1) Introduzione
al tema
Si è soliti indicare nell'ingresso della storia in teologia ciò che
rappresenta la più considerevole eredità del Novecento. Se ciò vale a livello
più generale, particolarmente sul versante epistemologico, vale anche per i
contenuti, che in questo caso sono gli eventi che hanno determinato e
determinano il progresso della riflessione teologica. L'enumerazione di questi
ultimi (quali siano e perché proprio essi) presta il fianco a una
problematizzazione teoretica previa, certamente non irrilevante. Non ci si
riferisce solo a un legittimo quanto doveroso richiamo ad una cautela di
carattere ermeneutico. E nemmeno a un'avvertenza, previa alla stessa
rilevazione, sulla natura arbitraria di un'inevitabile scelta tra i tanti
elementi che nell'arco di tempo in oggetto potrebbero essere registrati. Se tale
arbitrarietà sembra strutturale in qualsiasi scrittura storica che si occupi di
fatti del passato, appare ancora più insidiosa quando si ha a che fare con idee
e movimenti di natura prevalentemente spirituale e religiosa. Nel caso poi della
teologia (anche se ci riferiamo ovviamente a quella specificamente cattolica, ma
che tuttavia interagisce con le altre e in primo luogo con quella evangelica),
se assumiamo come campo d'indagine il secolo trascorso, sarà indispensabile
dichiarare da subito che mai come nel trapasso da questo al nuovo la stessa
teologia appare più un mosaico di tante teologie che un corpo omogeneo al quale
fare riferimento.
Sono nodi problematici dei quali sarà bene tener conto, ma che a noi sembrano
collegati a una complessità della materia teologica che si annida ancora più a
monte. Essa tocca infatti la natura stessa del teologico e del "fare teologia",
che per essere contemporaneamente un "sapere" e un "fare" del tutto particolare1,
richiede almeno qualche accorgimento suppletivo, per evitare, da un lato,
scorciatoie riduttive e, dall'altro, ricadute in luoghi comuni non
sufficientemente sottoposte a vaglio critico. Giacché non solo la materia, ma,
come a nessuno sfugge, la stessa questione è complessa, il nostro intento è di
portare un contributo su un punto che sembra attraversare l'intera problematica
del rapporto tra storia e teologia e che riassumo parlando di valore della
storia in teologia come svolta non solo teologica ma anche storica, nel senso
che non è solo la storia ad aver influito sulla teologia, ma è anche la teologia
che ha influito e influisce sulla storia (leggi: principalmente sul modo di
intenderla e di scriverla), giacché proprio la scrittura storica risente di una
concezione generale sugli eventi e soprattutto sui soggetti dei quali si occupa.
2) Dai "segni dei tempi" a una "storia segnata"
A questo proposito, il valore della storia e dei conseguenti segni dei tempi
(che ne sono come l'espressione più densa oltre che più nota) rimanda al bisogno
di qualche indicazione ulteriore che potrebbe essere di una certa utilità.
Intanto se già riflettere in modo non naïf sulla storia non è semplice
(qualcuno ha già risposto esaustivamente alla domanda: che cos'è la storia? -
sembra francamente di no), riflettere sul suo valore teologico, su chi scrive la
storia e a partire da quale prospettiva, richiede una maggiore attenzione2.
Al punto in cui siamo anche la sola riflessione sui segni dei tempi3
giustamente rileva che perché i tempi siano teologicamente leggibili nella
prospettiva della grazia, in quanto suoi segni (si potrebbe aggiungere: come
segnali indicatori e anticipatori dell'azione di Dio) si richiede almeno un
approfondimento sul rapporto che essi hanno con l'evento Cristo. Ma da ciò
deriva che riguardo allo scrivere la storia un'ermeneutica teologicamente
informata rimanda inevitabilmente a quell'evento Cristo che ne costituisce non
solo il centro, ma anche il motore e il cuore segreto4.
Non tanto per delineare un loro reale o presunto valore "cristico" (è sempre
bene vigilare per non cadere in una sorta di cristomonismo di natura vaga se non
mitologica), ma per scoprire un loro effettivo valore "redentivo", almeno
nell'accezione di un valore liberatorio, oltre che liberante, contenuto in
determinate congiunture epocali (di situazioni, di uomini e di idee).
Certamente non basta ricorrere al puro e semplice criterio di
un'umanizzazione (o, come diceva il primo J.B. Metz, di un'ominizzazione)5
in quanto processo migliorativo dell'umanità. Lo stesso autore ha continuamente
rimandato alla memoria di Cristo come memoria sovversiva e pericolosa, nel senso
che essa non è solo una leva trasformatrice della realtà, ma è anche una
risposta all'azione di Dio, una risorsa non tanto storico-intramondana, quanto
teo-escatologica, che spinge a cambiare il presente e a modificarlo secondo il
piano salvifico. Questo piano passa attraverso il Crocifisso-Risorto, con una
salvezza che redime e abbraccia anche la dimensione politica della fede6.
Ma aggiungeremo che ciò rimanda anche a quella che chiameremo una storia
segnata: segnata dal passaggio di Cristo, dal suo sangue e da quello dei martiri
e dei perdenti del mondo. Proprio essi nella e per la sconfitta della morte da
parte di Cristo sono già indirizzati verso la glorificazione. Sono segnati, come
in una delle grandiose visioni dell'Apocalisse, per la loro gloria7,
o, come gli stipiti delle case degli ebrei nella notte della Pasqua, da un
sangue che questa volta è il loro, mescolato a quello dell'agnello sgozzato, che
per i cristiani è, appunto, il Cristo.
Qual è il senso storico di ciò che andiamo dicendo? Da quale sangue è segnata
la nostra storia, a partire da quella più recente? Basterà qui accennare al
fatto che le tragedie immense programmate dagli uomini e le guerre nel secolo
che si è appena concluso hanno accumulato più cadaveri in cento anni di quanti
forse ce ne sono stati in tutto il millennio. Se l'uomo, almeno per la parte del
mondo a noi più vicina, è complessivamente più libero, il prezzo pagato è immane
e lascia il sapore di una sconfitta sempre bruciante, che non abbiamo, né forse
avremo mai, la capacità di trasformare in semplice memoria. E tuttavia la
teologia cristiana non può rinunciare a riflettervi, pena la perdita del valore,
per essa centrale, dell'evento Cristo. La domanda ulteriore è se il carico di
dolore di cui gronda la stessa memoria interpelli solo la teologia o se non
esiga anche una resa dei conti con la storia. Qualcuno, proprio nel secolo che
si è chiuso, ha avanzato, su un piano che è simultaneamente filosofico e
teologico, la proposta di cogliere nella memoria una solidarietà che abbia,
insieme con un contenuto appellativamente messianico, una validità che guardi
non solo proletticamente al futuro, ma anche retrospettivamente al passato. Il
riferimento più immediato è qui ad autori come Walter Benjamin, ma anche a
testimoni come Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Hetty Hillesum, che hanno
registrato e portato su di sé i segni di una storia tragica e tuttavia aperta
alla salvezza8.
La loro voce - che con quella di altri testimoni dello stesso calibro, valica la
soglia del secolo - ha sollevato e solleva ancora la domanda sul senso da dare
alla memoria da parte della teologia9.
Ci soffermeremo in particolare, seppure brevemente, sulla concezione di W.
Benjamin e di alcuni autori che hanno affrontato in maniera diretta la domanda
sul valore teologico della storia.
3) Un appello messianico che sale dalla storia
La risposta che a noi personalmente appare sempre convincente, e che tuttavia
merita di essere approfondita è quella già accennata di un'anamnesi che si
ricongiunge non a un'idea astratta o puramente commemorativa di Cristo, ma al
suo evento storico decisivo: quello della sua tragedia e della sua
glorificazione. Non come sintesi cosmica e mitologizzante, ma come cifra
emblematica e rivelatoria - e pertanto salvifica - del dolore del mondo e del
carico messianico in esso latente. In W. Benjamin e in altri, sebbene in una
zona non ancora esplicitamente teologica, è emersa non sempre e non tanto la (ri)scoperta
di una finalità apocalittica insita nella storia, la quale marcerebbe verso un
approdo comunque liberante, in forza di un suo intimo e insuperabile dinamismo.
In alcuni è affiorato un vero e proprio messianismo, per altri un umanesimo
comunque capace di trascendersi verso forme che liberano l'umanità dai
condizionamenti e dai limiti nei quali essa rischia ogni volta di restare
imprigionata10.
Per molti si tratta di una visione positiva della storia, nella quale l'umano si
realizza e si invera in movimenti di liberazione intrastorici, ma che contengono
una sorta di eccedenza "trascendente". Da costoro si distingue chi, invece,
partendo da una concezione eminentemente tragica di Dio quanto dell'uomo, pur
non negando la possibilità di una vittoria definitiva del bene sul male, ha
offerto una serie di considerazioni doloranti e problematiche sulla "sconfitta
di Dio", passando in rassegna, a partire dalla Bibbia, le promesse messianiche
non realizzate11.
Se per molti il lievito messianico della storia è riconducibile a una sorta
di surplus in termini di speranza come molla verso un futuro che fa superare le
stesse premesse che esso di volta in volta si dà12,
per altri si tratta di un futuro già anticipatamente in atto, in forza
dell'evento escatologico della risurrezione di Cristo13.
A questo riguardo, altri hanno osservato che il principio speranza - con o senza
messianismo - non basta, perché non è bastato né nel secolo che si è chiuso e
nemmeno nei due millenni di storia cristiana a evitare stragi innumerevoli
quanto insensate. Non ha salvato né dalla shoah, né dalle tante, troppe
guerre, spesso ingaggiate e combattute in forza di una indomita speranza.
Nonostante l'affermazione di un principio di speranza - anzi forse anche a
motivo del suo insuperabile ottimismo - il mondo si è trovato, dopo le due
grandi guerre, sull'orlo del baratro della distruzione nucleare, un baratro dal
quale ci siamo un poco allontanati, ma che è ancora aperto da qualche parte. Per
questa ragione al Prinzip Hoffnung Hans Jonas ha preferito il Prinzip
Verantwortung14,
un principio etico che impegna la mia vita per e nella difesa della vita
dell'altro. La storia è sembrata così affidata alla responsabilità umana: una
responsabilità che grandi esponenti di quel pensiero che è stato chiamato
"ebraico" hanno voluto vedere più da vicino in un'etica oltre che della
reciprocità, anche della scoperta, dell'accoglienza e della cura del volto
dell'altro15.
E tuttavia anche in questo caso, ammesso che un'etica della responsabilità e
del reciproco coinvolgimento etico possa, come ci auguriamo, garantire un futuro
migliore al mondo, resta ancora aperta la ferita dei trafitti del passato. Come
guardare al passato e al presente che lo sta già diventando e cosa possiamo
teologicamente cogliere in esso? Che cosa unisce questo secolo all'altro e che
cosa associa questo nuovo millennio a quello che si è chiuso? Che cosa ha in
comune questa mia generazione con quelle che l'hanno preceduta? Che cosa avrà in
comune con quelle che la seguiranno? W. Benjamin ha saputo individuare come un
«appuntamento misterioso» tra le generazioni del passato e quella del presente.
Ha colto il senso della redenzione in qualcosa che attraversa la comunicazione
tra le diverse epoche storiche. Sebbene solo di scorcio, e come in una sorta di
testamento, che non è stato sviluppato sistematicamente, anche perché non ne ha
avuto il tempo16,
ha potuto affermare: «Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni
generazione che fu prima di noi, è stata data in dote una debole forza
messianica, su cui il passato ha un diritto»17.
Si tratta di un'attesa che si estende fino all'«umanità redenta», come la chiama
Benjamin, perché «solo all'umanità redenta tocca interamente il suo passato» e
ciò significa che non ci sono avvenimenti piccoli e avvenimenti grandi, essendo
tutti ugualmente significativi ai fini della redenzione stessa18.
Commentando questo modo di intendere la storia, espressione di un «pensare
sensibilmente» (e chi ha mai detto che si debba pensare solo freddamente o
peggio cinicamente?), Giancarlo Gaeta annota che in questo modo di accedere alla
realtà, pensiero, eventi e cose interagiscono così dinamicamente e profondamente
tra loro, da rivelarsi nel loro «segreto significato»19.
Si tratta di un significato messianico, colto nella stessa storia, sebbene
appena ad un passo da un messianismo forte, di fede ebraica e/o di fede
cristiana. Eppure si tratta molto di più di ciò che potrebbe apparire solo un
atto di dolorante pietà per una vicenda umana, che comunque accomuna un'epoca
all'altra. W. Benjamin ci offre l'esempio di come si possa arrivare a scorgere
da lontano il Messia, anche solo attraverso un pensare sensibilmente, che
qualcuno ha voluto considerare secondo la sua valenza metaforica e nella sua
suggestione poetica20,
ma che fa venire in mente la necessità di non rinchiudere la ricerca al puro e
semplice pensiero filosofico. Ci può e ci deve essere un altro pensiero, come
sosteneva M. Heidegger21.
Dopo aver profuso i suoi maggiori sforzi nell'analisi filosofica dell'Essere e
il tempo, il filosofo era infatti pervenuto a quella svolta, che gli consentiva
di accostare la realtà con altri mezzi, che s'intrecciavano e assumevano senso
non al di fuori del pensiero, e nemmeno in contraddizione con esso, ma piuttosto
affiancando al primo un altro pensiero, per svelare ciò cui il primo non era
pervenuto, né - restando all'interno delle sue rigide leggi fenomenologiche -
poteva pervenire22.
Era un approccio guidato dall'intuizione poetica ed estetica, quanto
dall'esperienza religiosa, con un metodo d'indagine più complessivo che guardava
al mondo intero e pertanto alla storia nel suo insieme. Questo mondo e questa
storia erano visitati, nel secondo Heidegger, dal divino, o dagli dei, come egli
spesso si esprimeva, riprendendo il linguaggio classicheggiante di Hölderlin23.
In realtà è proprio Dio, scoperto come ultimo Dio (der letzte Gott) che
garantisce la continuità della storia e impedisce così che essa cada nel totale
non senso24.
Quale che sia un'ermeneutica più approfondita di questo autore, non si può
non cogliere l'interconnessione tra la vicenda storica e la riscoperta di Dio.
Nel caso specifico di Benjamin, da quanto finora detto sembra trasparire
l'esigenza di cogliere densità messianica in una storia che, per essere stata
vissuta, non solo ne conserva per sempre le tracce, ma ne rappresenta la sua
concrezione ed espressione. Fino al punto di affermare in un frammento,
riconosciuto da qualcuno come dichiarazione di fede nel messia: «Solo il Messia
stesso compie tutto l'accadere storico e precisamente nel senso che egli
soltanto redime, compie e crea la relazione tra questo e il messianico stesso»25.
Si tratta di una messianicità che più che tendere al personaggio Messia, si
compie nello stesso consumarsi degli eventi e in particolare delle persone, con
un compimento che però travalica la singolarità, aprendola e correlandola a
quell'eterna contemporaneità che è una delle caratteristiche della storia. È il
tempo che è sempre adesso (Jetzt-Zeit) e, in quanto tale, trabocca del
suo fermento messianico.
4) Un'anamnesi dal «rovescio della storia»
In questo modo quella storia, che già alla fine degli anni '20 W. Benjamin
andava leggendo come «storia della passione del mondo»26,
si addensa di grumi sempre più problematici che alla fine diventano una vera e
propria invocazione di senso. Siamo di fronte a una vera e propria «tradizione
degli oppressi», il cui sangue grida, al pari di quello di Abele, che, «benché
morto, [...] parla ancora» (Eb 11,4). Si tratta di un'affermazione densa
e oscura, ma che s'illumina nel contesto più universalmente teologico della voce
di Cristo, una voce che sale dalla sua morte, prima ancora che dalla sua
risurrezione27.
Del resto, il sangue di Abele, che ancora grida dalla terra28,
è tanto espressivo da assumere un carattere rappresentativo di ogni altro uomo
oppresso nella storia. Il pensiero evoca l'immagine dell'Apocalisse che presenta
i martiri risorti in piedi e stretti intorno a Cristo, agnello sgozzato eppure
vivente29.
Da Abele in poi la storia degli oppressi, passando attraverso quella di Cristo,
reclama giustizia, diventa preghiera e invoca salvezza, una salvezza che redima
l'intera vicenda umana sulla terra30.
Se con Cristo assistiamo alla «sconfitta di Dio», quella sconfitta non chiude
però la partita. Al contrario, innesta un capovolgimento, che i cristiani non
solo devono chiedere e attendere nella preghiera e nella vigilanza, ma devono
anche adoperarsi di accelerare nella storia che è toccata loro in sorte.
Non si tratta solo di quella memoria storica che sovverte gli attuali
rapporti di poteri, secondo una tesi presente già in H. Marcuse31.
La memoria non si riduce a una sorta di insuperabile ansia che tiene sempre vive
tragedie e speranze del passato e funge da reagente per una società più giusta.
Siamo inoltre ben lontani da quella posizione di stampo tradizionalmente
materialista, espressa ad esempio da M. Horkheimer, per il quale non bisogna
farsi illusioni: i trafitti del passato sono già morti, l'ingiustizia è stata
commessa e non può essere in nessun modo riparata. È solo questa l'ultima
risposta a un'impossibile speranza che può venire solo da un sentimento
religioso32.
La posizione contraria, da qualcuno chiamata «messianismo politico»,
sostenuta da Benjamin e l'intero dibattito che si è sviluppato sulla questione
possono darci un'idea di quanto sia stato avvertito, già nella prima parte del
secolo scorso, il problema non solo della storia nella teologia ma anche della
teologia nella storia. Senza voler disquisire sulla correttezza o meno delle
interpretazioni filosofiche affiorate, annotiamo la rilevanza qui assunta
dall'elemento teologico per quanti guardano alla storia nella sua complessità.
L'argomento, come si è accennato, è stato però riproposto nella seconda parte
dello stesso secolo in area più prettamente teologica. La storia come
«tradizione degli oppressi» ha portato, nelle varie forme assunte dalla teologia
della liberazione, a parlare di un «Dio degli oppressi»33.
La stessa storia - si dice anche - esige in primo luogo che i cristiani prestino
la debita attenzione al «carattere peculiare della memoria cristiana»34.
Da tutto il discorso fin qui condotto si capirà più agevolmente che cosa
voglia dire l'ingresso della teologia nella storia. Ma si intende anche meglio
il capovolgimento di prospettiva che ne consegue. Infatti dall'intreccio tra
l'elemento teologico e quello storico ci sembra emerga una particolare qualità
dell'ermeneutica storica qui in gioco. Essa riguarda soprattutto i suoi
soggetti, che non sono più i semplici "agenti", generalmente noti per le loro
imprese e le testimonianze grandiose con le quali hanno cercato di imporre il
loro nome alla storia. Di essi certamente si interessa la storia tradizionale
ufficiale: sono i re ed i papi, i principi e i guerrieri, gli uomini che contano
e quanti hanno lasciato una scia dietro di sé. Certamente anche costoro sono
soggetti della storia e tuttavia non sono solo loro. A costruire la storia sono
stati e sono soprattutto coloro che hanno anche solo materialmente edificato le
loro torri e i loro palazzi, hanno versato sangue e lacrime per le loro imprese,
similmente agli schiavi che hanno costruito le piramidi. Essi hanno dato
espressione e consistenza al messianismo che l'attraversa da cima a fondo. Le
teologie emergenti dai paesi un tempo colonizzati e sfruttati sono più che un
lascito prezioso del secolo scorso e si aprono un varco consistente nella
teologia del futuro. Tracciano le linee direttrici e offrono i criteri teologici
per leggere la storia, come si diceva, dal suo rovescio35.
E che non si tratti di assunti teologici regionali, lo dimostra, da una parte,
la loro convergenza con quanto è venuto emergendo anche nella migliore e più
sensibile produzione sul piano teoretico in Europa. Lo dimostra, dall'altra, la
riscoperta della storia come memoria, anzi memoria dolorosa da purificare36.
Ciò che è in gioco è l'immagine di Dio e la concezione escatologica ad essa
collegata. Si può pur sempre parlare della fine del tempo come ritorno totale a
Dio (reditus) corrispondente ad un'uscita (exodus): quella della
creazione e dell'intera vicenda dell'uomo nel cosmo37.
Su questa scia la storia scorre nella sua linearità e assorbe il dolore e
persino la tragedia come passaggio non voluto propriamente da Dio, ma da lui
permesso per la maturazione dell'uomo stesso e per il compimento del progetto
salvifico attraverso l'annuncio e l'opera della Chiesa. Sta di fatto che anche
all'inizio del nuovo millennio la teologia sente ancora di dover fare i conti
con ciò che è stato chiamato in tutta la sua problematicità «parlare di Dio dopo
Auschwitz»38.
In ogni caso sia il discorso su Dio che quello sull'uomo non possono ignorare
una sofferenza che brucia nella memoria, non fosse altro perché è anche la
sofferenza di Dio, patita in Cristo, su questa nostra stessa terra39.
Note:
1
Non è possibile un elenco nemmeno essenziale delle tante posizioni che sono
emerse sull'elemento (o gli elementi) generatore/i del "teologico". A titolo
indicativo si rimanda, per iniziare, a G. COLOMBO,
«La ragione teologica», in ID.
(a cura di), L'evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988 e a B. LONERGAN,
Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975 per due esempi abbastanza
delineati, sebbene problematici. Ma cf anche L. BORDIGNON,
«Chi fa teologia nella chiesa?», in Credere Oggi 1 (1980) 59-70, dove si
parla della fede cristiana, che per sua natura «dà da pensare» (ivi, 60).
Sulla teologia come servizio ecclesiale cf A. STAGLIANÒ,
La teologia "che serve". Sul compito scientifico ecclesiale del teologo
per la nuova evangelizzazione, SEI, Torino 1996. Sul metodo e la metodologia cf
G. LORIZIO
- N. GALANTINO
(edd.), Metodologia teologica. Avviamento allo studio e alla ricerca
pluridisciplinari, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 13-38. Sull'intima natura
del ricercare come carattere insito della teologia cf B. FORTE,
La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e
al metodo della teologia come storia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1987. Sulla
"teologia come scienza della storia" cf questa stessa locuzione in O. BAYER,
«Teologia. B. Prospettiva evangelica» (III), in P. EICHER
(a cura di), Enciclopedia teologica, Queriniana, Brescia 1990 2 ,
1018-1020; ID.,
«Systematische Theologie als Wissenschaft der Geschichte», in E. JÜNGEL
U. A. (Hg.), Verifikationen. Festschrift für Gerhard Ebeling, Tübingen
1982, 341-361. Sulla teologia nel suo "farsi" cf Z. ALSZEGHY
- M. FLICK,
Come si fa la teologia, Ed. Paoline, Roma 1978; ma cf anche H. KÜNG,
Teologia in cammino. Un'autobiografia spirituale, Mondadori 1997; C. BOFF,
Theologie und Praxis, München 1983, e per ciò che ci riguarda G. MAZZILLO,
Teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta 1988. La posizione
di una ricerca di principi generatori all'interno del teologico (la fede e la
conseguente esperienza ortopratica) e non in altri surrettizi (del tipo
l'ermeneutica, l'esperienza umana, la fenomenologia e simili) risulta essere
stata apprezzata da alcuni, come, ad esempio in E. KLINGER,
Der neue Begriff von Pastoral und die Option für die Armen. Ein neuer
Standpunkt der Theologie, in ID.,
Armut. Eine Herausforderung Gottes. Der Glaube des Konzils und die
Befreiung des Menschen, Benzinger Verlag, Zürich 1990, 277 (cf nota 7). 2 Per un'introduzione sul concetto
della storia come ricostruzione, oltre che scrittura sul passato cf la parte
conclusiva di H. PEUKERT,
Wissenschaftstheorie Handlungstheorie Fundamentale Theologie, Suhrkamp,
Frankurt a. M. 1978, con riferimenti, oltre che all'ermeneutica hegeliana prima
e marxiana poi, alla Frankfurter Schule e in particolare a W. Benjamin.
Sulla solidarietà con le vittime della storia cf M.L. LAMB,
Solidarity with the Victims, New York 1982; cf anche ciò che la
teologia della liberazione ha indicato per una nuova ermeneutica nello
scrivere la storia a partire dal suo rovescio, cioè dalle sue vittime: G. GUTIERREZ,
Teología desde el reverso de la historia, Lima 1977, 34 (tr.it. ID.,
La forza storica dei poveri, Queriniana, Brescia 1981); I. ELLACURIA,
«Il popolo crocifisso», in I. ELLACURIA
- J. SOBRINO
(a cura di), Mysterium Liberationis. I concetti fondamentali della
teologia della liberazione, Borla-Cittadella, Roma-Assisi 1992. Più
specificamente sullo scrivere la storia come disciplina in questa prospettiva cf
E. HOORNAERT,
A memória do povo cristâo, Petropolis 1986. 3 Cf il documentato intervento di A.
FRANCO,
«I segni dei tempi nella riflessione teologica di M.D. Chenu», in Rassegna di
Teologia 41 (2000) 119-125. 4 Il pensiero corre immediatamente a
O. CULLMANN
e alle sue impostazioni cardine che hanno fatto scuola: Cristo e il tempo
(1946) e la Salvezza come storia (1965). Cf anche C. ROCCHETTA
- R. FISICHELLA
- G. POZZO,
La teologia tra rivelazione e storia. Introduzione alla teologia
sistematica, EDB, Bologna 1985. Inoltre cf W. PANNENBERG,
Rivelazione come storia, EDB, Bologna 1969, 12. Per le successive
precisazioni di Pannenberg su quest'ultima locuzione, anche al seguito delle
critiche, alcune delle quali veementi, ricevute in ambito protestante, cf W. PANNENBERG,
Teologia sistematica, 1, Queriniana, Brescia 1990, 256-261 e il
successivo paragrafo «Rivelazione come storia e come parola di Dio», ivi,
261-292. 5 Cf J.B. METZ,
Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969, ma cf anche ID.,
«Die Theologie der Welt und die Askese», in R.V. BISMARK
- W. DIRSKS,
Neue Grenze, I, Stuttgart-Deten 1966, 171-174. 6 Cf J.B. METZ,
La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978. Per una
riflessione a più voci sulla sua opera e la sua impostazione cf E. SCHILLEBEECKX
(Hg.), Mystik und Politik. Theologie im Ringen um Geschichte und
Gesellschaft, Mainz 1988, che raccoglie contributi non solo di autori europei
come Kuno Füssel, Helmut Peukert, Herbert Vorgrimler, Jürgen Moltmann, Dorothee
Sölle, ma anche di autori latino-americani come il Card. Paolo Evaristo Arns,
Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff ed altri. 7 Cf Ap 7,4 e 14,1. In altro
contesto il sigillo ricevuto per la salvezza è per Paolo il battesimo, che
sostituisce la circoncisione (Rm 4,11, che rimanda a Gen 17,11 per
la circoncisione di Abramo quale segno di salvezza scaturente dalla fede). Per
il rimando al sangue apposto sulle case degli ebrei cf Es 12,7. 8 In una presentazione rapida ed
incisiva del profilo degli autori menzionati, G. Gaeta ha affermato che la
religione ereditata dal nostro tempo è come una «porta chiusa e che si implora
che venga aperta» (cf G. GAETA,
Religione del nostro tempo, Edizioni E/O, Roma 1999, 5). Da parte nostra
riteniamo che la teologia debba compiere lo sforzo, se non di aprire da sola
questa porta - è compito della Grazia e soprattutto dello Spirito Santo che ne
suscita la forza - almeno di cercare di indicare quei segni che accomunano gli
"uomini persi" nella storia e nel suo dolore con i segni della sofferenza e
della gloria del Cristo. 9 In campo più specificamente
teologico un primo riferimento può essere a W. Peukert, che lo affrontava
esplicitamente già alla fine degli anni '70 del secolo scorso in un magistrale
saggio, che non ci sembra sia mai stato tradotto in italiano: ID.,
Wissenschaftstheorie Handlungstheorie Fundamentale Theologie, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1978. 10 Su questo aspetto specifico un
utile punto di partenza sintetico può essere reperibile in RAMÓN
VARGAS
- MACHUCA
ORTEGA,
«Umanesimo», in M.A. QUINTANILLA(diretto da), Dizionario di
filosofia contemporanea, (ed. it. a cura di M. Martini), Cittadella, Assisi
1979, 585-508; cf anche A. CAPIZZI,
Dall'ateismo all'umanismo, Ateneo, Roma 1967; G. GIRARDI,
Marxismo e cristianesimo, Cittadella, Assisi 1970. 11 Cf S. QUINZIO,
La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992 3 . 12 Cf l'opera fondamentale di E. BLOCH,
da noi consultata nell'edizione Das Prinzip Hoffnung, Bd. I-III, Suhrkamp,
Frankfurt a M. 1980. 13 Cf J. MOLTMANN,
Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970. 14 Cf H. JONAS,
Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990 (orig. 1979). 15 Si fa riferimento soprattutto
all'opera di M. Buber e a E. Lévinas. 16 Le sue Tesi sul concetto di
storia sono il suo ultimo lavoro. Furono redatte entro aprile-maggio del
1940, lo stesso anno in cui, dopo le drammatiche peripezie con le quali il
filosofo, braccato dalla polizia nazista, cercò scampo, varcando diverse
frontiere europee, già malato di cuore e stremato, nella notte del 26 settembre,
per non essere riconsegnato dalla polizia spagnola a quella francese, si tolse
la vita con una dose fatale di morfina. 17 W. BENJAMIN,
Angelus novus. Saggi e frammenti (a cura di R. Solmi), Einaudi, Torino
1995, 76 (gli Schriften originali apparvero presso l'editore Suhrkamp nel
1955). Il contesto complessivo in cui tale affermazione si trova parla di
redenzione e di senso del futuro che recupera il passato. Proprio ciò mette a
dura prova il materialista storico: «Nell'idea di felicità, in altre parole,
vibra indissolubilmente l'idea di redenzione. Lo stesso vale per la
rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca
seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C'è un'intesa segreta
fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A
noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata data in dote una
debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza
non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa» (ivi).
18 Infatti «Il cronista che enumera
gli avvenimenti senza distinguere tra i piccoli e i grandi, tiene conto della
verità che nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia.
Certo, solo all'umanità redenta tocca interamente il suo passato. Vale a dire
che solo per l'umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti.
Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una "citation à l'ordre du jour" - e
questo giorno è il giorno finale» (ivi). 19 G. GAETA,
Religione ..., cit., 51. 20 Cf H. ARENDT,
«Walter Benjamin: l'omino gobbo e il pescatore di perle», in ID.,
Il futuro alla spalle, Il Mulino, Bologna 1966. 21 Sull'altro pensiero, come
ultima ancora di salvezza, cf M. Heidegger, quando afferma: «Ormai solo un Dio
ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare (Vorbereiten)
nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft)
all'apparizione del Dio o all'assenza di Dio nel tramonto (al fatto che, al
cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)» (M. HEIDEGGER,
Ormai solo un Dio ci può salvare [a cura di A. Marini], Guanda, Parma
1987, 136). 22 Come primo approccio al tema del
divino in questa fase di M. Heidegger cf E. CORETH,«Fuga o avvento degli Dei? Sulla questione di Dio in Martin Heidegger», in
Rassegna di teologia 37 (1996) 581-595, anche se a noi sembra eccessivo
il giudizio ivi espresso di un rifiuto esplicito di Dio da parte del filosofo,
che - si afferma - non avrebbe compiuto nessun passo significativo verso di lui.
Più complesso e alla fine anche più sereno quanto emerge dal saggio dal quale
spesso si parte: F. COURTINE,
«Les traces et le passage de Dieu dans
les "Beiträge zur Philosophie" de Martin Heidegger», in Archivio di Filosofia
1-3 (1994) 519-538. 23 Cf il suggestivo racconto su
Eraclito, che rassicura i suoi ammiratori sorpresi per averlo trovato a
scaldarsi davanti a un forno dove si cuoce il pane: «Venite, perché anche qui ci
sono gli dei», in M. HEIDEGGER,
Che cos'è la metafisica? (Con estratti della "Lettera su l'Umanismo") (a
cura di A. Carlini), La Nuova Italia, Firenze 1953, 124-125. Su Hölderlin e la
recezione heideggeriana cf M. HEIDEGGER,
Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968. 24 Cf su questo punto quanto scritto
sul "secondo Heidegger" da U. REGINA,
«Oltre la modernità ripercorrendo la via esistenziale da Kierkegaard al secondo
Heidegger», in Acta philosophica,vol. 8 (1999) fasc. 2, 223-250.
L'autore rimanda a un passo denso e inatteso dei Beiträge zur Philosophie,
che per noi conferma il rapporto tra realtà di Dio e possibilità di senso della
storia: «L'ultimo Dio non è la fine, ma l'altro inizio, l'inizio delle
innumerevoli possibilità della nostra storia. Grazie a lui alla storia che c'è
stata finora è consentito di non perire; grazie a lui essa deve essere portata
alla sua fine. Dobbiamo far sì che venga approntata per tale passaggio la
trasfigurazione (Verklärung)delle sue essenziali posizioni di
fondo. La preparazione dell'apparire dell'ultimo Dio è l'impresa estrema della
verità dell'essere; solo sulla sua base può riuscire la restituzione dell'ente
all'uomo» (traduzione e indicazione ivi, 246, in riferimento a M. HEIDEGGER,
Beiträge zur Philosophie [Vom Ereignis], a cura di F.-W. von Hermann, in
ID.,
Gesamt-ausgabe, Bd. 65, Klostermann, Frankfurt a. M. 1989; originale del
1936-1938). 25 Si tratta del Frammento
teologico-politico, in W. BENJAMIN,
Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, 51, cit. secondo G. GAETA,
Religione..., cit., 50. 26 Cf W.B. BENJAMIN,
Ursprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt a. M. 1965 (originale del
1928). 27 Cf Eb 12,24: «al Mediatore
della Nuova Alleanza e al sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di
quello di Abele» . 28 L'idea del sangue dell'ucciso che
non trova riposo fino a quando non gli è stata resa giustizia si trova nella
letteratura rabbinica anche a proposito dell'assassinio di Zaccaria, che fu
perpetrato nel tempio e di cui parla Gesù (Mt 23,34-35). Si racconta che
dal momento che nessun numero di sacrifici, e nemmeno di esecuzioni di quanti
erano ritenuti colpevoli della morte di Zaccaria, cancellava la macchia di quel
sangue rimasta sulle pietre e che esso continuava a muoversi, Nebuzarsadan alla
fine lo fece fermare solo ponendo fine allo spargimento di altro sangue (H.L. STRACK
- P. BILLERBECK
[a cura di], Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrasch 4,
C.H. Beck, München 1989 9 , 241). 29 Cf Ap 7,9.14: «Dopo ciò,
apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione,
razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti
all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. [...] Essi
sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le
loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello». 30 Non possiamo omettere il rimando
ad uno scritto fondamentale in campo teologico, capofila di molti contributi in
questo senso, che mette in rapporto la Chiesa ed Abele, il popolo di Dio e il
sangue del Messia: Y. CONGAR,
«Ecclesia ab Abel», in Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952,
79108. 31 H. MARCUSE,
Der eindimensionale Mensch, Neuwied 1968, 117ss. 32 Cf M. HORKHEIMER,
Kritische Theorie, 2 Bd., Frankfurt a. M. 1968. La critica alla posizione
di Benjamin è reperibile nel primo dei due volumi (risalente al 1936). In una
lettera del 16/3/1937, Horkeimer gli aveva scritto chiaramente «che in ultimo
effetto la Sua formulazione è teologica». Per questa lettera e per l'intero
dialogo sviluppatosi intorno al tema, che comprometteva lo stesso materialismo
storico, si rimanda a R. TIEDEMANN,
«Historischer Materialismus oder politischer Messianismus?», in P. BULTHAUPT
(Hg.), Materialien zu Benjamins Thesen "Über den Begriff der Geschichte".
Beiträge und Interpretationen, Frankfurt. a. M. 1975, 77-121. 33 Cf J. CONE,
Il Dio degli oppressi, Queriniana, Brescia 1978 (originale del 1975). Il
testo è uno dei più espressivi di quella che è stata chiamata Black Theology.
Cf ID.,
Teologia nera della liberazione and Black Power, Claudiana, Torino 1973.
Per il rapporto tra questa teologia e quella latino americana, cf AA.VV.,
Teologie dal terzo mondo. Teologia nera e teologia latino-americana della
liberazione, Queriniana, Brescia 1974. 34 «Essa fu e continua ad essere
frequentemente una memoria di vinti e umili, emarginati e disprezzati e come
tale non si articola in una "storia" secondo la tradizione egemonica della
storiografia nelle grandi culture, attraverso discorsi, monumenti, archivi,
documenti, iconografia e architettura. Al contrario, si trasmette di generazione
in generazione come una cultura popolare, una tradizione orale, una resistenza
culturale» (E. HOORNAERT,
A memória..., cit., 21-22, la traduzione è nostra). 35 Oltre ai testi precedentemente
citati, cf il grosso volume (pp. 928) che offre un esempio concreto di questo
modo di intendere e scrivere la storia dell'America Latina: E. DUSSEL (a cura
di), La Chiesa in America Latina. Il rovescio della storia, Cittadella,
Assisi 1992. 36 Cf COMMISSIONE
TEOLOGICA
INTERNAZIONALE,
Memoria e riconciliazione: la chiesa e le colpe del passato, Ed. Paoline,
Milano 2000. 37 Ci sembra questo il filo
conduttore dell'intervento di J. Ratzinger al convegno organizzato in onore di
J.B. Metz, nel compimento del suo 70° anno: cf ID.,
«Das Ende der Zeit», in T.R. PETERS
- K. URBAN
(Hg.), Ende der Zeit. Die Provokation der Rede von Gott, Grünewald, Mainz
1999. 38 Cf soprattutto l'intervento dello
stesso J.B. Metz, che dichiara «Io appartengo a quella generazione di tedeschi
che lentamente - suppongo troppo lentamente - ha dovuto imparare a considerare
se stessa come la generazione "dopo Auschwitz" e a questa rendere ragione nel
modo di fare teologia. Capire Auschwitz come contro-domanda critica alla propria
teologia è l'opposto di una sottile strumentalizzazione di questa catastrofe
[...] Questa catastrofe segnala piuttosto per me uno spavento, per il quale io
non ho trovato né un luogo, né un linguaggio nella teologia, uno spavento che
spezza ogni abituale sicurezza ontologica e metafisica del discorso su Dio [...]
Il discorso cristiano su Dio [...] è già esso stesso impregnato di una sua
propria memoria e può giustificare la sua parola su Dio solo in corrispondenza
critica con la situazione di volta in volta costringente [...] Il Dio
dell'annuncio della chiesa è un tema riguardante l'uomo oppure non è alcun tema»
(ID.,«Gott. Wider den Mythos von der Ewigkeit der Zeit», in T.R. PETERS
- K. URBAN
[Hg.], Ende... cit., 33-34, nostra traduzione). 39 Gioverà annotare infine che il
problema teologico, che in Europa recita ancora: «Come parlare di Dio dopo
Auschwitz», altrove è «Come parlare di Dio permanendo tuttora Ayacucho».
Auschwitz rappresenta il cimitero delle speranze di una cultura occidentale e
Ayacucho, nome quechua (oggi è una città peruviana)designa il
cimitero di antiche civiltà soppresse violentemente dai conquistatori.
È però anche emblema di tutti gli sterminati dalla fame, dalla violenza e
dall'indifferenza della storia ufficiale. Il significativo raffronto è
reperibile in un dibattito tra due grandi esponenti della teologia
contemporanea, in «Dire Dio dopo Auschwitz, durante Ayacucho. Dialogo tra Jürgen
Moltmann e Gustavo Gutiérrez», in Mosaico di pace 4 (1993/2) 11-26.