolazioni sono molteplici, ma non per
questo sfuggenti. Si può dire che l'enciclica apra un ventaglio di affermazioni
che sono dirette espressioni della solidarietà o sviluppi di essa. Vanno dalla
mutualità al bene comune, dalla interdipendenza dei popoli alla costruzione
della pace. E' quanto cercheremo di cogliere meglio nel successivo
approfondimento.
3 L'assunzione
dell'altro come dimensione etica della P.T.
3.1 La solidarietà e le
sue motivazioni di fondo
Il primo riferimento esplicito alla
"mutualità", come già si è visto, ricorre contestualmente
all'asserzione paolina: "Siamo membri gli uni degli altri" (n. 16)
(Ef 4,25) e contiene un significativo richiamo sul carattere non è accessorio,
ma fondamentale dell'amore per la convivenza
umana (n. 16). La definizione di esso è tentata proprio sulla base del sentire come propri i bisogni e le esigenze
altrui e del far partecipi gli altri dei propri beni. Con una finalità che
travalica il contributo dei singoli, ma che tuttavia è collegato ad esso: "rendere sempre più vivida la comunione
nel mondo dei valori spirituali" (ivi).
Nella teologia conciliare rappresenta una vera
svolta il collegamento operato tra la comunione esistente in Dio e quella
esistente tra gli esseri umani, la Comunità che è in Dio e la comunità
che è tra gli uomini. Si è già accennato che proprio quella Comunità è
"la sorgente più profonda da cui
soltanto può attingere la sua genuina vitalità una convivenza fra gli
essere umani" (n.18). Anche in questo caso, la citazione dimostra il pieno
raccordo esistente tra il pensiero di Giovanni XXIII e le idee portanti del
Vaticano II. La dipendenza della comunione interumana da quella divina è comunque
della massima rilevanza e sarà ripreso tanto dai teologi che da altri
interventi del magistero ecclesiale[6].
Di particolare importanza appariva, a questo riguardo, già un testo poco
conosciuto della Pontificia Commissione "Iustitia et pax" che non solo
precisava i termini in cui va intesa la "solidarietà", ma ne indicava
anche la radice più intima nell'essere e nell'agire di Dio. Esaminando il
rapporto tra solidarietà e carità, il testo recitava: "Per se
stessa, la nozione
di solidarietà è aperta.
Senza negare le solidarietà particolari, essa invita
a integrarle in
una solidarietà sempre più
ampia, universa1e. Nel clima
culturale che ci circonda, tuttavia,
il termine si è
irrigidito in solidarietà
particolari, spesso esclusive
e aggressive. Occorre uno sforzo esplicito per restituirgli la sua
vera portata"[7].
Ne deriva un compito che sembra improrogabile per
i cristiani: "Per contribuire a sbloccare
questo irrigidimento, in gran parte dovuto al clima di
secolarizzazione, è urgente che i cristiani
reintroducano nel dibattito il concetto e la realtà insostituibili dell'amore,
della carità, con la loro risonanza profondamente umana e
da loro dimensione anzitutto
teologica"[8].
Il fondamento di questa dimensione teologica da
conferire alla solidarietà è quello precedentemente additato nel rapporto tra
l'amore che è in Dio e l'amore che è stato riversato sulle sue creature, e in primo luogo
sugli esseri umani: "L'unità
degli uomini, creati
a immagine di
Dio che è amore, ha la sua
sorgente in Dio. Il suo legame è l'amore fraterno, che non conosce
limiti né in
estensione (esso abbraccia tutti
gli uomini), né in intensità:
<<Come Gesù ci ha umati>>.
Comandamento supremo che
riassume tutti gli altri. Tutti gli altri vatori umani sono
giudicati da questa carità, e non
viceversa. E' dall'amore che essi ricevono la loro pienezza[9]".
Il principio teologico è comunque formulato brevemente, ma molto
chiaramente: "così la solidarietà ha in definitiva le sue radici
nell'amore divino che lo Spirito di Dio
stesso effonde nei cuori, e trae da esso il
suo nutrimento"[10].
Anche Paolo VI ritorna sull'argomento più volte.
La vita divina che è relazione d'amore è comunicata al popolo di Dio che non
può non vivere che nello stesso amore[11]. La solidarietà è pertanto un'urgenza e una
pratica di vita, ed anche una
"categoria morale"[12]. Nel suo
insieme non è tuttavia vista come mera attività etica, ma si potrebbe dire configurazione "teologale"
dell'uomo. L'uomo reca l'immagine di Dio e pertanto anche l'immagine della
Trinità[13]. Il particolare
rapporto tra l'intima vita divina consistente nell'amore-dono e l'amore
riversato ad ogni creatura[14] è in definitiva la ragione teologica ultima e la
sorgente teologale della solidarietà.
Ritornando alla P.T., nel seguito del testo, ciò
che l'edizione italiana rende con solidarietà al n. 36 è actuosa
virium animorumque coniunctio, che sembra vicina a mutua connexio
del n. 32 della costituzione conciliare Gaudium et spes, sopratitolato Verbum
Incarnatum et solidarietas humana nell'edizione latina[15]. Il paragrafo descrive in actu exercito
la solidarietà di Cristo verso i peccatori e i bisognosi, il cui inserimento
nella dimensione comunitaria (indoles communitaria) del popolo di Dio
avviene primariamente in forza della sua incarnazione: "lo stesso Verbo
incarnato volle essere partecipe della convivenza umana"[16]. Da questa premessa deriva la conseguenza che l'indole
comunitaria, del popolo di Dio viene da Lui perfezionata e compiuta.
L'indole comunitaria conosce anche la reciprocità, e la chiesa è
istituita come comunione fraterna, affinché "tutti, membri tra di
loro, si prestassero servizi reciproci, secondo i doni diversi loro
concessi"[17].
"Questa solidarietà (quae solidarietas) dovrà essere sempre
accresciuta, fino a quel giorno in cui sarà consumata". Nel giorno della parusìa
si manifesterà infatti lo spessore di una solidarietà che ha Dio per Padre e
Gesù Cristo come fratello che ama[18], perché ha amato i suoi fin dall'inizio,
volendoli una cosa sola (unum) e per tutti, ancora più che amico, ha offerto se stesso[19].
Nella
teologia conciliare la solidarietà spazia, quindi, dall'ambito
cristologico a quello ecclesiologico, ma tocca profondamente anche quello
antropologico. Tutto ciò è molto vicino a quanto afferma la P.T., che citando
il brano ai Filippesi, sulla reciproca appartenenza degli uni e degli altri, si
colloca in questo preciso contesto teologico. Un contesto che andrebbe di per
sé suffragato anche con altri brani biblici, ma ai quali qui non possiamo fare
altro che accennare. Si tratta comunque di una realtà socio-religiosa che le
società antiche conoscevano molto di più di quelle moderne e che in Israele
aveva un valore tutto particolare. Il concetto base nasce dalla consapevolezza che
ciò che è di uno è anche degli altri[20]. Le origini, la storia e il destino del popolo
di Dio sono comuni e fanno dire di tutti ciò che si dice in maniera esemplare e primaria dell'unione
dell'uomo e della donna: tutti sono la stessa carne e lo stesso osso[21]. Inoltre appartiene alla stessa esperienza umana
e ai primi dettami del vivere associato potersi appoggiare l'uno all'altro e
moltiplicare la forza congiungendo le forze di tutti[22].
Ma c'è di più. Anche nel giudaismo profetico se
il fratello non può essere indifferente
al proprio fratello ciò è dovuto ad una
ragione teologica eccezionale: la somiglianza con Dio che ha ogni essere umano.
E' gravemente lesivo della religiosità
giudaica ritenere che Dio sia indifferente alla sorte dell'uomo. Anche
se ciò potrebbe essere affermato da chi
geme in una sofferenza nella quale si
sperimenta il suo provvisorio, radicale silenzio, la creazione tutta, la cura che egli ha di ogni cosa,
l'interessamento continuo avuto per Israele dimostrano il contrario. Dio è vicino
all'uomo ed è solidale con lui. Ma
avendolo creato a sua immagine e
somiglianza, anche l'uomo non può assolutamente restare indifferente al
bisogno dell'altro[23].
Saper gioire con chi gioisce e piangere con chi
piange, come insegna ancora S. Paolo (Rm 12,15) nasce dunque da
una realtà, prima ancora che da un
imperativo etico, che tuttavia non è da disattendere, perchè scaturisce da
quella: dalla solidarietà di Dio. Il Nuovo Testamento si potrebbe definire l'attestazione
più grande e più convincente di questa realtà. Gesù Cristo è il segno concreto
di una solidarietà che si dona fino alla fine. E' Egli stesso la Solidarietà di
Dio fatta carne, al punto che in Eb 2,14‑18 si afferma : "[14]
Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è
divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della
morte ha il potere, cioè il diavolo, [15] e liberare così quelli che per timore
della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. [16] Egli infatti non
si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura".
Ragionando a posteriori, sembra che non ci fosse altra strada per chi
veniva tra gli uomini per liberarli dall'interno: "[17] Perciò doveva
rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote
misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i
peccati del popolo. [18] Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed
avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono
la prova".
Il Vaticano II ha questo vasto retroterra biblico
che collega la solidarietà umana direttamente a quella di Dio e in
particolar modo a Cristo. Infatti "Se in realtà solamente nel mistero del
Verbo incarnato trova piena luce il mistero dell'uomo", come scrive GS
22[24] , "con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad
ogni uomo (cum omni homine quodammodo Se univit) (...) Egli si è fatto
veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato"; infatti:
"ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con
volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo"[25]. La conseguenza è, dalla parte dell'uomo che
questi è "conforme (conformis) all'immagine del Figlio"[26] e
pertanto "associato" (consociatus) e conformato (configuratus)
a Lui[27] Il
Vaticano II può pertanto concludere: "tale e così grande è il mistero
dell'uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la
rivelazione cristiana", una grandezza che si basa sulla solidarietà di
Cristo con ciascun uomo e su una conseguente solidarietà tra uomo e uomo,
essendo diventati "tutti figli col Figlio"[28].
La solidarietà tra i cristiani non è che una
conseguenza di questa solidarietà assoluta che Dio ha mostrato di avere nei
nostri confronti attraverso Cristo. La lettera agli Ebrei parla infatti di una
comunanza di carne e di sangue tra Cristo e i fratelli: "Poiché dunque i figli hanno in comune
il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe" (Eb 2,14‑18).
Ciò fa capire meglio perché si dice "Poiché se a causa di un uomo venne la
morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti
riceveranno la vita in Cristo" (1Cor 15,21‑22)[29]. Se il libro degli Atti può ripetutamente
insistere sull'unità tra i cristiani[30], non è per creare un quadro di riferimento
ideale, come spesso insiste l'esegesi, ma soprattutto per raccordare la
solidarietà di Cristo con la solidarietà tra i discepoli. Legati profondamente
a Lui, tanto che chi li perseguita, perseguita Lui (At 9,4) i cristiani come seguaci della sua via[31] vivono nello stesso orientamento esistenziale e
nel medesimo clima spirituale.
La comunità cristiana, la κoιvovία
(koinonìa) trova il suo stato sorgivo nella partecipazione all'unico
pane[32], sicché
l'unità[33] di uno stesso
corpo è fondata in un solo Spirito, nella stessa fede e nella medesima speranza[34]. I cristiani devono avere gli stessi
sentimenti avvertendo di essere come fusi in un'anima sola[35]. Tale unità
di sentimenti nasce dal legame con Cristo: "Abbiate in voi gli stessi
sentimenti che furono in Cristo Gesù" (Fil 2,5).
Basandosi su questa teologia, il Vaticano II
afferma che l'inserimento a Cristo è un fatto sacramentale, oltre che
esistenziale: i cristiani, infatti,
"attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a
Cristo sofferente e glorioso"[36]. E' un'unità che effettua solidarietà non solo,
verticalmente, con Cristo, ma anche, orizzontalmente, all'interno della stessa
compagine ecclesiale: "lo Spirito unificando Egli stesso il corpo con la
sua virtù e con l'interna connessione (interna membrorum connexione)
produce e stimola la carità tra i fedeli" [37]. Tale connessione è opera dello Spirito santo,
"il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio
di unione e di unità nell'insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nella
frazione del pane e nelle orazioni"[38]. La comunione con gli altri è conseguenza di quest'azione dello Spirito.
Il fondamento teologico della solidarietà sembra
possa essere colto anche in ciò che si
afferma della "convivenza umana" (hominum coniunctio).
Riprendendo l'idea ritornante dei "segni dei tempi", anch'essi ‑
a ben considerarli ‑ sono una sorta di partecipazione a ciò che di buono
e di vero, di comunitario e libero
l'uomo trova in Dio. L'aspirazione dei lavoratori ad essere considerati
"sempre come soggetti o persone in tutti i settori della convivenza"
(n. 19) da dove può avere origine se non nel fatto che veniamo tutti da una
stesse sorgente, che è Dio? "Egli è la prima Verità e il sommo Bene; e
quindi la sorgente più profonda da cui può attingere la sua genuina vitalità
una convivenza fra gli esseri umani ordinata, feconda, rispondente alla loro
dignità di persone"(n. 18). Giovanni XXIII, citando Tommaso d'Aquino,
vede nella bontà di Dio" l'ultima ed intima ragione della bontà della
volontà umana, così come essa si esprime
anche nel caso dell'ingresso della donna nella vita pubblica e nella
conquista dell'indipendenza dei popoli che un tempo erano colonie di paesi più
potenti (n. 19).
3.2 La solidarietà nella sua caratterizzazione
politica
Nel n. 32 è menzionata accanto ai tradizionali valori
quali la verità, la giustizia, la
libertà, anche ciò che noi chiamiamo solidarietà, indicata in latino come "alacer
animorum coniunctio", "alacre unione degli animi", forse meglio traducibile alla lettera con
"solerte unione interumana", nel senso che si tratta di unione non
sentimentalmente intesa, ma di un'effettiva coscienza comunitaria appassionata
e tendente all'azione (alacer). La traduzione ufficiale l'intende come solidarietà
operante e precisa la finalità e l'ambito di una operatività che oggi non
si esiterebbe a chiamare "prassi solidale" nell'ambito più globale
del bene comune. Un bene che è evidentemente comune non solo ad ogni uomo, ma
anche ad ogni popolo, per cui si ripudia qualsiasi adombramento ideologico di
superiorità non solo di un uomo
sull'altro, ma anche di un popolo di un altro popolo. Pertanto l'enciclica
prende a cuore le sorti delle minoranze "gentes pauciores": "Va
affermato nel modo più esplicito che un'azione diretta a comprimere e a
soffocare il flusso vitale delle minoranze è grave violazione della giustizia;
e tanto più lo è, quando viene svolta per farle scomparire" (n. 35).
Le forme effettive della "solidarietà
operante", di una prassi socio‑politica internazionale e tra nazioni
e minoranze sono tante. E' l'argomento
del n. 36, che ne indica le più importanti: quella economica e quella più
propriamente politica, quella culturale e quella sanitaria, fino a prevedere
anche quella sportiva (ad civium valitudidem et ad gymnicos ludos).
Ciò rende urgente invertire la tendenza
all'accumulo di armamenti di alcune nazioni (nn. 39‑40), per consentire
di avanzare verso una società
internazionale che in una fattiva cooperazione
con in paesi in via di sviluppo, si vada avvicinando all'ideale spesso
ribadito del perseguimento di un'unica famiglia umana" (nn. 41‑42).
In questo contesto l'enciclica concretizza non poco il tema della pace.
3.3 Solidarietà e pace
3.3.1 Disarmo
La solidarietà diventa tema esplicito come
principio che regola anche le comunità politiche. E' legata alla comune umanità
tra chi governa e chi è governato e allo scopo primario della stessa
istituzione politica, che è quello del bene comune. Proprio questo
"costituisce la sua ragione di essere" (n. 32). Un legame tutto
particolare con la pace viene indicato quando Giovanni XXIII parla del
necessario disarmo non solo per allontanare l'incubo di una deflagrazione
atomica, ma anche per investire per l'effettivo bene comune ciò che invece
viene sperperato in "armamenti giganteschi" (nn. 39‑40). Gli
ingenti investimenti per accumulare tali armamenti non sono espressione di
solidarietà, ma al contrario sono fattori di paura e diffidenza reciproca.
Il discorso della pace iniziava già
nell'introduzione con due idee principali: 1) la pace in terra costituisce
l'anelito più profondo degli uomini di ogni tempo; 2) la pace può essere
instaurata e rafforzata rispettando pienamente l'ordine stabilito da Dio. Dopo aver condotto una prima analisi degli
elementi di base che costituiscono
quest'ordine divino e gli attuali ostacoli al suo pieno attuarsi, Giovanni
XXIII presenta la corsa agli armamenti come l'ostacolo più tipico e più
nacroscopico, ma si potrebbe dire come la struttura antisolidale per
eccellenza. Proprio la corsa agli armamenti sperpera le risorse destinate a
tutti e diffonde un clima di paura e di diffidenza reciproca. Costituisce inoltre un rischio molto alto di
effettiva distruzione dell'umanità, anche in caso di errore.
Le comunità nazionali più progredite, proprio
quelle che dovrebbero favorire il progresso delle più povere ed essere di
esempio in una cooperazione solidale, sono invece egoisticamente ripiegate su
se stesse e su un malinteso concetto di difesa: "Ci è pure doloroso
constatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuino
a creare armamenti giganteschi;
come a tale scopo venga assorbita una
percentuale altissima di energie spirituali e di risorse economiche; gli stessi
cittadini di quelle comunità politiche
siano sottoposti a
sacrifici non lievi;
mentre altre comunità politiche vengano,
di conseguenza, private
di collaborazioni indispensabili
al loro sviluppo economico e al progresso sociale" (n. 39).
Tutto ciò contraddice, ovviamente, qualsiasi
solidarietà. Si ritorce contro il proprio popolo e contro gli altri popoli,
particolarmente contro gli affamati e gli impoveriti della terra. L'utilizzo
delle armi nucleari è radicalmente condannato, perché significherebbe radicale
ribellione a Dio e atto totalmente antisolidale: "Per cui giustizia,
saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti; si riducano simultaneamente e
reciprocamente gli armamenti
già esistenti; si
mettano al bando le armi
nucleari; e si pervenga finalmente al
disarmo integrato da controlli efficaci".
L'enciclica non nasconde il necessario clima
spirituale e culturale in cui può avvenire il disarmo nucleare: è il
"disarmo integrale" (plenus), smontando gli spiriti "adoprandosi sinceramente a dissolvere
in essi la psicosi bellica: il che
comporta, a sua volta, che al criterio
della pace che
si regge sull'equilibrio degli
armamenti, si sostituisca il principio
che la vera pace si può costruire
soltanto nella vicendevole
fiducia" (ivi).
La motivazione non va solo nella scia già
indicata dal punto di vista teologico, ma è anche di pura e semplice natura
razionale. Il disarmo non è richiesto
solo dall'ordine della creazione da quanti credono che la terra viene a Dio ed
è affidata alla cura dell'uomo, che non ha ricevuto il potere di distruggerla,
né di danneggiarla. "E' un
obbiettivo reclamato dalla
ragione. E' evidente; o almeno dovrebbe esserlo per
tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra
i singoli esseri umani, vanno
regolati non facendo ricorso alla forza
delle armi, ma nella luce della ragione; e cioè nella verità, nella
giustizia, nella solidarietà operante" (ivi). L'obbiettivo della
pace "ardentissimamente" da
tutti "desiderato" è della più alta utilità: "Dalla pace
tutti traggono vantaggi:
individui, famiglie, popoli, la intera famiglia umana. Risuonano
ancora severamente ammonitrici
le parole di Pio XII: <<Nulla è perduto con la pace.
Tutto può essere perduto con la guerra>>" (ivi).
Le parole
che seguono nel testo sono da
Giovanni XXIII sottolineate in nome della sua stessa autorevolezza e della sua
stessa funzione ecclesiale, ma anche in nome della ragionevolezza umana:
"Perciò come vicario di Gesù
Cristo, salvatore del mondo e artefice della pace, e come interprete
dell'anelito più profondo dell'intera famiglia umana, seguendo l'impulso del
nostro animo, preso dall'ansia di bene per tutti, ci sentiamo in dovere di
scongiurare gli uomini. Soprattutto
quelli che sono investiti di responsabilità pubbliche, a non risparmiare fatiche per imprimere alle
cose un corso ragionevole ed
umano" (ivi).
Non si può non pensare a un importante, quanto -
purtroppo - poco citato documento che sarà successivamente prodotto sotto il
pontificato di Paolo VI, a distanza di tredici anni, il Documento della Sede Apostolica all' ONU, che
nel 1976 affermerà con
particolare energia che le armi non difendono la pace, ma al contrario la
minacciano , essendo "un errore", "una colpa" e "una
pazzia". Sono ancora "una violazione del diritto mediante il primato della forza" perché "l' accumulazione delle armi diviene un
pretesto per la corsa ad aumentare la forza al potere". Sono inoltre
"un furto": dilapidano
la maggior parte delle risorse economiche e umane, in tutti i sensi. Anche
quando non sono impiegate, uccidono, essendo per loro natura, al di là delle intenzioni di eventuale deterrenza, "un'ingiustizia" ed "un'
aggressione" in atto. Così concluderà
con scarnificante realismo la Santa Sede, che stigmatizzerà
inoltre la produzione delle attrezzature militari come
un'"aggressione che si fa crimine:
gli armamenti anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i
poveri, facendoli morire di fame"[39]. Il testo di questo documento riprende con
particolare decisione l'impostazione della pace come diritto delle genti e
come via della ragione, contro
l'assurdità della guerra, particolarmente
della guerra nucleare e dei suoi preparativi. E' un'idea che ha un precedente
notevole nella Muneficentissimum Dei donum di Benedetto XV nel 1917 e
che avrà come seguito oltre al testo citato anche i recenti pronunciamenti di
Giovanni Paolo II in materia di pace.
La P.T. ascrive ai "segni dei tempi" la
sempre più diffusa convinzione (ma è ancora oggi tanto diffusa?) "che le
eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso
alle armi; ma invece attraverso il negoziato" (n. 43). Ritorna, di
sfuggita, esplicitamente al tema che ci interessa, quello della solidarietà,
quando afferma che non il timore, ma l'amore può comunque risolvere il problema
della guerra e degli armamenti. La solidarietà è auspicata ed espressa come speranza
affinché gli uomini "abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano
provenienti dallo loro comune umanità" (ivi). I vincoli di
questa comune umanità sono evidentemente vincoli reali perché basati su
una comune natura (communis natura) e tendono ad esprimere una
delle più formidabili esigenze umane, quella direttamente legata alla
solidarietà e che è costituita
dall'amore. Un amore che "tende ad esprimersi nella collaborazione
leale, multiforme, apportatrice di molti beni" (ivi).
3.4 Solidarietà e interdipendenza tra i popoli
Saldamente collegata alla solidarietà e
quasi inconfutabile manifestazione e
dimostrazione di essa è l'interdipendenza. Se al giorno d'oggi è diventato
persino un luogo comune parlare del mondo nei termini del "villaggio
globale", ai tempi dell'enciclica doveva essere invece una novità. Dal
punto di vista politico si era in piena
guerra fredda e dal punto di vista ecclesiale, solo gli animi più aperti,
quelli che "facevano" il Concilio, riuscivano a superare la
frontale, tradizionale opposizione tra
mondo profano e mondo religioso, tra "credenti" e "non
credenti". Giovanni era uno di questi, anzi ne era, per così dire, non
solo l'assertore più convinto, ma anche il battistrada. Nella sua lucidità
intuiva come il progressivo processo di
inimicamento tra i popoli era arrivato ormai a un punto, superato il quale, non c'era più ritorno,
perché si era concretamente davanti al
pericolo reale di una catastrofe nucleare.
Con coraggio profetico intravedeva come unica via d'uscita la
solidarietà tra gli uomini, una solidarietà che non era affatto puro e semplice
appello moralistico, ma che nasceva dalla constatazione che il mondo era, di
fatto, pur nelle sue crescenti inimicizie e ostilità, una cosa sola, sicché la
sorte di ogni comunità civile e
politica dipendeva dalla sorte delle altre:
"il progresso sociale,
l'ordine, la sicurezza, e la pace all'interno di ciascuna comunità politica è
in rapporto vitale con il progresso sociale, l'ordine, la sicurezza, la pace di
tutte le altre "comunità politiche" (n. 44).
Ma perché ciò non sia inteso come dichiarazione
retorica, l'enciclica tenta anche un'analisi storica che indica il
trapasso dai tradizionali modi di impostare i rapporti tra le comunità
politiche al nuovo modello che ancora non viene praticato: "Nei tempi
passati si poteva, a ragione, ritenere
che i poteri pubblici delle differenti comunità politiche potessero essere in grado di attuare il
bene comune universale; attraverso le normali vie diplomatiche o con incontri a
più alto livello utilizzando gli
strumenti giuridici, quali ad esempio, le convenzioni e i trattati: strumenti
giuridici suggeriti dal diritto
naturale, e determinati dal diritto delle genti e dal diritto internazionale" (n. 45). Oggi perché cambiamenti reali possano
intervenire, è necessario che la prassi politica si adegui alla mutata situazione
storica. La stessa autorità, mediata nelle forme intermedie dei pubblici poteri
deve inaugurare modi nuovi di
affrontare gli attuali problemi: "Ciò postula che gli organi nei quali
l'autorità prende corpo, diviene operante e persegue il suo fine, siano
strutturali e agiscano in maniera da essere idonei a tradurre nella realtà i contenuti
nuovi che il bene comune viene
assumendo nell'evolversi storico della
convivenza" (n. 46).
Il bene comune va dunque di pari passo con
modalità nuove di realizzare la solidarietà e si poteva dire allora, ma si può
dire anche oggi, che gli stessi
soggetti sopranazionali in grado di gestire tali imponenti trasformazioni e i
complessi problemi dell'interdipendenza non sono ancora visibili all'orizzonte:
"Il bene comune universale pone ora problemi dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente
affrontati e risolti che ad opera di
poteri pubblici aventi ampiezza strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali
poteri vengano istituiti" (n. 46).
La P.T. menziona alcuni principi, di ordine razionale e di ordine etico, in
base ai quali occorrerà cercare l'istituzione di ciò che può favorire il bene
comune universale (commune bonum universale). Ravvisando un'analogia e
una contestualizzazione etica tra questo e i diritti della persona, individua
nel principio di sussidiarietà una delle linee di soluzione
nell'armonizzare finalità e
caratteristiche del potere delle singole comunità politiche con quelle di un
soggetto sopranazionale. Da Giovanni XXIII viene così esplicitamente menzionata
l'Organizzazione delle Nazioni Unite, con l'invito pressante a che questa possa
adempiere a simili compiti di solidarietà, sì da corrispondere nei fatti al fine suo primario: "Le Nazioni
Unite si proposero come fine essenziale di mantenere e consolidare la pace fra
i popoli, sviluppando fra essi le amichevoli relazioni fondate sui principi
dell'uguaglianza, del vicendevole rispetto, della multiforme cooperazione in
tutti i settori della convivenza" (n. 50).
3.5 Ciò che unisce è maggiore di ciò che divide
Il richiamo alla solidarietà è un richiamo a
unire e congiungere; a cercare sempre ciò che unisce, superando le tradizionali
opposizioni e contrapposizioni. In linea con il suo magistero e il suo stile,
Giovanni XXIII richiama i cattolici a
unificare quei settori che sovente
vengono scissi: fede e vita, attività personale ed attività pubblica, ordine
naturale ed ordine soprannaturale:
"Ancora una volta ci permettiamo di richiamare i nostri figli al dovere che hanno di
partecipare attivamente alla vita
pubblica e di contribuire all'attuazione del bene comune della famiglia umana e della propria comunità
politica" (n. 51).
L'invito è di adoperarsi perché le stesse istituzioni
socio-politiche, ed economico-culturali rimuovano gli ostacoli e facilitino
tale sintesi qualitativamente superiore e realisticamente proficua.
L'ambito spirituale ed esistenziale in cui ciò
può e deve avvenire tocca i cristiani, ma di per sé può riguardare ogni altro
essere umano che agisca "nella luce della fede e con la forza dell'amore" (Ivi). Una fede,
beninteso che non può accontentarsi narcisisticamente di se stessa o esonerare
i credenti dal conseguimento di una
competenza specifica, perché "Non basta essere illuminati dalla fede ed
accesi dal desiderio del bene per
penetrare di sani princìpi una civiltà e vivificarla nello spirito del
Vangelo" (n. 52). Non si può agire
con efficacia - e sarebbe da aggiungere - e nemmeno essere testimoni credibili, "se non si è
scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente
esperti" (ivi). L'agire
cristiano o dell'uomo in genere è infatti una sintesi. Ciò che, a distanza di trent'anni
chiamiamo prassi (l'actio del testo latino)[40] è per il nostro testo la sintesi di elementi
scientifico-tecnico-professionali e di valori spirituali. La competenza
professionale deve essere pertanto accompagnata da un afflato etico e per il
credente in Dio l'actio si può moralmente configurare "come
esercizio o rivendicazione di un diritto, come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio; come risposta
positiva al disegno provvidenziale di Dio mirante alla nostra salvezza"
(n. 53).
La ricomposizione tra fede ed etica è un'esigenza
più volte ribadita, perché nasce dalla constatazione di una frattura tra il
dettato evangelico e la pratica quotidiana. Un divario che non può sussistere
se davvero i cristiani muovono dal Vangelo (n. 54), anche se con realismo la P.T. ammette che in gran parte
simile frattura è provocata da un difetto di formazione cristiana (n. 55). Il
che rende quanto mai urgente un'opera di formazione integrale e permanente.
Ma con quale motivazione ulteriore? Cosa deve spingere
cattolici e non cattolici a collaborare (n. 57) in solidum in una trasformazione della realtà che sia
eticamente ispirata? Innanzi tutto la consapevolezza "che quello che è stato realizzato è sempre poco rispetto a
quello che resta ancora da compiere per adeguare gli organismi produttivi, le
associazioni sindacali, le organizzazioni professionali, i sistemi
assicurativi, gli ordinamenti giuridici, i regimi politici, le istituzioni a
finalità culturali, sanitarie, ricreative e sportive, alle dimensioni proprie
dell'èra dell'atomo e delle conquiste spaziali" (n. 56). Ed inoltre la
comprensione - e qui il magistero di Giovanni XXIII è stato veramente
innovativo - che "non si dovrà però
mai confondere l'errore con
l'errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale
religioso. L'errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va
sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Inoltre in ogni essere umano non si spegne mai
l'esigenza, congenita alla sua natura,
di spezzare gli schemi dell'errore per aprirsi alla conoscenza della verità. E
l'azione di Dio in lui non viene mai
meno" (n. 57).
L'invincibile fiducia che anima queste parole fa
saltare anche gli schemi del realismo storico, per aprirli al realismo utopico,
quello che sa leggere anche nel futuro: "Pertanto, può verificarsi che
un avvicinamento o un incontro di
ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno
o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani" (ivi).
Se il compito che pertanto si apre per tutti
gli uomini di buona volontà può sembrare ed è difatti "immenso",
non possiamo e non dobbiamo per questo rinunciarvi (n. 59). Pur nella
gradualità, che rifiuta i cambiamenti violenti e la violenza in genere (n.58),
la pace come finalità ultima e come orizzonte nel quale ci si muove può essere
"solo suono di parole, se non è fondata su quell'ordine che il presente
documento ha tracciato con fiduciosa
speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla
carità e posto in atto nella
libertà" (n. 60).
4 Conclusione
Quest'ultima parte dell'enciclica è di per sé
chiara e tira da sola le conseguenze operative del discorso qui condotto.
Tenendo conto degli iniziali interrogativi sui soggetti di solidarietà (e
quindi di pace), sul metodo comune da adottare e sulle integrazioni
magisteriali intervenuti in questo trentennio, la lettura avrebbe dovuto
condurre all'individuazione di quei principi fondamentali senza dei quali non
sussiste né teologia della solidarietà né teologia della pace. Se ora, con una
messa a fuoco maggiore, ci chiediamo quale sia il rapporto tra la P.T. e la teologia della pace e se ci sia
una vera e propria teologia della pace nella P.T., potremo senz'altro
rispondere che ci sono certamente degli elementi chiari e convincenti a partire
dai quali si può dipanare una vera e propria teologia della pace, anche se rimane
vero che l'enciclica non si può situare
sul puro e semplice terreno della riflessione teorica o solo squisitamente
teologica. Un'enciclica ha sempre molteplici obiettivi. E' esortazione e presa
di posizione, richiamo e riflessione. Non abbiamo trascurato di far notare che
Giovanni XXIII si fa interlocutore
anche dei non cattolici, di quelli che sono semplicemente chiamati "uomini
di buona volontà". Sono coloro che hanno a cuore il bene degli altri e non
si rassegnano all'oggi della violenza e della prevaricazione. Inoltre, se il
tema solidarietà è già un tema, la sua formulazione precisa non può, né deve
ancora ricercarsi in questo testo che la sottintende abbondantemente, ma non
intende trattarla esplicitamente.
A noi basti qui aver colto innanzi tutto il
legame seriamente e insistentemente
affermato tra pace e solidarietà
e tra solidarietà e mutualità come
comunione ad un unico destino planetario. Il tema della pace è un tema che riguarda l'intero pianeta terra.
Non è solo un tema, ma è una realtà variegata e complessa, eppure è la
condizione indispensabile perché gli uomini abbiano non solo una vita
dignitosa, ma anche consona al progetto di Dio. Questo l'enciclica afferma e
questo costituisce il suo nucleo portante.
Ma, teologicamente parlando, proprio la pace, che
tradizionalmente poteva configurarsi come
virtù sociale e persino rinunciataria (chi non ricorda che la
beatitudine "beati i facitori di pace" era sempre tradotta:
"beati i pacifici", in senso
passivo?) diventa, con questa enciclica, categoria teologica che
interpreta e concretizza storicamente l'opera salvifica di Cristo e della
chiesa. La pace infatti appare qui per
la prima volta esplicitamente collegata all'agire di Dio e al suo progetto, alla
solidarietà redentiva di Cristo e alla intima compartecipazione della Chiesa a
quello che è il destino dell'uomo già sulla terra. Ciò vuol dire che nel testo
esaminato ci sono indubbiamente principi teologici di grande importanza, anche
se la P.T. si sofferma ripetutamente sui risvolti razionali e legali, allo scopo di farsi capire e accettare da
tutti.
La sostanziale
fiducia nell'altro collega anche la solidarietà ai diritti umani e
prospetta un futuro che si rischiara di speranza. Il suo segreto consiste
proprio nella scoperta dell'altro: non
più demonizzato, né temuto, ma amato ed accolto. Da qui l'insistenza sul
"bene comune", sulla "famiglia umana", sulla necessità
della "cooperazione". Il tutto alimentato dalla fiducia che la
soluzione esiste ed è da ricercarsi nell'unione, nella cooperazione, perché di fatto esiste una
totale interdipendenza, una vera "coniunctio" tra gli uomini.
L'altro è recepito, in maniera rivoluzionaria, come valore che va oltre gli attuali suoi errori, grazie alla
doppia distinzione tra l'errore e l'errante e tra le dottrine
filosofiche false sull'uomo e su
Dio e i movimenti attuali, che pur muovono, almeno storicamente da
quelle visioni filosofiche. L'enciclica afferma che quei movimenti possono mutare e in realtà sono mutati.
Comunque sono sempre degli interlocutori.
Sembrerebbe che ciò che giustifica l'accoglienza
del diverso e la collaborazione con lui nasca anche da un ulteriore aspetto
della solidarietà, anch'esso più sottinteso che esplicitato nella P.T. E'
l'avvertire la comune responsabilità verso l'umanità e verso ogni uomo in
genere. Al principio solidarietà sembra debba essere qui affiancato
quello della responsabilità. E' proprio quest'ultimo che offre il
terreno d'incontro tra cristiani e non cristiani, perché è un principio che non
richiede ulteriori giustificazioni né religiose né etiche. Nasce infatti dalla
stessa con-presenza dell'altro e del suo bisogno. Il fatto che egli ci sia è
già di per sé non solo appello, ma anche fondazione etica. Si è notato come
l'enciclica vi faccia qualche riferimento, anche se occorre aggiungere che,
anche in questo caso, il tema non viene esplicitato in quanto tale, perché solo
la riflessione conciliare e postconciliare, in ambito ecclesiale, e quella
antropologica, in sede filosofica, svilupperanno in qualche maniera
l'argomento.
Il Concilio riprenderà la responsabilità come
categoria etica nei termini di un'obbligazione implicita nell'essere umano in
quanto tale e di cui cresce la coscienza su scala mondiale[41]. Preciserà che il senso della responsabilità e
della partecipazione deve essere tuttavia sviluppato in un'opera educativa che formi personalità adatte ai grandi
compiti del momento presente[42], così come indicherà le interconnessioni
esistenti tra testimonianza dei cristiani e
crescita di responsabilità dei cittadini[43].
La responsabilità come tema prevalentemente
etico-antropologico sarà sviluppato da quanti si porranno il problema di un
superamento delle stesse radici individualistiche della concezione occidentale dell'uomo se non
addirittura dell'essere. Qualcuno, argomentando solo sul piano antropologico arriverà a dire
che lo stesso amore altro
non è che responsabilità di un io per un tu[44], concordando con la parte più qualificata della filosofia e della teologia moderna che
ritiene ogni vita reale un incontro"[45]. Di fronte all'altro non si può pertanto
prescindere dalla responsabilità essendo egli stesso appello etico, al punto
da poter tracciare un rapporto nuovo,
proficuo e profondo tra e eticità e alterità[46].
Tutto ciò si radica nel convincimento che l'altro
è colui che mi viene incontro come volto, pur nella miseria del povero e dello straniero: un povero e uno straniero
che si presenta come eguale[47]. Ho pertanto una responsabilità diretta avente
lo stesso valore del tradizionale assunto etico: "compi quanto è in tuo
potere quando l'esistenza altrui dipende dal tuo intervento"[48]. La responsabilità non riguarda solo il vincolo
che qualcuno contrae con il suo passato (responsabilità di aver fatto
qualcosa), ma anche assunzione di un obbligo per il futuro (responsabilità
per qualcuno a qualcosa). Ciò che obbliga eticamente è lo stesso fatto
d'esistere e per la stessa circostanza della vicinanza effettiva del
tu-altro. Ma, sviluppando il discorso, si può facilmente arrivare alla
conclusione cui perviene anche la P.T. che anche il futuro del cosmo,
accomunato nello stesso destino del futuro dell'umanità sfida la credibilità di
un agire che si fa carico del prossimo come luogo reale dove incontrare Dio,
incontrando l'altro.
Da quando la P.T. fu pubblicata ad oggi molte
cose sono cambiate. Mentre questa nuova sensibilità etica della responsabilità
per l'altro esistente si va affermando, con le premesse da un "nuovo"
umanesimo ancora da venire, le dottrine filosofiche atee, dalle quali
Giovanni XXIII invitava a distinguere i movimenti, hanno fatto il loro tempo e
gli stessi movimenti da essi generati le hanno travolte. Tuttavia non si può dire per questo che la pace sia
oggi più a portata di mano di allora. Il mondo è ancora più fortemente diviso
tra Nord e Sud e nuovi focolai di conflitto sono accesi in più parti del
mondo. Ma, ciò che è peggio, la
solidarietà non asseconda ancora quel disarmo che è già iniziato ed ha fatto
qualche significativo progresso. Anche per questo la P.T., che ha legato il disarmo alla cooperazione, la
smilitarizzazione degli arsenali a quella degli animi, l'accettazione del
diverso al rispetto delle minoranze, è per buona parte da realizzare.
[1] Pace anzitutto nella chiesa. Card. Maurice
Roy (11.4.1973), inIl Disarmo e la pace. Documenti del magistero.
Riflessioni teologiche. Problemi attuali, (a cura di A. Cavagna e G.
Mattai), Bologna, Dehoniane 1982, 78-90, qui 89.
[2]E' cit. In epist. ad Rom.: PG 60, 615.
[3]Enc. Immortale Dei. Acta Leonis XIII 5
(1885) 121.
[4]Si riprende la
Mater et Magistra: AAS 53 (1961), 417.
[5]Giovanni XXIII,Mater et magistra: AAS 53
(1961), 456.
[6]Basti qui accennare, in campo cattolico, al
libro interlocutorio con l'opera di H. von Balthasar: K. HEMMERLE, Tesi di
ontologia trinitaria. Per un rinnovamento della filosofia cristiana, Città
Nuova, Roma 1986. La tesi dell'uomo recante l' immagine di Dio e pertanto anche
l' immagine della Trinità è sviluppata particolarmente in: L. BOFF, Trinità
e società, Cittadella, Assisi 1987.
[7] COMMISSION PONTIFICAL <<IUSTITIA ET
PAX>>, Document Self‑Reliance:
Compter sur soi. Vers la troisième décennie du développement. Pour un monde plus solidaire, des peuples
plus responsables, 15 mai 1978:
Typographie polyglotte vaticane,
1978: EV 6, nn. 718‑790,
qui n. 787.
[8]Ivi, 788.
[9]Ivi, 789.
[10]Ivi, 790.
[11]PAOLO VI, Gaudete in Domino parte III: EV
5, 1266ss.
[12]Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo Rei
Socialis, particolarmente la IV parte, nn. 35-40: EV 10, 2637-2663.
[13]Cfr. ivi, n. 40: EV 10, 2661.
[14]GIOVANNI PAOLO II, Dominum et vivificantem,
n. 10: EV 10, 472-473.
[15]GS 32: EV 1, 1418.
[16]Ivi, EV 1, 1419.
[17]GS 32: EV 1, 1421.
[18]Ivi, EV 1, 1422.
[19]Ivi EV 1, 1420.
[20]Basti qui accennare solo a Ger 32,39 dove compare l'idea che i
rimpatriati dall'esilio avranno "un solo cuore e un solo modo di
comportarsi" o al brano ancora antecedente di Es 1,4, che invitava la famiglia ebraica a consumare l'agnello
pasquale associandovi il vicino e il più prossimo della casa, secondo
il numero delle persone. Dt 22,1 ingiungeva perfino di non fingere di non vedere gli animali del
prossimo che si fossero smarriti, ma di ricondurglieli prontamente. 1Sam 14,38‑39
ed altri passi simili testimoniano il carattere comunitario anche dell'atto
malvagio commesso dal singolo, mentre in 1Sam 22,20‑23 si narra di Davide
che si sente responsabile davanti a Dio della vita dei sacerdoti fatti
trucidare da Saul.
[21]2Sam 5,1 utilizza un'espressione che ricorda
direttamente l'unità profonda esistente nella prima coppia della Genesi:
"Ecco noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne" (cfr. anche 2Sam 19,13) ed Esd 1,3‑5
racconta un episodio di solidarietà concreta all'interno del popolo di Dio. In
Ne 5,5‑8 si stigmatizza il grave
peccato contro la solidarietà che farebbe giungere alcuni a vendere come
schiavi i propri fratelli pur trattandosi della stessa "carne".
[22]Qo 4,9‑12 riassume in poche massime il
valore e la profondità del vivere e dell'agire in solidarietà: "[9] Meglio
essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica.
[10] Infatti, se vengono a cadere, l'uno rialza l'altro. Guai invece a chi è
solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. [11] Inoltre, se due dormono
insieme, si possono riscaldare; ma uno solo come fa a riscaldarsi? [12] Se uno
aggredisce, in due gli possono resistere e una corda a tre capi non si rompe
tanto presto".
[23] Gb 35,8‑14 [8]denuncia l'assurdità di
chi ritiene Dio indifferente al dolore dell'uomo.
[24]EV
1, 1385.
[25]Ivi, EV 1, 1386.
[26]Ivi, EV 1, 1388.
[27]Ivi, EV 1, 1386.
[28]Ivi, EV 1, 1390.
[29]Cfr. anche 2Cor 5,21: "Colui che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi
potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" e Fil 3,10 "E
questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la
partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte".
[30]I passi lucani sono noti. Risalgono tutti
all'idea contenuta nel quadro sintetico di At 2,44‑47 che presenta la
comunità unita sia dal punto di vista
cultuale da punto di vista esistenziale ed economico.
[31]Cfr. At 18,24-26; 19,23; 22,1-4; 24,22.
[32]Cfr. 1Cor 10,17.
[33]Cfr. 1Cor 1,10.
[34]Cfr. Ef
4, 3-6.
[35]La parola usata da Paolo è σύμψυχoι
(sympsychoi) ed è in un contesto dove l'amore rappresenta il
dispiegamento della κoιvovία: Fil 2,1‑2: "se c'è
conforto derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci
sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con
l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti.
[36]LG 7, EV 1, 297.
[37]LG 7, EV 1, 298.
[38]LG 13, EV 1, 318.
[39]Cfr. La Santa Sede e il disarmo. Documento presentato all'ONU (1976) in Il
Disarmo e la pace. Documenti del magistero. Riflessioni teologiche. Problemi
attuali, (a cura di A. Cavagna e G. Mattai), Bologna, Dehoniane 1982, 102-126.
[40]Non di rado la parola actio traduceva il
termine greco praxis di Aristotele.
Esaminata già da Aristotele, che
l'applicava all'attività umana distinta dalla produzione (cfr. Etica a Nicomaco, VI, 3‑4), in S. Tommaso la
prassi era detta actio e
indicava l'attività umana in genere e quella spirituale in particolare (Summa
Theol. II, I, q. 3, a. 2; q. 111, a. 2; II, I, q. 57 a. 4.). Cfr. G.
MAZZILLO, Teologia come prassi di pace, Molfetta, La Meridiana 1988,
59ss.
[41]"In tal modo siamo testimoni della nascita
di un nuovo umanesimo in cui l'uomo si definiscae anzitutto per la sua
responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia" (GS 55:
EV 1, 1496).
[42]GS
31: EV , 1415-1416.
[43]GS
75: EV 1, 1577; GS 19: EV 1, 1375.
[44]Cfr. M. BUBER, Ich und Du,
Heidelberg 1983 (11.a), 22. (Traduzione italiana: ID., L'IO e il TU, in
"Problemi di sessualità e fecondità umana" s.a. (1991) n. 3,
[45] M.
BUBER, Ich und Du, op. cit., 17-18. Evidentemente qui è in gioco un
concetto del "tu" come altro, diverso da me eppure a me simile.
L'espressione dell'essere umano come incontro si trova anche in K. BARTH, Dogmatique, X, Labor et Fides,
Genéve, 268: "Il vero 'io sono',
l'io sono' possessore di un contenuto in ultima istanza significa: io
sono in un in contro". Sul concetto di alterità cfr. F. CASSANO, Approssimazione.
Esercizi di esperienza dell'altro, Il Mulino, Bologna 1989.
[46]Cfr.
A. RIZZI, Per un pensiero dell'esodo: eticità ed alterità, in A. RIZZI, L'europa
e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline,
Cinisello B., 1991, 56-85.