Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Cultura mafiosa: rassegnarsi o reagire? Conferenza tenuta a Locri il 25.3.1991

0. Introduzione

Il 3.4.1986 Massimo Nava scriveva da Locri per Il Corriere della sera che il controllo del territorio è completamente nelle mani della mafia sia per ciò che riguarda la gestione del potere che per l’organizzazione del tempo libero e delle feste, ed aggiungeva:

«Anche la Chiesa, da queste parti, risente di una tradizione che dà al termine “’ndrangheta” l’antico significato di “uomo forte e valoroso”. I segnali di impegno civile sono ancora deboli, soprattutto nei piccoli centri dove non è arrivata l’eco di: omelie antimafia pronunciate da qualche vescovo. La Chiesa in Calabria sembra andare di pari passo con la classe politica: tentativi ancora timidi ed incerti di voltare pagina».

L’analisi di Nava non trascurava qualche elemento positivo. Accennava alla sensibilità giovanile contro un fenomeno così atavico, ma il suo articolo lasciava nel lettore l’impressione di una realtà completamente allo sbando, anche perché all’insegna della tesi «La Calabria non esiste». Diceva proprio così: «Non esiste come identità collettiva, come presenza fisica delle istituzioni, come dimensione della vita civile normale». (Il Corriere della sera 1/4/1986).

Dalla Pasqua del 1986 (Nava scriveva nella settimana della Pasqua) sono passati 5 anni. All’articolo di Nava qualcuno ha reagito, mettendo in luce alcune sue (e non solo sue) pericolose generalizzazioni che inducono più al pessimismo e alla rassegnazione che alla matura reazione. Anch’io avevo reagito pubblicando uno studio su La Rivista del clero italiano (1987/2).

Quella mia reazione immediata era dovuta non a campanilismo, ma a una valutazione critica, che invito tutti ad attivare anche verso gli inviati speciali e i servizi di quotidiani che passano tra i più equilibrati e obiettivi. Ciò che non convinceva e non convince tuttora in alcuni di quei giornali e in non pochi servizi radio-televisivi è l’insistenza sulla Calabria come terra di primati negativi. A noi che continuiamo a vivere in Calabria per scelta e non per fatalità, la nostra regione appare non già “isola di infelicità” o pura e semplice colonia della mafia, ma terra con tante problemi e tuttavia con tante risorse e non pochi e preziosi valori.

Partiamo da un presupposto diverso da quello di chi viene, fotografa, ascolta (quando ascolta) e poi ritiene di aver capito tutto e pertanto scrive e scrive. Chi vuole condurre un minimo di analisi aderente alla realtà, e non funzionale all’umore dei suoi lettori o agli orientamenti di chi paga i suoi servizi, deve tenere nella giusta considerazione le persone e non solo le strutture, le speranze, gli atti di coraggio, oltre che le rinunce motivate dalla paura, di quanti vivono in Calabria. Non bisogna dimenticare che oltre a tutto ciò, tra i giovani calabresi si va estendendo la volontà di restare, per cambiare. Una volontà che è contemporaneamente un lottare per restare e un restare per lottare.

Riteniamo tuttora valido questo programma di vita e siamo ben lieti di condividerlo con chi, pur non essendo nato tra le nostre montagne o lungo i pendii delle nostre fiumare, viene a trovarci non solo per giudicarci e partire al più presto possibile, ma per trascorrere un periodo della sua vita proprio quaggiù. Quaggiù, dove Cristo, checché ne dica Carlo Levi, è arrivato e ancora arriva con i segni di indicibili sofferenze, ma anche con tanta speranza e tanta volontà di cambiamento. Da questo programma dobbiamo tutti ripartire, cioè da un programma, che sa scegliere di restare qui e adesso, non piegandosi davanti alla mafia, che, è vero, in alcuni casi si fa avanti con i suoi protettori e padrini. Ma non piegandosi nemmeno ai nuovi padroni, che si presentano invece con le allettanti promesse di un benessere solo economico e di una felicità illusoria quanto inconsistente. Ci riferiamo ai miti del consumismo, dell’individualismo e di quant’altro insegna che per farsi strada bisogna rinnegare anche le proprie radici e rinunciare ai propri valori.

Pensiamo che occorra partire, invece, dalla ricchezza umana che contraddistingue uomini e donne, non artefici, ma vittime del degrado e della mafia. Tra loro ci sono quanti a motivo della mafia hanno perso congiunti e amici. Non hanno però venduto la loro anima e nemmeno i loro sogni di un Calabria diversa, sebbene alcune volte possano destare l’impressione di andare avanti anche contro ogni speranza.

Nonostante quei meccanismi, che sono stati individuati tra l’innovazione sradicante e la ripetitività alienante, la Calabria oggi è attraversata anche da sussulti che pur essendo innovativi, non rinnegano le proprie radici. Sono realtà culturali, ecclesiali e sociali che, aprendosi strada a cuneo tra queste due forze, sono piccoli segnali, anche se minoranze irriducibili, quasi staffette profetiche di un futuro qualitativamente nuovo per la nostra terra. Da questi segnali oggi intendiamo ripartire, facendo memoria storica di alcune intuizioni passate, che restano per noi di grande attualità.

Ciò significa per noi individuare e potenziare al massimo delle nostre capacità una cultura di solidarietà positiva e costruttiva, a fronte a contro una solidarietà nel male, quella mafiosa del privilegio e del clientelismo, riscoprendo il valore del popolo come soggetto ecclesiale, culturale e politico e dedicandoci a una costruzione della pace tra denuncia profetica e annuncio testimoniale, per percorrere un cammino di liberazione.


1) Partire dal popolo come soggetto

«Troppo spesso la parola ‘pace’ l’hanno usata i potenti. Nella loro bocca ha un significato equivoco. È necessario ricercare una pace che parta dal Popolo, che veda protagonisti tutti coloro che hanno fame-e sete della giustizia, che sono oppressi e divisi, sfruttati e derisi».

Ricordando queste parole della Lettera ai costruttori di pace, scaturita dall’incontro internazionale di Pax Christi in Calabria nell’estate del 1977, ci riferiamo al “popolo” come realtà concreta e radicata, che conosciamo personalmente dalla nostra esperienza. Per i credenti in Cristo, si tratta di un popolo che non è semplice dato sociologico, ma è la Chiesa stessa, cioè il popolo di Dio. I partecipanti all’incontro, provenienti da tutta l’Europa, ne avevano apprezzato la ricchezza umana, la tenacia, la spiritualità profonda.

Si può parlare di questo popolo in cui siamo e che noi stessi costituiamo come di un vero e proprio soggetto storico. Vale a dire: di un insieme di persone che, riscoprendo le comuni radici e il comune obiettivo, cominciano a lavorare con una progettualità comune. Nella fede sappiamo che tale progetto non può che assecondare quel piano di Dio avviato a realizzazione da Gesù, un piano che si mostra come il regno di Dio già iniziato sulla terra. Le sue caratteristiche, infatti, si disegnano secondo le Beatitudini, che coniugata la pace con la giustizia, la solidarietà con il conseguimento della propria felicità. È il regno che realizza la liberazione degli oppressi, l’annuncio del Vangelo ai poveri, la preferenza dei derelitti. Entrare in questo progetto è fare storia. La storia è iniziata, sorretta, accompagnata da Dio perché egli rimane autore della salvezza. I pensieri di Dio sono pensieri di pace, la sua volontà si deve compiere, il suo progetto si deve realizzare. Eppure tutto questo è affidato anche alla nostra preghiera, alle nostre mani, al nostro cuore. Non per nulla Gesù ci fa pregare perché venga il Regno e la volontà del Padre si compia. Perciò Gesù chiama beati gli operatori di pace, gli assetati e affamati per la giustizia, i miti ed i mansueti, i perseguitati per la stessa causa.

La progettualità del Regno passa trasversalmente alla nostra progettualità. Il popolo di Dio, popolo che vive le Beatitudini, non può cessare di interrogarsi, come devo farlo chiunque voglia un mondo diverso. «Per chi cerchiamo, a favore di quale progetto lavoriamo?». Riteniamo tuttora valido quanto fu scritto allora in Calabria:

«La pace non solo un compito di politica internazionale, la si costruisce anche là dove un quartiere diventa partecipazione di popolo, là dove persone handicappate e non si adoperano per uno stesso progetto, là nove un paese isolato diventa comunità, là dove vivere un segno di fede e di Chiesa significa un cambiamento di rapporti fra la gente e la volontà che per tutti ci sia posto a una più grande festa» (Messaggio ai Costruttori di pace del 1988).

La costruzione di una pace del genere è certamente nell’ottica di quell’insegnamento che dice «Beati i costruttori di pace!». Lo è non solo per i contenuti, ma per i suoi soggetti e per i valori che questi portano. Le cose, ovviamente, non sono così semplici e certamente dobbiamo fare i conti con una realtà segnata dal peccato. È proprio questo peccato che occorre superare, prendendone coscienza, denunciandolo ed evitandolo perché esso si esprime in molteplici forme. È peccato individuale, ma anche sociale, personale e strutturale nello stesso tempo.

2 La mafia come peccato sociale e struttura antisolidale

2.1 Caduta nel peccato come atto di de-vianza teologale

Il peccato rappresenta una vera e propria caduta dell’uomo. Qui parliamo del peccato come frattura. Una frattura che si consuma all’interno dell’animo umano e all’esterno di sé, in quella rete relazionale che ne sorregge l’esistenza. Il peccato ritarda l’umanizzazione della storia e il suo ascensionale cammino verso la pienezza del Regno. L’uomo smarrisce se stesso e il suo posto nel mondo e nella storia. Con il peccato anche il futuro e la capacità di guardare in avanti vengono messi seriamente in pericolo. Viene compromessa la realizzazione di quell’amore senza cui l’uomo non può vivere:

«L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non la fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor hominis, n. 10.).

La dimensione umana e la dimensione divina del mistero della redenzione sono già nella prima enciclica di Giovannei Paolo II, Redemptor hominis. Sono due aspetti non disgiunti, ma profondamente uniti, sicché attraverso la redenzione la realtà storico-sociale dell’uomo è svelata a se stessa:

«Questa è, se cosi è lecito esprimersi, la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità, il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente “espresso” e, in qualche modo, è nuovamente creato» (ivi, n. 10).

La redenzione attraversa infatti tutti i livelli dell’umano, passando per i rapporti interpersonali. L’enciclica li riassume in un lungo inciso con queste parole:

“L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale - nell’ambito della propria famiglia, nell’ambito di società e di contesti tanto diversi, nell’ambito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell’ambito di tutta l’umanità quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della redenzione»[1]

Si tratta dei senso dell’uomo nel mondo e più in generale nella storia. Anche in quest’ambito il peccato non aveva solo incrinato i rapporti del singolo con la comunità, aveva fatto cadere il presupposto della stessa riferibilità del singolo all’insieme, dell’io al tu , dell’uno e dell’altro al noi.

La interrelazionalità umana, la stessa comunicazione e la solidarietà sono pregiudizialmente compromesse dal peccato , che come ci insegna la Sollicitudo rei socialis, si va strutturando come male non solo diffuso, ma anche in determinazioni storiche, che Giovanni Paolo II non esita a chiamare «strutture di peccato»[2]. Non a partire dalla sociologia, ma prendendo sul serio la teologia, la miseria delle grandi masse è vista come una situazione di peccato sociale, sicché si può parlare di un mistero di peccato da cui derivano tutte le forme di schiavitù, di oppressione, di ingiustizia[3].

A livello intermedio, di relazioni interpersonali, lo stesso peccato presente negli altri livelli, si manifesta come disordine, egoismo, corruzione, parossismo del sé e della sesso, in quanto centreità dell’io, e conseguente superficialità nelle relazioni umane [4].

Si afferma anche che il peccato impregna la stessa cultura[5], facendone vedere il potenziale distruttivo a tutti i livelli. Con ciò si giustifica anche la nostra indicazione del peccato come autostrutturazione antisolidale del male.

2.2 L’autostrutturazione del male come atto antisolidale

Gli ultimi testi citati cui hanno fatto toccare con mano la dimensione esistenziale ed antropologica del peccato. Non è la singola esistenza umana ad esserne toccata. È l’esistente collocato nel mondo e nella storia. Entrambi portano le tracce e gli effetti della divisione umana. Il peccato ha una valenza sociale che si evidenzia nella storia dell’essere-con-gli-altri della persona umana. Un tale aspetto sociale non riguarda solo una lettura filosofica dell’uomo. È un fatto teologico e cade sotto la luce e il giudizio della Paola di Dio. In una visione più sistematica possiamo riprendere quanto già affermato altrove, dicendo che il peccato si concretizza come fatto sociale a un micro livello, a un meso livello e a un macro livello.

Al primo livello il peccato corrode i rapporti familiari, quelli all’interno di singoli gruppi o di differenti forme di vita e di esperienze comunitarie nelle quali l’esistenza del singolo è collocata. Anche queste realtà di relazione e di scambio hanno per loro natura un significato teologico. Possono essere ritenute espressioni di un’ecclesialità in fieri, in fase di realizzazione. Della famiglia si dice chiaramente che è «chiesa domestica», mentre comunità e gruppi sono forme attuative di comunità ecclesiali particolari. Si tratta di espressioni della chiesa locale, cioè di forme di vita del popolo di Dio a tutti gli effetti.

C’è poi un secondo livello investito dall’ecclesialità e conseguentemente dal peccato strutturale. Per questo si parla di dimensione sociale del peccato. Ci riferiamo a strutture più ampie del primo livello. Sono quelle interfamiliari, sociali, con le quali le microstrutture sono a immediato contatto: la scuola, la parrocchia, i vari movimenti, le diverse organizzazioni. Anche questo secondo livello di socialità è interessato dal peccato, che crea tensioni e divisioni, in molte forme e secondo diverse intensità, toccando, come dicevamo, l’ecclesialità, per la parte in cui tali forme associativa sono espressione di questa.

A livello più generale, che si può chiamare macroscopico, il peccato è presente nelle forme di ingiustizia e di soppressione che popoli interi o interi blocchi praticano su altri popoli. Il peccato è davvero qualcosa di sociale. Non è solo un fatto di interpretazione filosofico-teologica. È un fatto politico. Ce ne parlavano i Vescovi latino-americani a Puebla nel 1979:

«Vediamo alla luce della fede come uno scandalo e come una contraddizione con il fatto di essere cristiani il crescente distacco fra ricchi e poveri. Il lusso dei pochi si trasforma in insulto contro la miseria delle grandi masse (...) Questo è contrario la piano del creatore e all’onore che gli è dovuto. In quest’angoscia e dolore, la chiesa vede una situazione di peccato sociale di gravità tanto maggiore, in quanto di verifica in paesi che si definiscono Cattolici e che avrebbero la capacità di cambiare»[6].

Se nel mistero del Verbo incarnato trova piena luce il mistero dell’uomo, si potrebbe anche affermare che nel mistero della redenzione trova piena luce il mistero della liberazione, in una storia e in una società pienamente liberate. Di conseguenza la Chiesa scopre la presenza del peccato e le tracce della redenzione operanti tuttora nel mondo. Addita nel peccato la causa prima dell’intima divisione dell’uomo nella stessa struttura della persona e nei rapporti interpersonali[7]. Lo vede ancora all’opera nelle minacce incombenti sulla società e sull’intera umanità, e ciò genera ed estende l’angoscia.

Scriveva ancora Giovanni Paolo II

“L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione dalla sua genialità e della sua iniziativa, possono essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo sembrano impallidire[8].

Sono passate in rassegna alcune forme sociali e storiche di tale peccato, che Giovanni Paolo II chiamerà più tardi «strutture di peccato»: la mancanza di una «razionale e onesta pianificazione» dello sfruttamento della terra, l’incontrollato e sconsiderato impiego delle risorse a scopi militari, l’assenza di altri significati delle stesso ambiente naturale all’infuori di «quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo» e, in generale il decadimento di una contestualità etica in cui valutare lo stesso progresso [9]. Non suscitano sorpresa allora le denunce che seguono:

«È, infatti, ben noto scriveva ancora il papa il quadro della civiltà consumistica, che consiste in un certo eccesso dei beni necessari all’uomo, alle società intere e qui si tratta proprio delle società ricche e molto sviluppate, mentre le rimanenti società, almeno larghi strati di esse, soffrono la fame, e molte persone muoiono ogni giorno di denutrizione e di inedia»[10].

Ma in tal modo si consuma anche un peccato: quello dell’indifferenza dinanzi al Cristo affamato e assetato. Le parole di Cristo nella scena del giudizio (Mt 25) sono parole che smascherano il peccato dell’egoismo, che diventa struttura peccaminosa:

«Queste parole acquistano una maggiore carica ammonitrice, se pensiamo che, invece del pane e dell’aiuto culturale ai nuovi stati a nazioni che si stanno destando alla vita indipendente, vengono offerte, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione, posti a servizio di conflitti armati e di guerre che non sono tanto un’esigenza della difesa dei loro giusti diritti e della loro sovranità, quanto piuttosto di una forma di sciovinismo, di imperialismo, di neocolonialismo di vario genere»[11].

Ma in questo contesto, mi si consenta di aggiungere che anche la Calabria ha i suoi peccati strutturali, oltre ad avere le sue potenzialità positive e i suoi valori. Ha giuste aspirazioni di giustizia e di sviluppo, alle quali si risponde, purtroppo, non con strutture di solidarietà, ma con quelle che il Papa chiama «strutture di peccato»: la militarizzazione e le varie forme di imperialismo e di neocolonialismo, da lui espressamente menzionate[12].

3 la redenzione come nuovo patto di solidarietà interumana.

«Ci ha fatto conoscere il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,9-10)

Da quanto si è detto appare chiaro che il peccato è una realtà umana la cui malizia, però, risulta essere un rapporto interpersonale disatteso o deformato, miscosciuto o tradito. È un rapporto che tocca gli altri uomini come persone libere e responsabili, ma tocca anche Dio. I documenti magisteriali già citati partono dal presupposto che «in realtà solamente nel mistero del verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo»[13].

È questa la dimensione cristologica della nostra riflessione sull’uomo. Essa riguarda la risalita dal peccato e la salvezza dell’uomo stesso. Non di meno appare però già nella prima parte della riflessione come un bisogno ineluttabile nel momento in cui si vuol superare una visione puramente antropologica della realtà del peccato. Riassumendo, infatti, la descrizione dell’uomo come persona, soggetto decisionale e quindi libero ci ha fatto capire la realtà del peccato come disordine e rottura di una relazione originaria con se stesso e con gli altri. Le conseguenze teologiche coincidono con quelle indicate nel testo La riconciliazione e la penitenza. Il documento parla dell’intima scissione dell’uomo come radice del peccato e al n. 8 afferma:

«Chi si lascia guidare dalla Parola di Dio non tarderà a riconoscere che questa radice è il peccato: non un male qualsiasi, di natura puramente psicologica o sociale, ma il peccato, cioè un atto malvagio che l’uomo compie liberamente davanti a Dio e contro Dio, rifiutando il suo amore».

Ma ciò significa anche che la redenzione ristabilisce tutti i riferimenti interumani, dato che l’amore stesso è l’unico e imprescindibile valore nella vicenda umano-sociale, che è la vicenda di una società che cammina nella storia e costruisce la storia. La redenzione passa attraverso tutti i piani che il peccato aveva sfaldato. Attraverso di essa siamo infatti riconciliati con noi stessi, con la nostra costituzione più intima, con il nostro mistero e diventiamo così capaci di scorgere il mistero che è nell’altro. Per questa ragione si può parlare di aspetto personale e di aspetto sociale dell’unico e indissolubile mistero della redenzione.

3.1  Aspetto personale della redenzione come liberazione

In una visione dialogica del rapporto tra l’uomo e Dio, alla caduta dell’uomo corrisponde però un’ulteriore offerta di salvezza da parte di Dio. All’espressione malvagia della libertà umana segue l’espressione salvifica di una libertà divina che riabilita l’uomo a vivere ordinatamente la sua interpersonalità nei vari livelli sociali già considerati. L’ordine non è naturalmente di carattere meramente cosmologico, né è espressione del fato o una necessità mitologica. È solo l’espressione di un progetto d’amore, di un patto amichevole tra Dio e l’uomo. L’uomo vive ordinatamente, quando risponde a quest’offerta di interpersonalità. L’uomo e Dio sono soggetti di un’alleanza che, una volta caduta, per colpa dell’uomo, viene ad essere qualitativamente e definitivamente recuperata attraverso la persona di Cristo. In lui, Dio-uomo, il dialogo uomo-Dio non solo si realizza, ma fonda ogni altra possibilità di dialogo. Gesù Cristo appare egli stesso come alleanza, offerta per ridare senso e significato all’esistenza umana e a tutto ciò che costituisce la rete interrelazionale degli uomini nella storia. Perso infatti ogni senso a causa del peccato, l’uomo sarebbe caduto nell’insignificanza e nel non-senso più radicale se non fosse stato salvato dalla parola di Dio venuta sulla terra. La sua reificazione, quella di uno diventato egli stesso cosa tra le cose, in balia di un destino che presto lo avrebbe buttato tra i relitti di ciò che fu, è stata superata dalla redenzione liberante di Cristo, che lo ha riportato alla sua originaria dignità di partner di Dio. Nel mistero del Verbo incarnato viene pertanto restaurata la capacità relazionale dell’uomo, la possibilità stessa di parlare con il suo mistero e di scoprirlo, di incontrare Dio e di ritrovare se stesso negli altri. In Dio, ritrovato come persona, l’uomo si riscopre soggetto nell’offerta d’amore di Lui, che lo chiama all’amore. Così l’uomo ridiventa capace di amare.

Ne deriva che quando parliamo di salvezza, intendiamo questo recupero del senso dell’uomo. Ci diventa possibile una ri-definizione dell’uomo in relazione, perché la sua salvezza è liberazione dal suo non-senso più radicale. Ma tutto ciò avviene in Cristo, che è il senso che Dio dà al mondo e all’uomo. All’uomo viene restituita e ampliata la pienezza di senso rispetto a tutte le cose, nel rapporto con gli altri. Il suo posto ridiventa comprensibile sia nel cosmo che nella storia e nella società.

Se il peccato è caduta di senso dell’uomo in tutte le sue dimensioni, in quanto peccato strutturale, la redenzione in Cristo ne è la riabilitazione. Se il peccato è rottura del dialogo dell’uomo con l’unica Persona capace di definire la sua umanità, la redenzione di Cristo è riallacciamento di tale dialogo. Se il peccato infine è caduta nel non senso o nella finitudine più insuperabile, nella morte, la salvezza di Cristo è al contrario recupero di tale finitudine e, attraverso la morte, è vittoria sulla morte stessa. Gesù Cristo è dunque la pace e la riconciliazione, come giustamente titolava il numero 19 del documento La riconciliazione e la penitenza. È pace e riconciliazione perché ci libera dalla schiavitù del peccato (cf. Gv 8,3-36), ristabilendo la nostra libertà e dignità di persone e ci chiama dalle tenebre della nostra caduta di senso alla sua luce ammirabile (cf. 1Pt 2,9).

3.2 Aspetto sociale della redenzione

Nella luce del Redentore l’uomo non riacquista solo il senso della sua esistenza, ma anche quello degli altri e della società in cui vive. Ciò avviene a livello di rapporti interpersonali, familiari o di gruppi primari (micro-livello); a livello di gruppi più ampli (meso-livello) e a livello di strutture sociali più complesse (macro-livello).Tutto ciò tocca, però, l’aspetto sociale della redenzione che è il risvolto liberante, positivo, della dimensione sociale del peccato. La redenzione è infatti una realtà sociale. Così come il peccato era una caduta sul piano ecclesiale, la salvezza è una reintegrazione allo stesso livello. Ne parlavano espressamente già le costituzioni apostoliche di Paolo VI Paenitemini[14] e Indulgentiarum doctrina[15]. Nella seconda si afferma:

«Regna tra gli uomini, per arcano e benigno mistero della divina volontà, una solidarietà soprannaturale, per cui il peccato di uno nuoce anche agli altri, così come la santità di uno apporta beneficio anche agli altri» [16].

Riprendono la stessa idea il nuovo Ordo penitentiae e il documento La riconciliazione e la penitenza che nel n. 24 distingueva i due aspetti dell’itinerario della penitenza tra quello personale e quello sociale. Nella stessa logica si muove la già citata Sollicitudo rei socialis. Nella prima parte si sofferma sugli effetti devastanti di una concezione complessiva della vita e del mondo in termini di liberismo mercantile, e quindi, sostanzialmente individualistici; mentre nella IV e nella V parte fa riferimento a un progetto globale di solidarietà teologicamente fondata.

In questo progetto hanno certamente un’importanza tutta particolare quei soggetti che erano le vittime del male in quanto autostrutturazione antisolidale. Si tratta dei poveri, dei miti, dei perseguitati per causa della giustizia, degli affamati e degli assetati di essa, dei misericordiosi, dei puri di cuori e dei costruttori di pace. Sono essi il popolo delle beatitudini e formano il Popolo di Dio della Nuova Alleanza.

A questo punto si solleva l’ultimo interrogativo, che è quello riguardante le forme effettive di liberazione dei poveri, che la Chiesa vuole perseguire. È l’argomento, il più difficile, affrontato nell’ultimo capitolo della II Istruzione sulla teologia della liberazione, intitolato «La Dottrina sociale della Chiesa per una prassi cristiana della liberazione»[17].

Qui non solo è recepito il concetto di liberazione nella sua densità teologica in linea di principio, ma è accostato anche al tema controverso e delicato della prassi. Riprendendo il tema dell’urgenza delle applicazioni pratiche della libertà e liberazione cristiana, viene delineato anche dalla Congregazione un cammino storico verso la liberazione, al quale partecipano non solo i singoli e i popoli ma l’intera creazione. Quanto alla prassi, non solo non è ripudiato come concetto, ma diventa argomento di quest’intero capitolo ed è senza dubbio un concetto mutuato dalla scienze sociali e non appartiene al patrimonio lessicale della Chiesa.

In una prassi cristiana di liberazione l’appello è a privilegiare le persone sulle strutture (n. 75)[18], a valorizzare adeguatamente il principio di solidarietà e di sussidiarietà (n. 73)[19], a praticare la via della nonviolenza, pur ammettendo come «estremo ricorso» l’insurrezione nei limiti già previsti dal Magistero (n. 78)[20], facendo opera di trasformazione culturale oltre che educativa (cfr. nn. 80; 93-94)[21] .

Sono indicazioni che integrano e sviluppano ulteriormente la cosiddetta Dottrina sociale della Chiesa, ma sono anche indicazioni che dimostrano la validità di quel metodo che vuole riflettere sulla società e sui suoi meccanismi, sulle forme di asservimento dell’uomo e sulla loro liberazione alla luce della parola di Dio e della Fede in Lui come liberatore degli oppressi. In un atteggiamento spirituale che ripensa a Maria come a colei tra trai poveri di Jahvè fu la più fedele a Dio e la più fedele al suo popolo: «Ella ci insegna dice l’Istruzione che è mediante la fede e nella fede che, sul suo esempio, il Popolo di Dio diventa capace di esprimere in parole e di tradurre nella vita il mistero del disegno della salvezza e le sue dimensioni liberatrici sul piano dell’esistenza individuale e sociale»[22].

Le conseguenze del discorso finora fatto sono la necessità di una nuova comprensione teologica. Ciò significa che se la mafia è peccato strutturale da denunciare e da combattere, ciò deve avvenire con motivazioni che oltre che civili sono anche teologiche. Vincendo le strutture sociali malvage, occorre infatti collaborare nella costruzione di strutture solidali che assecondino la redenzione. Infatti la redenzione è un nuovo patto di solidarietà interumana e come tale deve assorbire gli sforzi di quanti credono che Gesù ci ha liberati perché noi restassimo liberi (Gal 5,1). [Per le altre informazioni sui convegni ecclesiali e le conseguenze operative, vedi «Per una Calabria ‘diversa’». Riferimenti storico-ecclesiali, in La rivista del clero italiano 68 (1987/2) 100-116].

4 La redenzione come nuovo patto di solidarietà interumana,

(Conclusione riguardante alcune applicazioni operative riguardanti la nostra realtà ecclesiale calabrese)

Nell’Ottobre del 1978 ci fu in Calabria un avvenimento ecclesiale di notevole importanza: il primo convegno regionale ecclesiale postconciliare, un convegno che non aveva avuto uno simile dal 1896. La Chiesa calabrese si interrogò su “Le vie dell’evangelizzazione in Calabria” a Paola, dal 28.l0 all’ 1.11.1978. “Evangelizzazione e promozione umana” costituiva il binomio nel quale rientrava la progettualità conciliare di un rinnovamento dell’intera Chiesa italiana: un appuntamento al quale la Calabria non voleva mancare. Riprendendo concetti ormai acquisiti dal Magistero ufficiale, si sentì ribadire dai nostri vescovi: “Non esiste opposizione né separazione, ma complementarità tra evangelizzazione e progresso umano...l’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come una dimensione integrante della predicazione del Vangelo” [23].

Il soggetto apparve la Comunità, la cui consistenza teologica fu mutuata attraverso la terminologia conciliare di “popolo di Dio”, un popolo tanto vicino a quel “popolo delle beatitudini” e “popolo della pace”, di cui si era parlato anche nelle routes internazionali della Pax Christi in Calabria il 1977 e 1978. Monsignor Cantisani disse, nelle sue prime conclusioni sul Convegno: “Parlando di Chiesa come comunione, penso sia anche necessario parlare di comunione a livello regionale. E il nostro convegno è particolarmente importante proprio perché ‘regionale’ ...C’è di più, però. Non si potrà mai avere la liberazione della Calabria da ogni forma di sottosviluppo, dalle violenze occulte e non, se non siamo uniti, se non siamo un “noi”...se non siamo veramente popolo, perché è il popolo il vero protagonista della storia. È significativo che mentre si svolgeva il nostro convegno, 30.000 calabresi sfilavano per le vie di Roma per chiedere giustizia: tutta la nostra Chiesa era li presente” [24].

Il convegno di Paola ha avuto il merito di aver tentato un modo nuovo di incontrarsi, di discutere, di guardare al futuro. Si trattava sicuramente di una strada ardua, alla quale non eravamo né abituati, né preparati. Tuttavia fu un gesto coraggioso, al quale sta per seguirne un altro. A noi sembrò, tuttavia, un’occasione utilissima per prendere coscienza della nostra realtà di Chiesa che vive in Calabria per fare il punto sulla evangelizzazione e la promozione umana, che oggi chiamiamo “liberazione”. Sembrò quel convegno essere quello che più di ogni altro recepiva e rilanciava a livello regionale contenuti teologici ed itinerari ecclesiali di grande attualità. Per lo meno fu un tentativo serio di una lettura ecclesiale d’insieme, prima ancora della diocesanizzazione e della specializzazione dei vari gruppi e movimenti, che di lì a poco si andarono estendendo, in una molteplicità e diversificazione, che se spesso è salutata come una benedizione della Chiesa, non è però l’ottimale per quel progetto pastorale globale, che non può non rifarsi a scelte comuni e decisioni prese insieme, che tuttavia sono puntualmente da verificare, per ciò che riguarda le loro realizzazioni pratiche, perché appunto i convegni non restino solo dei bei convegni. Forse anche per la mancanza di tali impietose verifiche ogni movimento finisce con l’avere le sue priorità che sono decise altrove sia per l’impostazione generale, che per le scelte particolari. Non di rado succede che i gruppi ed anche i loro presbiteri abbiano progetti e responsabili che godono di una sorta di extraterritorialità ecclesiale con il rischio costante di una spiritualizzazione, che non è più capace di cogliere il valore teologico del popolo di Dio nella realtà storica e come soggetto culturale e politico oltre che ecclesiale.

Quanto ai contenuti, anche il convegno di Paola non lascia aditi a dubbi. Essi sono quelli che vanno nella direzione già vista e della storicizzazione dell’atto di fede come progettualità liberante, e si chiamano: conciliarità come prassi nuova nella gestione comunionale della Chiesa, primato dell’evangelizzazione, nella quale rientra la promozione umana, comunionalità come riferimento costante per ogni gruppo o attività settoriale, povertà come stile evangelico che ci fa rinunciare a forme di privilegio o a mezzi imponenti che offuscano l’annuncio. In ogni caso la Chiesa di Calabria sente oggi, come avvertì allora la necessità di fare scelta che la veda accanto agli emarginati e i senza voce, prendendo a cuore il destino degli umili e degli indifesi.

5 Tra denuncia profetica ed annuncio testimoniale

Dalle premesse poste, la Chiesa di Dio che vive in Calabria deve ripensare al suo impegno per una evangelizzazione liberante. Riprendendo termini, riassunti nella relazione finale del gruppo di studio “Fede ed impegno politico” di Paola 1978, conservano piena attualità affermazioni come queste: “È stata riconosciuta la necessità di una costante azione di denuncia profetica della Chiesa, più coraggiosa ed incisiva: questa diffusa esigenza rende evidente come le chiese locali in tutte le loro componenti, debbano disporsi a riassumere un atteggiamento di servizio e di distacco da compromessi con il potere. Tali considerazioni sono state accompagnate dal riconoscimento della vigile presenza dell’episcopato calabro sui principali problemi emergenti nella regione (mafia, lavoro, emigrazione)” [25].

La denuncia profetica, anche se frammentariamente ha riguardato e riguarda mali endemici antichi ed altri più recenti come la mafia “cancro esiziale e soprastruttura parassitaria che rode la nostra compagine ecclesiale; succhia con i taglieggiamenti il frutto di onesto lavoro; dissolve i gangli della vita civile; con sequestri, che non risparmiano più nemmeno le donne e i bambini, e con uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti e gli affetti più sacri della vita” (Messaggio dell’ episcopato calabro del 25.11.1979) [26]

Non manca la menzione delle cause incentrate sulla disoccupazione, sacca di miseria e disperazione sino al punto che, si aggiungeva nel messaggio: “questo terribile male trova i suoi adepti tra i molti giovani parcheggiati nella disoccupazione e nel precariato”. La realtà odierna registra purtroppo un peggioramento, mettendoci davanti alla brutalità e all’estensione del male, come nuovo patto antisolidale e mafioso, struttura peccaminosa, che si aggiunge alle altre già viste: egoismo di poche classi, abuso di potere e clientelismo, nuova colonizzazione e militarismo avanzante in tutto il Sud e anche in Calabria. Tutto ciò sembra essere abbinato a mali antichi, ma ancora corrosivi quali “un malcostume che porta allo sperpero del pubblico denaro e alla discriminazione nei confronti delle libere iniziative”, come diceva lo stesso appello, che menzionava anche quello ormai classico, divenuto vera favola nazionale, ma che, a rigore, non è solo della Calabria né solo del Sud: “un perdurante sistema clientelare nell’assegnazione dei contributi, del resto assolutamente insufficienti anche per i gravosi prelievi stabiliti dalla legge” [27]

Contro un tale patto di peccato, occorre rinnovare un patto di solidarietà e d’amore, perché vale oggi più che nel passato l’appello etico, che non giustifica nessun assenteismo. di cui parlavano allora i nostri Vescovi: “In un contesto povero come quello calabrese ogni pigrizia e ogni inadempienza a questo riguardo è grave colpa e, socialmente, un gravissimo errore. Il grido di chi è oppresso dalle ingiustizie e le lacrime di quanti soffrono o si trovano nel bisogno vanno considerati e compresi, prima che diventino esasperazione e minaccia di ribellione” [28].

A noi sembra di non essere lontani dal vero, se affermiamo che la strada indicata in quel messaggio, al quale sono seguiti anche altri, che non possiamo citare per ragioni di spazio, dovrebbe costituire la strada maestra sulla quale l’intera Chiesa calabrese dovrebbe camminare, sia per fedeltà alla Parola di Dio, che per fedeltà a quella stessa terra sulla quale ci troviamo. Ma la denuncia profetica richiede anche un annuncio testimoniale, in quanto evangelizzazione liberante, da vivere non solo a livello personale, ma anche a livello comunitario. Con coraggio, dobbiamo allora chiederci fino a che punto questo binomio è diventato prassi delle nostre parrocchie, nei nostri gruppi, oltre che nelle nostre scelte di vita individuali. Fino a che punto essere operatori di giustizia e di pace.

Ma la Chiesa di Calabria, nel suo insieme, per poter liberare deve ancora liberarsi di alcuni fardelli, di certi pregiudizi come di ataviche tendenze, che talora privilegiano ancora forme di collateralismo, mentre si va intensificando in questi ultimi anni una formazione che corre continuo pericolo di spiritualizzazione e di liturgismo. Ciò è molto riduttivo e suscita ‘impressione di voler esaurire la prassi cristiana alla sola attività della preghiera o nella creazione di una cultura alternativa a tutte le altre, e a queste, concorrente e rivale. Ciononostante, noi crediamo che un’inversione di tendenza sia possibile. Lo sarà nella misura in cui sapremo riscoprire la storicità del popolo di Dio e la sua permanente attualità. Per questa inversione di tendenza che esca dalle strettoie dell’intimismo e dell’etichettatura cristiana ad ogni costo, è necessario riconsiderare centrale la riflessione sulla Chiesa di questi nostri anni. Quella che fa tanto parlare di sé ed ha suscitato interventi autorevoli, che vogliono ben calibrarne la portata. Si tratta del tema della liberazione.

Dicevano che la Chiesa di Calabria deve essere fedele al suo progetto: “essere sempre segno e strumento d’amore”, non solo in una dichiarazione di principi, ma con la forza attinta alla santità, come suonavano le parole conclusive del convegno regionale del 1978, che rimandavano a S.Francesco di Paola come modello di servizio e di difesa dei poveri e dei deboli [29].

Può esserlo e deve esserlo. Lo sarà nella misura in cui si convertirà continuamente a ciò che essa è nella sua dimensione misterica più profonda: Chiesa di Cristo, segno e strumento di unione e di liberazione. Da questa premessa partiva anche la “Proposta di linee pastorali in vista degli anni novanta”, elaborava al termine dell’interessante Convegno Regionale dei giovani, tenutosi a Vibo Valentia dal 28.2 al 3.3.1985. Chiedendosi come si poteva realizzare la riconciliazione cristiana insieme alla comunità degli uomini e nella comunità degli uomini, i giovani calabresi rispondevano dicendo che ciò è possibile se la Chiesa è se stessa: cioè ha Cristo come centro, via e meta del suo cammino; se è popolo di Dio, che non si apparta dalla storia, né si separa da essa, ma sceglie l’uomo come sua strada; se non fugge la società, ma nemmeno si esaurisce in essa, restando evangelicamente come lievito nella massa e sale della terra; se vive della parola di Dio, che le fa rifiutare ogni privilegio e la fa essere coraggiosa. Per una profezia non saccente, ma testimoniale ed efficace occorre avere le idee chiare si aggiungeva in quel contesto sui meccanismi sociali che producono dipendenza e arretratezza, intervenendo in prima persona, con scelte di vita, per reagire ed annunciare un modo nuovo di vivere socialmente.

La nostra storia diventerà una storia liberata solo se tenteremo di creare “una società che privilegi i più deboli ed i piè poveri e che ispiri alla solidarietà le sue scelte politiche (...) passando dal lamento alla progettualità, dalla protesta individuale all’azione solidale, dalla genericità alla puntuale identificazione di ogni forma di violenza che attenti alla vita” [30].

Sono tutte queste logiche conseguenze del discorso teologico che qui abbiamo fatto e sono anche parte della nostra storia. Anche se vengono prima del Convegno della Chiesa italiana tenuto a Loreto dal 9 al 13 aprile 1985, ricevono per molti versi proprio in quel convegno una conferma autorevole. A Loreto è stata la Chiesa italiana a definirsi Chiesa itinerante, popolo di Dio proteso a “seguire Gesù Cristo e a vivere di Lui, crocifisso, risorto e vivo per riconciliare pienamente gli uomini con se stessi, tra di loro e con Dio” [31]. Proprio per questo motivo la Chiesa si dice a Loreto “viene così a sentirsi partecipe di tutti i frammenti di umanità, in questa società italiana che porta ancora le ferite di tanta violenza, non solo di quella terroristica e delinquenziale, ma anche della violenza dei poteri occulti, della sempre possibile violenza culturale sui poveri, della violenza emarginante” [32].

È una via di servizio alla quale siamo tutti chiamati e sulla quale la chiesa italiana, nel suo insieme, ha inteso esprimere la sua solidarietà e il suo appoggio, abbozzando le grandi linee di una politica per il superamento della questione meridionale [33]. Anche le occlusioni di quel documento parlano di ministerialità di servizio e di liberazione [34] e di testimonianza coraggiosa e profetica [35]. Tornano alla memoria alcune espressioni della Nota pastorale di Loreto, che precisavano la natura di tale ministero: “servizio riconciliato con la gente, ministero che si dirige a tutti, non solo a gruppi ristretti; ministero che ama la gente povera, ministero che è partecipazione alla storia delle persone, capacità di ascoltare ed insieme di aiutare tutti ad ascoltare, per far crescere nella verità e nella responsabilità; ministero che sa parlare il linguaggio che parla la gente, secondo una destinazione popolare della misericordia e della pedagogia di Dio” [36] Anche da queste ultime indicazioni viene confermata la via che la prassi ecclesiale deve perseguire: una liberazione autentica ed integrale. Autentica perché fondata in Cristo e nella sua Redenzione, integrale perché non isola elementi settoriali, economici o spirituali, ma considera il peccato e la grazia, la caduta e l’oppressione, che la redenzione e la salvezza come fatti riguardanti l’uomo nella sua complessità e totalità.

In questa complessità ed organicità noi ritroviamo noi stessi. Ritroviamole nostri radici, che sono nella nostra gente povera eppure credente, mortificata eppure capace di gesti di tenerezza, di gratuità, di eroismo. La liberazione è integrale perché sappiamo di avene un’anima, quella di cui l’avanzare e il diffondersi miti efficientistici, economicistici, quanto cinici, vorrebbero privarci. In questa forza liberante del Vangelo ritroviamo la nostra tenacia ed il nostro silenzio, la nostra meditazione sul senso della vita e della morte; in essa ritroviamo per sempre la forza di andare avanti, di continuare ad amare e lottare, fosse anche il lottare in solitudine e contro ogni speranza.



[1]Redemptor hominis, n. 14.

[2] Cfr. Ivi, 36, ma vedi anche particolarmente la prima parte sugli effetti devastanti di una concezione complessiva della vita e del mondo in termini di liberismo mercantile, e quindi, sostanzialmente    individualistici; e la IV e la V parte su un progetto globale di solidarietà teologicamente fondata.

[3]Ivi 36; cfr. Redemptor hominis, nn. 70, 186, 517.

[4]Cfr. ivi 328.

[5]Ivi, 405.

[6]Puebla. L'evangelizzazione nel presente e nel futuro dell'America latina, EMI, Bologna 1979, parte I, 2.2. (28).

[7]Cfr. Gaudium et spes, n. 10, Redemptor hominis n. 14.

[8]Redemptor hominis, n. 15.

[9]Redemptor Hominis, n. 15.

[10]Redemptor Hominis, n. 16.

[11]Redemptor Hominis, n. 16.

[12]"Se la produzione delle armi è un grave disordineche regna nel mondo odierno ... non lo è meno il commercio delle stesse armi" (Sollicitudo rei socialis, n. 24; "È da rilevare,   pertanto, che in un mondo diviso in blocchi ...dove, invece dell'interdipendenza e della solidarietà, dominano differenti forme di imperialismo non può che essere un mondo sottomesso a "strutture di peccato" (ivi, n.36).

[13] Gaudium et Spes, 22.

 

[14]Del 17.2.1966: EV 2, 625ss, qui 634.

[15]Del 1.1.1967: EV 2, 921ss.

 

[16]EV 924.

[17]Cfr. Cap. V: EV, 10, 292.

[18]EV, 10, 300.

[19]Ev, 10, 297.

 

[20]EV, 10, 306.

[21]Ev, 10, 308; 328-329.

[22] Libertatis Conscientia op. cit., n. 97: EV, 10, 336.

[23]Discorso d'apertura di Mons. Sorretino,in: Le vie dell'evangelizzazicne in Calabria, Dehoniane, Napoli 1980, 18.

[24]Iui, 2l6.

[25]Ivi,208.

[26]CEC, Supplemento al Bollettino ecclesiastico Diocesano 2 (Luglio-Dicembre 1979) 65-66.

[27]Ivi.

[28]Ivi.

[29]Le vie dell'evangelizzazione in Calabria, op.cit.,218.

[30]Un   itinerario di riconcliazione per una Chiesa missionaria, Effesette, Cosenza 1985, 198-199.

[31]Nota Pastorale, del 7.6.1985, n.8.

[32]Ivi, n.38.

[33]CEI, Sviluppo nella solidarietà, n.19.

[34]Ivi, n. 29.

 

[35] Ivi, n.25.

[36]CEI, Nota pastorale, cit., n.22.