Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Prolusione ai corsi estivi di Camigliatello - Sila 20/7/98

Una storia di salvezza che passa attraverso l'oggi della nostra storia di popolo di Dio (Prolegomeni teologici come contestualità complessiva dei corsi di formazione).

Introduzione

Prendiamo l'avvio dal titolo dell'ultimo libro di G. Lohfink: "Dio ha bisogno della Chiesa?" (Braucht Gott die Kirche? Zur Theologie des Volkes Gottes, Herder, Freiburg 1998).

È una domanda volutamente provocatoria, ben più radicale di quella che lo stesso autore sollevava 16 anni fa, nel suo libro intitolato: "Gesù come ha voluto la sua comunità?".

La domanda si presenta con una formulazione radicale, alla quale la risposta è comunque positiva e ben più rassicurante di quanto voglia far apparire il titolo. La risposta suona: Dio ha bisogno di una Chiesa, perché vuole la salvezza del mondo e “la salvezza del mondo ha bisogno di un luogo concreto” (p. 43). L'autore, esemplificando alquanto la storia e riducendo ogni possibile rivoluzione umana all'unica rivoluzione violenta del marxismo-leninismo, continua dicendo che ogni rivoluzione richiede tre presupposti: a) il dominio delle masse; b) il rapido capovolgimento della situazione sociale; c) l'impiego esplicito e diretto della violenza. Ciò significa che il problema principale di tutti i rivoluzionari è un problema di tempo: nel corso di una vita umana - pur sempre relativamente breve - devono operare trasformazioni sociali immani, per le quali si richiederebbe molto più tempo. Da qui l'indispensabile ricorso alla violenza.

Ma cosa succede con Dio? Dato per presupposto che anch'egli voglia una trasformazione radicale di tutto il mondo, giacché “il bisogno del mondo grida fino al cielo” (p. 45), l'intento di Dio è di raggiungere quest'obiettivo, senza sottrarre la libertà agli uomini. Egli, però, a differenza degli uomini, non subisce le limitatezze del tempo. Può pertanto cambiare il mondo iniziando dal piccolo e facendo crescere gradatamente il processo: “Può soltanto accadere in questo modo: che Dio inizi in maniera minimale (klein), che egli cominci da un singolo luogo del mondo. Ci deve essere un luogo, visibile, manifesto, verificabile, in cui ha inizio la salvezza (Erlösung) del mondo - cioè dove il mondo diventi ciò che esso deve essere nel senso di Dio. Da questo luogo il nuovo può dilatarsi” (45).

La citazione sembra essere una buona sintesi non tanto dell'ultima opera dalla quale siamo partiti, ma della precomprensione teologica, oltre che sociologica, più generale dalla quale muove l'autore e nella quale egli rischia di restare imprigionato. È la concezione che qualsiasi tipo di teologia riconducibile ad una seria assunzione della prassi potrebbe facilmente accusare di spiritualismo. Volendo, troverebbe anche ulteriori conferme in frasi come quella seguente, che recita: “È chiaro: questo cambiamento del mondo deve iniziare nell'uomo. Ma non proprio in quanto egli, con un eroico sforzo in avanti, tenti di fare di sé il luogo di un mondo nuovo e trasformato, bensì in quanto egli ascolti Dio, si apra a lui e lasci agire lo stesso Dio” (ivi).

A prima vista potrebbe sembrare il solito refrain, ben noto a quanti si dedicano a un cambiamento più storicizzato dell'agire salvifico, che si sentono puntualmente ripetere: “Per cambiare le strutture sociali, occorre cambiare i cuori” e parallelamente: “Per cambiare la Chiesa, bisogna cambiare se stessi”. C'è del vero, che sembra persino ovvio, in affermazioni del genere. Chi può negare che per cambiare il mondo e la Chiesa deve diventare più santo. Il problema è solo: quando, dove e come ci saranno questi santi. Se, del resto, il tutto non si può risolvere a uno sforzo eroico dell'uomo, che cosa vuol dire ascoltare e assecondare l'agire di Dio? Forse che proprio ciò non è in qualche modo eroico, o almeno controcorrente? Ed inoltre: come può un'impostazione prettamente individualistica - seppure di un individualismo salvifico autentico - fare il salto verso un'impostazione di natura storico-sociale, potremmo dire strutturale, verso quella che anche le encicliche sociali, e l'insegnamento sociale della Chiesa ormai danno per scontata come valida sul piano dottrinale?

Si rinviene qualcosa di più convincente, ma che merita di essere esaminato più criticamente, lì dove, passando dal piano più ideo-teologico a quello più biblico, si afferma che il luogo concreto in cui la storia della salvezza di Dio ricomincia dal piccolo è Israele, che attraverso la vicenda di Abramo rappresenta come il controcanto, di quel primo canto dei capitoli precedenti della Genesi che narrano l'iniziativa salvifica universale di Dio e il suo fallimento, a motivo della ribellione dell'umanità, simbolizzata attraverso quella di Adamo, Caino, la torre di Babele.

E tuttavia proprio questa considerazione ci obbliga a qualche puntualizzazione ecclesiologica che prenda la teologia del popolo di Dio non a pretesto per  identificazioni che rischiano il cortocircuito delle proprie autolegittimazioni, ma come sfida e protesta per una universalità non solo di intenti, ma anche di prassi.

Per l'uso che siamo chiamati a farne noi, esse si possono ricondurre ad alcune linee maestre che per brevità dovremo contenere negli enunciati seguenti:

1) Dio non "ha bisogno" di una Chiesa, è la Chiesa, che per essere tale, ha indispensabile bisogno di richiamarsi al Dio della rivelazione;

2) La Chiesa in quanto popolo di Dio è un popolo che non progetta se stesso, ma asseconda il progetto di Dio per la salvezza del mondo;

3) Il progetto di Dio nelle acquisizioni magisteriali e nella loro fattibilità pastorale.

 

1) Dio non "ha bisogno" di una Chiesa, è la Chiesa, che per essere tale, ha indispensabile bisogno di richiamarsi al Dio della rivelazione

La tesi lascia affiorare due dati irrinunciabili della teologia cristiana, prima ancora che conciliare. Il primo riguarda l'assoluta trascendenza e libertà di Dio. Essa rimane tale, anche quando Dio avesse scelto (come è avvenuto di fatto) un popolo ben preciso, che è luogo nel quale egli porta normalmente a compimento le sue promesse e il suo piano salvifico.

Affermare che Dio si è tanto legato ad un popolo, da aver comunque bisogno di esso per compiere il suo progetto, è affermare qualcosa che disturba il principio della sovranità di Dio. Di contro, si deve sempre poter dire che la salvezza segue da vicino Colui che è ne l'artefice. Dio può salvare e di fatto salva chi vuole, anche al di là della strutturazione storico-sociologica di un popolo quale quello vetero-neotestamentario. È dottrina cattolica ormai consolidata quella che con il Vaticano II formula: “quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salute eterna” [1].

Certamente nessuno contesterebbe formalmente questo principio, che del resto è ben fondato nella tradizione della Chiesa cattolica. Nei fatti però l'accentuazione apologetica o parenetica, o pubblicistica, che dir si voglia, del bisogno di Dio di una Chiesa per salvare "gli uomini" (anche se alcuni autori preferiscono parlare del mondo, ma c'è poi una vera differenza?) estenua la forza dottrinale dell'assunto.

La seconda parte della nostra tesi sembra anch'essa affermare un principio scontato. Per buona parte lo è. Non occorre però dimenticarlo o presupporlo eccessivamente. Così come non bisogna mai dimenticare la sovrana libertà di Dio, non occorre mai dimenticare la dipendenza costitutiva della Chiesa da Dio stesso. Non da un Dio qualsiasi, né dal Dio antecedente alla rivelazione compiuta in Gesù, ma dal Dio Uni-trinitario. Il popolo di Dio prima ancora che struttura storico-sociologica è entità teologica e per questo - indispensabilmente - è anche la seconda e non viceversa. Ma ciò comporta già la formulazione del secondo punto fermo al quale facevamo riferimento.

2) La Chiesa in quanto popolo di Dio è un popolo che non progetta se stesso, ma asseconda il progetto di Dio per la salvezza del mondo.

L'assunto vuol indicare da un lato la non accidentalità della formulazione della Chiesa come popolo di Dio, ma la sua connotazione teologica. Si tratta non di una metafora tra le altre, né di una cifra linguistica o di un codice tra gli altri codici, come si trova in qualche trattato di ecclesiologia ad indirizzo pastorale[2]. Si tratta di una vera e propria categoria teologica indicante la realtà ecclesiale nella sua espressione storico-sociale. Ciò fa uscire l'ecclesiologia dalle strettoie di una concezione spiritualistica che distingue fino a separarle la dimensione spirituale da quella sociale, quella personale da quella politica, quella privata da quella pubblica.

In quanto popolo della Unitrinità di Dio, comunità da essa convocata e in essa sussistente, si può cercare un qualche supplemento di approfondimento del famoso dettato conciliare che indica la Chiesa di Cristo come sussistente in quella cattolica. La frase può essere intesa, in un senso pleniore che non vuole tirare il testo, ma vuole collegare le origini dell'ekklesìa alle sue radici unitrinitarie, secondo questa linea di approfondimento: la Chiesa, in quanto popolo di Dio, al quale sono congiunte in maniera graduale le altre chiese e al quale sono orientate le altre religioni, sussiste nella Chiesa cattolica come luogo che fa indispensabile, irrinunciabile e continuo riferimento alle sue radici, nelle quali essa sussiste. La Chiesa sussiste nell'Unitrinità come alveo ed orizzonte della comunione delle diversità e dell'apertura e del dono di sé all'umanità.

L'Unitrinità divina si è manifestata con una sua storia nei confronti del suo popolo. L'Unigenito Figlio di Dio ha realizzato formalmente e compiutamente l'agire divino verso gli uomini e la loro storia. Il popolo di Dio non può che assecondare tale progetto. Se è vero che, ancora secondo G. Lohfink, non si possono fissare in maniera rigida le modalità della Chiesa, sì da indicare come Gesù vorrebbe oggi o in futuro la sua comunità, è altrettanto irrinunciabile individuare, oltre alla sua struttura di base (gerarchico-sacramentale e kerygmatico-dottrinale) anche le linee orientative dell'agire pastorale. Ciò per conformità non alle situazioni del tempo di Gesù, diverse ovviamente dalle nostre, ma per sintonizzare qualsiasi agire della Chiesa, in qualsivoglia epoca, agli intendimenti di Gesù. Del resto solo essi sono esemplarmente indicativi dell'agire di Dio nei confronti degli uomini.

Da ciò deriva il fatto che la Chiesa non vive per se stessa, ma per la salvezza del mondo. Non può progettarsi in maniera introversa, ma estroversa. La sua missione, non è indottrinamento e proselitismo, ma indicazione dell'agire più grande e sempre gratuito di Dio tra gli uomini di ogni epoca e di ogni luogo della terra. la verifica dell'autenticità della missione passa attraverso la forza profetica e liberante con la quale la Chiesa annuncia il vangelo e attraverso il suo costante richiamo all'agire di Gesù come determinante per il proprio agire.

3) Il progetto di Dio nelle acquisizioni magisteriali e nella loro fattibilità pastorale.

La seconda tesi da noi enunciata porta a quest'ultima, attraverso una considerazione previa sulla natura e sul valore delle acquisizioni magisteriali come momenti privilegiati (veri e propri kairòi) di questo continuo e indispensabile riferimento che la popolo di Dio deve avere verso l'agire di Gesù come agire paradigmatico dell'agire dell'Unitrinità verso la Chiesa e verso il mondo.

La contestualità generale nella quale si colloca la nostra riflessione teologica non solo non può ignorare, ma deve recepire ed approfondire tali momenti come momenti impegnativi per tutti. Ciò si richiede anche per uscire da una sorta di individualismo pastorale diffuso, al quale possono abbandonarsi e di fatto si abbandonano, singoli e gruppi, movimenti ed esperienze ecclesiali, che se proclamano una comunione negli intendi, non la perseguono nei fatti. Una frase rivelativa di tale modo di vivere la comunione solo come autogratificazione o legittimazione: “Il Papa è con noi, il vescovo è con noi”. Può essere anche vero. Ma il vero problema è una altro. La vera domanda è: “Fino a che punto e con quanta lealtà io, noi siamo con il papa e con i vescovi?”.

Un ultimo accenno merita, per il nostro contesto regionale, del resto indicativo anche per il Meridione d'Italia, la recente esortazione pastorale dopo il convegno di "Paola 3". Il testo traccia delle linee pastorali progettuali, che non devono essere snobbate come generiche e non obbliganti. Esse sono formulazioni di orientamenti chiari in consonanza con l'agire di Gesù. Sono da approfondire anche come indicazioni pastorali oltre che teologiche. Rimandano comunque alla necessaria ed indispensabile saldatura alla ecclesialità come dono gratuito di Dio, che coinvolge, in un dialogo d'amore che spinge a donarsi fattivamente, costruttivamente, anche per gli altri. Non in maniera declamatoria e generica, ma con gesti che siano di spinta all'autopropulsione ed autorealizzazione, con una tenacia che deve vincere le nostre insicurezze e deve rendere l'agire costante e capace di continue verifiche, da operare con discernimento, progettando la cultura di Dio. Meglio: progettando la cultura dell'Unitrinità espressa dall'agire di Gesù, cioè l'agire che soccorre ed aiuta, cura e rimette in piedi, non ha paura dei potenti e delle loro minacce. È un agire che chiama alla festa, facendoci vincere la nostra tendenza all'autocommiserazione, ma è anche un agire che progetta e che richiede l'aiuto dell'intero popolo di Dio. Si tratta di progetti, dei quali alcuni stanno vedendo la luce, come questi nostri corsi estivi, altri dovranno essere ancora ulteriormente elaborati (come l'Iistituto di Pastorale e ciò che ne consegue, gli itinerari formativi ecc.). Sono comunque progetti che si comincia a condividere solo se non li si snobba in partenza e non li si accusa di genericità. Del resto ciascuno è chiamato ad essere più concreto nel contesto di linee progettuali più ampie. Per chi crede all'amore, l'amore non è mai generico.



[1]LG 16, EV/1 326.

 

[2] Cf. J. van der Ven, Kontextuelle Ekklesiologie, Patmos Verlag, Düsseldorf 1995.