Giovanni Mazzillo <info>                                                                       home page: www.puntopace.net

Sull'identità meridionale

(* Citata anche nella Settimana sociale di Reggio Calabria, 14-17  Ottobre 2010), nella relazione di Giuseppe Savignone,
"Per un Paese solidale. Chiesa Italiana e Mezzogiorno. Un documento per il bene comune del Paese", pag. 12).

Vedi http://www.settimanesociali.it/siti/allegati/2207/Savagnone%20-%20Per%20un%20Paese%20solidale.pdf

 

SOMMARIO (cliccare sulla voce interessata)

0. Introduzione al tema

1. II mezzogiorno come questione e come identità.

1.1. Verso una decostruzione della "questione meridionale"

1.2.  Persistenza di un’identità meridionale rivisitata come "pensiero meridiano"

2. Le ricadute etiche dell'interpretazione della "questione meridionale"

2.1. Dal familismo amorale al riconoscimento dell'immoralità del progresso fine a se stesso

2.2. Verso la riscoperta di un’identità meridionale a partire dal rapporto centro-periferia

3. Per una ridefinizione dell'identità meridionale come compito ecclesiale

3.1. Uno sguardo dalla penisola della paeninsula

3.2. A che punto è la coscienza teologica sul Mezzogiorno?

3.3. Dalla teologia dei diversi mondi a quella dell’unico mondo

0. Introduzione al tema

Muovo da alcune precisazioni previe, che ritengo di una qualche utilità. Innanzi tutto sul concetto di identità:  credo che si possa convenire sul fatto che genericamente intesa, essa connoti l'insieme organico e dinamico di uno o più elementi con i quali si individua qualcosa per non smarrirla e non confonderla con altre. Per una persona non è solo il complesso di elementi che ne consentono l'individuazione fisica (identità ad extra), ma anche ciò che ne consente la sua autoconsapevolezza come realtà identica a se stessa, pur nel suo crescere ed evolversi (identità ad intra). Qualcosa del genere vale anche per il nostro argomento, perché il "Mezzogiorno" in quanto topos non solo linguistico, ma storico-geografico-culturale (quello dell'area meridionale dell'Italia) è da individuare sia in ciò che esso rappresenta per la comunità (ciò che ho chiamato ad extra), sia per ciò che esso rappresenta per quanti in esso sono direttamente coinvolti (ciò che chiamo ad intra), non fosse altro perché ci vivono e su di esso riflettono.

Nel nostro caso l'identità diventa ben presto problema sia di identificazione che di appartenenza. Giacché se l'identità è la cifra o l'emblema sotto cui si è individuati, accostati o respinti, compatiti o giudicati, il senso o il valore dell'appartenenza si caratterizza ben presto come stima o disistima di questo ambito in oggetto cui apparteniamo, non potendo mai riuscire completamente a separare, come sempre nelle relazioni personali, il valore che gli altri ci attribuiscono da quello che noi continuamente ci formiamo o rafforziamo. La circolarità esistente tra giudizio altrui e giudizio personale nella valutazione della propria realtà di appartenenza è comunque innegabile. Merita perciò qualche approfondimento in merito, al pari della meridionalità di cui ci occupiamo e dalla quale, come vedremo, sembra inseparabile. Le questioni che immediatamente si affacciano sono pertanto due e riguardano l'identità divenuto problema e la meridionalità che lo è già da tempo ed è nota come «questione meridionale», pur essendo oggi sottoposta a revisione. Vi faremo riferimento diretto nel primo punto, su il mezzogiorno come questione e come identità, per considerare in un secondo le ricadute etiche dell'interpretazione della questione meridionale in quanto tale; mentre nel terzo faremo riferimento ad alcune linee interpretative e progettuali per una ridefinizione dell'identità meridionale come compito ecclesiale.

1. II mezzogiorno come questione e come identità.

1.1. Verso una decostruzione della "questione meridionale"

A fronte della globalizzazione, come fenomeno qualitativamente nuovo e prepotentemente recente, che impone la re-impostazione di molteplici e complessi fattori del vivere sociale, il problema delle diverse identità e dell'identità in genere non solo non è obsoleto, ma si rende ogni giorno più acuto. Dando per buona la concezione già abbozzata di un'identità che non si riduca ad essere sic et simpliceter una sorta di identificazione di un pezzo di catalogo o peggio di antiquariato, ma sia dinamica e propulsiva, per l'identificazione dell'identità meridionale o più umilmente per l'identificazione di una identità meridionale, il nostro primo problema si annuncia spinoso fin dall'inizio, giacché ha a che fare con ciò che è stata appunto stigmatizzata come questione. Non sarà questo a intimorirci. Al contrario, come facendo di necessità virtù, si tenterà di ripercorrere a grandi tappe l'origine e l'evoluzione di quello che anche al profano appare più che uno status quaestionis un coacervo di questioni. A riguardo sono da salutare con soddisfazione studi specifici sull'argomento, come quello più recente di Marta Petrusewicz, che porta il titolo significativo Come il Meridione divenne una Questione e il sottotitolo Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto[1]. La storica dichiara fin dall'inizio che è giunto il momento di guardare più a fondo le cose, pur nella decostruzione  che consente di

«smontare i grandi colossi ideologici discorsivi... In questo contesto, un'area come quella del Sud d'Italia ha la possibilità di mettere a frutto i suoi caratteri originali e di trovare un suo posto nell'organizzazione produttiva post-industriale. E anche di liberarsi dal peso paralizzante di una rappresentazione globale e suggestiva e, in altri termini, di decostruire la Questione Meridionale»[2].

Tutto ciò suona estremamente interessante anche a motivo del suo inasprimento, in quanto questione politica e dunque prettamente funzionale alla politica. Quella della Petrusewicz non è solo un'ipotesi di partenza, rientra in quello sforzo decostruttivo operato, e mi sembra in generale, con buoni argomenti, oltre che con ottimi intenti, da alcuni anni a questa parte, dagli studiosi collegati alla rivista Meridiana  e all'Istituto Meridionale per le Scienze Sociali (IMES).

Senza poterci soffermare troppo sul valore di rappresentazione della questione meridionale, rimandiamo al  testo per la storia delle diverse modalità assunte da questa[3], passata attraverso la fase della costruzione ideologica e linguistica, fino ad arrivare al riconoscimento di un Mezzogiorno diversificato, abitato da culture differenti e razionalità proprie di zone non facilmente riconducili alla omogeneità che la rappresentazione ha sempre preteso d’imporre[4].

Partendo dalla sdrammatizazione dell’alterità del Mezzogiorno (Biagio Salvemini), il saggio della Petrusevicz documenta il valore culturale e le capacità progettuali dell’area meridionale già prima del Quarantotto; dà proprio a tale data un valore di spartiacque, rivedendo la periodizzazione classica, che fa invece esclusivo riferimento all’unità d’Italia, e ricorre all’analogia di lavori sul linguaggio[5], per smascherare la «complicità immaginativa» che è alla base della formazione della «questione meridionale». Condivide, alla fine, l’appassionato programma di Giuseppe Giarrizzo: «liberare il meridione dal meridionalismo»[6]. In un interessante capitolo, dal titolo «Chi ha inventato la questione meridionale?»[7], la storica polacca documenta come sia affiorata la formulazione della meridionalità in  quanto problema, ponendo precise correlazioni tra avvenimenti, movimenti emigratori, rapporti tra esuli e parenti o amici rimasti in patria intorno al Quarantotto. Riferisce infine di alcuni scritti di De Sanctis, che in risposta al murattiano Francesco Trinchera, respingeva con fierezza la tesi da questi espressa nella sua «Quistione napoletana». L’alfiere del murattismo l’aveva sollevata intorno al 1855 in questi termini: i liberali del Napoletano avrebbero mai avuto la forza di scuotersi di dosso il giogo borbonico? Aveva risposto categoricamente di no, a motivo di pesanti pregiudizi che lo portavano a dire di trovarsi davanti a un popolo del tutto incivile e incapace di ribellarsi a qualsiasi predominio[8].

In ogni caso, se il saggio della Petrusevicz si arresta alle soglie dell’unità d’Italia, sembrano abbastanza convincenti almeno alcune sue tesi di fondo, che in sintesi sembrano queste: 1) la questione meridionale è una rappresentazione discorsivo-letteraria prima e socio-politica dopo; 2) ha origine prima della fatidica data dell’unità; 3) è giunto il momento di non guardare più al Mezzogiorno con l’atteggiamento infastidito di chi ancora recrimina e vuole in esso sempre e solo una questione[9].

1.2.  Persistenza di un’identità meridionale rivisitata come "pensiero meridiano"

Asserito ciò, si pone tuttavia, questa volta per noi, una nostra questione: sgombrato il terreno del meridione dal meridionalismo, ha senso ancora parlarne e in quali termini? La domanda si può acutizzare ancora, e ciò mette completamente a fuoco il nostro argomento, con la domanda se ci sia davvero un’identità meridionale.

A questo riguardo può essere di un certo interesse ed offrirci un nuovo un punto di partenza una caratterizzazione della "peninsularità" italiana, al cui interno va eventualmente riconsiderata un’eventuale tipicità atipica di un’identità meridionale. Qualcuno scrivendo del gusto degli italiani e dell'alto livello che caratterizza le loro creazioni, afferma che essi devono la loro sensibilità e capacità creativa al fatto di essere abituati a «a vivere tra i capolavori»[10]. Franco Cassano, uno dei protagonisti della nuova stagione del pensiero meridiano,[11] ci conduce a cercare l’identità meridionale attraverso le coordinate che la disegnano come meridianità, intesa innanzi tutto come luogo geografico, oltre che storico e culturale. È questo alla base del dato antropologico e non viceversa. Fatte le debite proporzioni, potremmo dire, a nostra volta, che essendo noi meridionali abituati a vivere tra le contraddizioni, oltre che tra i "capolavori" (da noi più naturali che manufatti, anche se questi non mancano), la nostra identità si è formata e si forma attraverso di esse, oltre che attraverso di questi. Ciò che contribuisce a formare la meridionalità non accade nonostante le contraddizioni, ma attraverso interazioni e particolari dinamismi innescati proprio dalla compresenza di innegabili valori e di inequivocabili contraddizioni. È un'ulteriore annotazione che non nega la validità dell’analisi sul pensiero meridiano, ma si pone al suo interno. Vi ravvisa infatti anzitutto un dinamismo intimo e segreto, che non è quello della pura e semplice sopravvivenza o dell’arte del sopravvivere, come troppo stancamente si continua a dire e ahimé ad ascoltare. È molto di più, perché si tratta di un'affermazione e perpetuazione di sé, nonostante tutto e persino attraverso le avversità. Queste non solo convivono con i lati positivi anch’essi riconosciuti e oggettivamente rilevanti (dalla spiritualità alla capacità di relazionarsi con il diverso, dalla sensibilità artistica alla cura della forma ecc..), ma per così dire vengono metabolizzate e diventano ulteriore motivo per vivere e per esprimere la proprio atipica tipicità.

In questo contesto gioverà ricordare che la Meridionalità si inscrive in quella polivalenza del termine Sud, che connota da un lato

«un sud con la pelle nera, l'Africa, un sud che Hegel relegava fuori della coscienza e della storia»[12].

È proprio questo Sud,

«che con i suoi ritmi, "il battito cardiaco del mondo" (Piras), ha scavato nel corpo presuntuoso della musica europea fino a renderla altra»[13].

Ma non occorre dimenticare che

«c'è un altro sud che scrive romanzi e crede ancora alle storie, un sud latinoamericano, pieno di terribili contraddizioni, ma con una sconfinata riserva onirica e sensuale [...] che non ha sterilizzato né la vita né la morte, terra di ingiustizie e grandi calciatori, di musiche, telenovelas e ferocia senza vergogna»[14].

C’è, infine, il sud a noi più geograficamente più vicino:

«un sud dove il futuro fa fatica a congedarsi dal sogno e dall'idea di grandi riscatti contro la prepotenza, un sud che coltiva l'arte del passeggiare, sempre troppo denso di simboli, richiami e maledizioni per essere pianificato dagli agrimensori della ragione»[15].

In questo più articolato contesto, che tiene conto delle diversità del Sud, si può affermare che la ricerca sull'identità meridionale se non è la medesima, è contigua a quella che tende a identificare il Mezzogiorno d’Italia. Parlandone nei termini innanzi tutto dell'appartenenza il sociologo Pietro Fantozzi scrive:

«Tentare di individuare i caratteri principali del Mezzogiorno senza rischiare di ripetere una serie di luoghi comuni è un compito estremamente difficile. Tuttavia pensando al Sud d'Italia e all'elemento che più caratterizza e accomuna le sue varie parti, non avrei alcun dubbio nell'indicare: "l'appartenenza" o meglio la forza con cui si manifestano le diverse appartenenze»[16].

L'autore mostra  l'appartenenza nel suo ventaglio di valori e di riferimenti socialmente e antropologicamente rilevanti per una comunità, con prevalente riferimento alla tradizione e al sentimento, che a noi  sembrano  essere una sorta di aggregato che fa però da collante ed è alla base di ciò che può costituire una qualsiasi identità colta primariamente come appartenenza. Per la realtà meridionale tuttavia, tradizione e sentimento sono considerati gli «elementi che più pesano sul senso religioso»[17]. Il seguito delle considerazioni di Fantozzi riguarda l'analisi della tradizione, nella sua bifrontalità di tradizione meccanica di tipo adattivo e di tradizione cognitiva a maggiore contenuto soggettivo. In ogni caso fa notare che è oggi superato il pregiudizio di uno strutturale immobilismo insito nell'appartenenza di tradizione. Proprio questa, infatti, è stata riconosciuta come una risorsa nello sviluppo di regioni anche estese, quali il Giappone e altri territori dell'Est asiatico.

È altrettanto vero che l'appartenenza espone alla manipolazione di chi la utilizza - diremmo noi - dall'interno e dall'esterno, per fini che restando in una sostanziale ambiguità, condizionano pesantemente la moralità. È un'ambiguità che si autoalimenta nella tutela (reale o apparente) di determinate basi clientelari, ma si rivitalizza nella delega a rappresentarle conferita a soggetti socio-politici. Questi vivono al di fuori di quella appartenenza (si pensi a certi deputati e senatori o a funzionari di vario genere), ma nello stesso tempo sono alimentati dall'interno dell'appartenenza stessa. Fantozzi coglie una più recente evoluzione della «clientela politica», passata da un'appartenenza di tradizione a puro scambio e gestione d'affari. Se tale sistema ha lasciato in una sostanziale stabilità i piccoli centri e gli ambiti territoriali più omogenei, non ha potuto compensare  le situazioni di bisogno  di realtà urbane in rapido e talora violento movimento.

Qui è subentrato un talora malcelato, tal altra ben appariscente degrado morale, oltre che ambientale, con le facili cadute in commistioni mafiose o semplicemente, delinquenziali alle quali si è pervenuti sotto la spinta irrefrenabile del rapido e del facile guadagno. La conclusione di questo processo sembra essere oggi lo scardinamento di quella base di partenza costituita dalla stessa appartenenza, in forza delle ambiguità, dell’evoluzione in negativo, e del progressivo degrado che ne hanno costellato violentemente il cammino. In ogni caso l'appartenenza risulta ambigua e con molteplici e contraddittori aspetti. Rispetto alla dimensione religiosa Fantozzi può alla fine annotare:

«l'"appartenenza" religiosa non si presenta, a mio avviso, in modo diverso; la vita cristiana, nel Mezzogiorno, è ambigua sia perché è vita umana, sia in quanto espressa in un ambiente contraddittorio»[18].

Per aggiungere immediatamente:

«sarebbe assurdo pensare di risolvere tale situazione di ambiguità eliminando la tradizione religiosa o cercando di orientarla verso modelli estranei e illuministici».

Con ciò ci sembra però di essere già entrati nel secondo punto della trattazione, relativamente alle ricadute etiche dell’identità meridionale. Al punto in cui siamo c’è bisogno di una precisazione. È la seguente: se alla domanda se esiste ancora la "questione meridionale" ci sembra di dover rispondere che se non esiste come reale corrispondenza con la sua rappresentazione, esiste però di certo l’identità meridionale. Tuttavia è particolarmente urgente ricondurla a quel più generale contesto meridiano, che se non è però più esattamente sviluppato corre il rischio di essere anch’esso formulazione linguistica o rappresentazione più che connotazione reale di un dato di fatto.

2. Le ricadute etiche dell'interpretazione della "questione meridionale"

2.1. Dal familismo amorale al riconoscimento dell'immoralità del progresso fine a se stesso

È nota l'espressione linguistica, che si è dimostrata particolarmente resistente al logorio del tempo e che ascrive i mali del Sud a un non meglio precisato e documentato «familismo amorale». In quanto indicazione di un fenomeno che identifica alla fine causa ed effetto, esso finirebbe con il connotare, se fosse vero, anche l’identità meridionale. L’espressione non nasce dal nulla, né vuole porsi almeno inizialmente e dichiaratamente come valutazione eticamente negativa per il Sud d’Italia. Vi scivola però inevitabilmente, anche a motivo delle facili e gratuite identificazioni , solo recentemente smascherate, tra progresso uguale ad  atto moralmente valido, oltre che socialmente utile e non progresso uguale ad  atto moralmente riprovevole in tutte le sue forme. Sulla base di un’analisi condotta dall’americano Edward Banfield in un piccolo centro della provincia di Potenza[19] alla fine degli anni Cinquanta si arrivò a parlare del "familismo amorale" come del fattore determinante dell’arretratezza di tutto il Mezzogiorno[20]. Con ciò si indicava prevalentemente un vincolo familiare non solo forte e resistente agli attacchi esterni, ma anche una sorta di freno interno insuperabile capace di bloccare ogni esperienza che conducesse al di là dei puri interessi familiari.

Alla base di tale valutazione che diventa morale, più che descrittiva ed esplicativa di un fenomeno, c’è però l'idealizzazione acritica del sistema alternativo al familismo. Gli si contrappone infatti una visione piuttosto mitica del sistema americano. Si riconosce oggi che l'indagine da cui parte il "familismo amorale" è in ogni caso condizionato da una nostalgia del modello descrittivo di Tocqueville[21], che a sua volta non corrispondeva nemmeno alle diverse realtà degli Stati Uniti d'America[22].

La tesi, pur essendo inconsistente scientificamente, ha avuto notevole successo. I fautori del pensiero meridiano si domandano perché e rispondono che contiene al fondo uno streotipo spinto fin alla genetica del meridionale. Si tratta di qualcosa di specifico e di insuperabile che riconduce a una sola causa fenomeni complessi e oggettivamente molto difformi tra loro. Il pre-giudizio implicito è che se i meridionali sono così, è perché sono amorali, perché al di fuori della norma comune ed eticamente valida. A questa radice si ricollega l'altro giudizio che di solito gli fa coppia: «lo scarso senso civico dei meridionali».

Non per nulla qualcuno scrive annotazioni, come queste, che smascherano ben presto i pregiudizi nascosti dietro una certa ostentata scientificità:

«Specialisti nella sovrana arte di arrangiarsi, i meridionali sarebbero accomunati, antropologicamente", "storicamente", "sociologicamente" da una mancanza di rispetto per le regole della convivenza sociale, da una refrattarietà assoluta nei confronti del cosiddetto "senso civico". E siccome qualche residuo pudore impedisce di chiamare tutto questo, in lingua italiana, "mancanza di civiltà", si preferisce adoperare un'espressione americana che suona più politically correct. È il recente, troppo fortunato libro del sociologo americano Robert Putnam (1993) ad aver fatto rimbalzare da oltre Oceano la parola magica in cui sembrano riassumersi tutti i mali della società meridionale. Sarebbe la mancanza di civicness, di dotazione civile, il carattere distintivo della società meridionale» [23].

La tesi di R. Putnam, che si pronuncia sulla «tradizione civica» del Mezzogiorno[24], si può ritenere epilogo[25] e capofila di un filone teorico ideologico, che cerca di argomentare sulla base del pregiudizio di fondo già evidenziato sul regresso come amoralità. Lungi dal favorire una base di fiducia collaborativa tra diverse tradizioni civiche, ne stigmatizza una sola a svantaggio di tutte le altre.

In realtà a questo regresso era stato associato da E. Todd anche la discriminazione etnica e il razzismo, che a suo dire derivano dalla tipologia della famiglia chiusa tipicamente meridionale. Questa semplificazione grossolana è contraddetta non solo dagli studi più seri condotti in materia di intolleranza etnica[26] ma dalla stessa cronaca quotidiana, che registra non di rado una notevole disponibilità all'accoglienza di quanti sono etnicamente diversi proprio al Sud, nonostante l'atteggiamento contrario nel Settentrione e nel Centro dell'Italia.  Del resto basterà ricordare che nella stessa Calabria, penisola della penisola e luogo dove la famiglia dovrebbe essere, secondo tali teorie, tra le più chiuse, convivono pacificamente da secoli con la maggioranza della popolazione gruppi umani molto diversi, sia per lingua, che per cultura e persino per riti religiosi, come gli albanesi e i grecanici.

2.2. Verso la riscoperta di un’identità meridionale a partire dal rapporto centro-periferia

Storicamente parlando, approcci meno prevenuti sull’identificazione del mezzogiono sono  quelli di Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci e Luigi Sturzo. Chiave di lettura di Salvemini sono i complessi dinamismi nel rapporto centro-periferia. I suoi testi sul Mezzogiorno[27] mettono realisticamente in evidenza le commistioni di interessi collegati all'esercizio e mantenimento del potere tra strati privilegiati e borghesi del Nord e la borghesia agraria del Sud. L'alternativa  indicata è in un'alleanza, comunque allo stato dei fatti mai realizzata, tra lavoratori settentrionali e contadini meridionali. Sembra però pertinente l'analisi di risorse e di limiti all'interno delle due aree del paese, che avrebbero bisogno di mutamenti radicali nei rapporti  tra  soggetti coinvolti.

Tra le risorse non utilizzate A. Gramsci indica soprattutto gli strati popolari che su tutto il territorio nazionale sono rimasti al di fuori della costruzione dell'unità dell'Italia, che è avvenuta e si mantiene in una silenziosa ma reale egemonia delle borghesie centrali in combutta con le nobiltà locali[28].

La lettura di questi due autori può essere, come è successo, tacciata di schematismo ideologico, di stampo marxista. E tuttavia è certamente vicina a quella operata da un autore di ben altre origini ideologiche: Luigi Sturzo[29]. Al pari di Salvemini e di Gramsci, anche Sturzo considerava l'arretratezza del Sud non come l'inevitabile risultato di un fatto culturale o antropologico, ma come l'esito di impostazioni politiche complessive e di commistioni di interessi economici, che avevano del tutto trascurato le ricchezze culturali regionali oltre che le loro risorse.

I modelli interpretativi finora presentati hanno comunque alla base una bipolarità che contrappone Settentrione e Mezzogiorno d'Italia[30], ma tale schema di fondo viene superato sul volgere dagli anni settanta agli ottanta. A come informano gli attuali studiosi della "questione meridionale", in quegli anni è stata evidenziata la specificità di una «terza Italia», corrispondente a quelle dorsale adriatica avente una piccola ma pervasiva imprenditorialità[31]. Le ricerche dalle quali ci si muoveva autorizzavano una visione non più monolitica o ideologica dello sviluppo, sempre uguale a se stesso, o come continua rincorsa di quello già realizzato altrove. Ad esso subentrava una tipologia di sviluppo endogeno e tuttavia collegato a dinamiche non solo localiste, ma reciprocamente aperte e in relazione con fattori esterne alla località. In questa maniera si fa perno  più che sugli interventi dall'alto, sulla collaborazione con altri, con una particolare attenzione alle proprie risorse (comunque diverse da luogo a luogo) e alle tipicità locali, per trasformarle in fonti di produzione di beni, che non sono, né possono essere solo quelli di natura monetaria, ma vanno inquadrate in più complesso discorso di progresso effettivo della qualità della vita (cultura, dimensione artistica e spirituale, tempo libero, ecc.).

Quanto detto non azzera ogni altra problematica relativa all'identificazione del Mezzogiorno non solo nel contesto italiano, ma anche in quello più generale del colonialismo e di ciò che riguarda il terzo mondo. Tale svolta avviene n egli anni ’70, quando studiosi come E. Capecelatro e A. Carlo[32] ricorrono all’analisi dell’origine del capitalismo per individuare l'interdipendenza esistente tra l'impoverimento di alcune aree e l'arricchimento di altre a spese delle prime. Si tratta di una lettura che non è lecito liquidare solo in nome di un pregiudizio ideologico, ma che ritroviamo, sebbene con altre accentuazioni e in altri termini, nella più recente coscienza ecclesiale sul rapporto tra arricchimento di alcuni e impoverimento di molti.[33]

Arrivando ai nostri anni, nonostante il programma di liberare il Mezzogiorno dal meridionalismo e il riconosciuto carattere di rappresentazione della "questione meridionale" gli stessi autori che fanno capo all’Imes non possono negare che siamo in presenza ancora di qualcosa che è «Mezzo giorno e mezzo no»[34]. Anzi scrivevano nel 1996:

«Non c'è verso: il Mezzogiorno sopravvive cocciutamente a se stesso. Sembra che il millennio sia destinato a finire senza che questa "secolare" questione possa dirsi conchiusa o almeno avviata a soluzione. Cambia, in Italia, il sistema politico; si modificano radicalmente i tratti della struttura sociale; scompare del tutto ogni residuo del mondo contadino, mentre la stessa classe operaia si vaporizza perdendo la sua forza di aggregato sociale; l'economia si globalizza e cambiano i suoi stessi parametri valutativi, che definiscono contesti cooperativi e concorrenziali ben più vasti del passato»[35].

Riteniamo che il vero che c’è in affermazioni come questo non deve far dimenticare l’assunto di fondo brillantemente espresso in quel «mezzo giorno mezzo no», ma che certamente ci porta a cogliere una identità nel più vasto e composito ventaglio delle identità reciproche, quanto ugualmente preziose ognuna per la stessa definizione dell’altra. Se le riflessioni di Cassano soprattutto in Paenisula richiamano questo dato essenziale, ritengo non si debba però dimenticare che esiste una particolare affinità tra i tanti Sud del mondo. Proprio questa, che secondo l’ermeneutica della dipendenza è considerata la periferia, in realtà tale non è, essendo nella comprensione della relativa reciprocità centro e periferia insieme[36]. Se rimane periferica quanto ai grandi e veloci transiti di capitali e di uno sviluppo-colosso, che sta manifestando ogni giorno di più i suoi piedi di argilla, la sua risorsa è da riscoprire, secondo la lezione di M. Alcaro, nella sua cultura mediterranea. In riferimento ad essa l'identità meridionale ha molto da insegnare o almeno molto di cui essere fiera, a motivo di fattori che ne costituiscono la sua ricchezza, a confronto con il depauperamento spirituale del mondo sviluppato. Sono anche le sue risorse e si possono ricondurre a queste: la «pratica del dono e legami comunitari del Sud», il valore dato alla natura, «la predominanza della "mentalità materna" nell’ethos meridionale», «la persistenza della memoria», «il dialogo con i defunti»[37]. Per noi sono lemmi di un dizionario del Sud che riscopre con le sue risorse anche una sua più mirata progettualità. Ciò è tanto più importante in un contesto ecclesiale dove si voglia e si debba camminare con il proprio popolo e non al di sopra o all’infuori di esso.

3. Per una ridefinizione dell'identità meridionale come compito ecclesiale

3.1. Uno sguardo dalla penisola della paeninsula

Nella più recente letteratura sul Mezzogiorno, la penisola  è apparsa un emblema particolarmente interessante al fine di caratterizzare in primo luogo l'identità italiana e in essa quella meridionale.

A riguardo, qualcuno annota che già la coscienza nazionale dell'italiano in genere è debole. Questi ritiene di doversi criticare e anche ferocemente, spinto da una sorta di complesso d'inferiorità che fa apparire le altre nazioni almeno più efficienti se non civicamente più valide della propria. Le ragioni di questa scarsa autostima sono considerate di natura storica. Si fanno risalire alla marginalizzazione del  Mediterraneo e della stessa territorialità italiana a motivo di una modernità transitata prevalentemente verso il Nord-Ovest dell'Europa, in una sua inarrestabile, quanto forsennata accelerazione nei paesi affacciati sugli spazi atlantici[38]. Ma si aggiunge anche che ciò non deve inevitabilmente significare uno stato di minorità né della penisola italiana e nemmeno del Sud di essa. Le mutate condizioni storiche attuali, nel contesto della globalizzazione e dell’avanzante conseguente inumanizzazione dei rapporti, possono essere l’occasione perché sia restituita alla posizione geografica e storico-culturale della nostra penisola una sua funzione di collegamento e di dialogo tra l'Occidente e l’Oriente, l'Oriente e l'Africa, l'Africa e l'Occidente. Le stesse vicende storiche, spesso più subite che scelte, dell'Italia in generale e del suo Meridione in particolare, possono paradossalmente diventare una risorsa. Avendo perso la boria delle altre nazioni europee, la perdita del senso della grandezza non è semplicemente, né deve essere considerata causa di viltà e di scarso senso civico, come piuttosto comunemente si ritiene. Può essere anche fondamentale e formidabile

«indisponibilità a vendersi al potere senza umanità, senza memoria degli sconfitti, senza quell'autoironia che ci è stata  insegnata dal figlio naturale di un nobile napoletano, la più grande maschera italiana di questo  secolo»[39].

Insomma la posizione geografica dell'Italia e la sua forma peninsulare avrebbero contribuito, se non ne sono proprio la causa principale, a forgiare un'indole che è sì poco incline all'identità  nazionale forte, ma è anche flessibile e tendenzialmente aperta verso il cosmopolitismo. Ciò avrebbe reso e sembra continui a rendere vano ogni progetto di "fare gli italiani", che da Massimo d'Azeglio in poi si affaccia di tanto in tanto nella nostra storia nazionale

Che cosa dire? C'è in Cassano l'idea che la penisola italiana sia come il protendersi dell'Europa verso il mondo, un allungarsi di un continente verso gli altri. Egli ritiene che in questa conformazione geografica sia come segnata una sorta di missione di dialogo e di ecumenismo. Infatti quando tale specificità è decaduta si è verificata un'affermazione di identità eccessiva, che a partire dal  Mediterraneo è diventato non diritto, ma la pretesa di un dominio sugli altri, cominciando a ribattezzare nel caso della Roma classica come nostrum un mare che precedentemente era ritenuto naturale mezzo di incontro e di dialogo, di scambio e di commercio. Dal momento che la storia successiva, pur dirottando i grandi traffici verso l'Atlantico, non ha potuto azzerare la conformazione geografica dell'Italia nello stesso mare, sembra venuta l'ora di riscoprirne la sua funzione. In questo contesto Cassano difende persino una sorta di nobiltà nel non sviluppo del Sud, verso cui ha ancora e avrà sempre valore la volontà di venire degli altri, a cominciare da quelli del Nord. C'è in tutto ciò anche un augurio:

«Se lo sguardo fosse capace di capire il valore epistemologico dell'andare a sud potrebbe scoprire che più spesso di quanto non si pensi le ragioni per cui lo sviluppo non decolla sono nobili e che la Libia e il Nepal possono essere perfetti solo continuando a rimanere diversi da Norimberga o Torino e che spesso l'ossessione dello sviluppo non è la cura, ma il male»[40].

Certamente tale considerazione provocatoria non significa non vedere i problemi o le patologie collegate a situazioni  sociali effettivamente precarie, ma si tratta di un forte e ci sembra valido richiamo e non ritenere immediatamente e miracolosamente valida la terapia di uno sviluppo che assecondi l'assolutizzazione di un modello, quello dello sviluppo in quanto tale che sia cura di tutti i mali. Parafrasando ciò che egli dice dell'Italia a questo  riguardo, potremmo dire, a nostra volta che anche il Mezzogiorno

«deve imparare a vedere i suoi mali in modo più complesso, come l'occasione per pensarsi più in profondità, per scoprirsi come qualcosa di meglio e di più di un "Europa imperfetta» [e nel nostro caso anche di un'Italia incompiuta][41].

Ciò non significa chiudere gli occhi e coprire le malattie del Mezzogiorno sotto un'indecente apologia, ma di saperle interpretare e leggerle in modo del tutto nuovo, cambiando tanto la diagnosi che la terapia.

Ciò non vuol dire nemmeno fare di necessità virtù, ma di capire innanzi tutto che i mali del Mezzogiorno non dipendono dalla sua cultura, né tanto meno dalla sua territorialità peninsulare. Ciò previene contro una ricaduta nella sterile autoesaltazione di personalità acculturate del Sud, ma anche contro l’interiorizzazione di un disagio endemico che altri si portano dentro, sia che restino, sia che emigrino. La nuova e, così sembra, attendibile interpretazione proposta non è nemmeno un attestato di totale innocenza del Mezzogiorno. Si continuano a riconoscere i mali che vi sono e a dire più realisticamente che se la «questione meridionale» resta «la più grande metafora territoriale dell'Italia unita»[42], per ciò che riguarda il Mezzogiorno, rimane pur sempre vero che

«come tutti gli aggregati storici, il Mezzogiorno è insieme un luogo della realtà e un territorio della rappresentazione»[43].

Anche dal versante ecclesiale non sembrano apparire controindicazioni sul fatto che il Mezzogiorno è un angolo visuale del tutto particolare per prendere coscienza di altri e ben più generali problemi. In sintesi diremmo che questi problemi riguardano innanzi tutto  la sua autopropulsione verso un modello di sviluppo che non cancelli, ma valorizzi la sua identità. Ma riguardano anche quelli più generali di uno progresso generatore di un modo di essere e di vivere, da richiamare a seria verifica, anche per la stessa qualità della vita che esso compromette. In entrambi gli ambiti la nostra identità tocca anche la nostra appartenenza ecclesiale e per giunta teologica, perché sono ambiti moralmente rilevanti e teologicamente discriminanti[44].

3.2. A che punto è la coscienza teologica sul Mezzogiorno?

Il problema si può dividere in tre capitoli. Il primo riguarda la maturazione ecclesiale e teologica sul rapporto tra Nord e Sud, Centri e Periferie del mondo. Il secondo interessa la coscienza ecclesiale italiana, il terza ci tocca più da vicino: si tratta della nostra maturazione nell’ambito del Mezzogiorno e della nostra Facoltà Teologica.

Dovrò tralasciare le prime due questioni, rimandando per la prima alla grande problematica toccata dalla nascita e l’attuale evoluzione delle teologie continentali (quelle dette un tempo del terzo mondo). Come si sente sempre più frequentemente nelle sedi dove si esprimono la teologia latino-americana della liberazione, quella asiatica, quella africana ed altre ad esse affini, il crollo dell’ideologia marxista non ha significato né la fine del divario sempre più divaricante tra Nord-Sud, Centro-Periferia e nemmeno l’irrilevanza delle teologie che assumono tale divario come sfida teologica oltre che come problema della credibilità ecclesiale. Per la seconda questione relativa alla coscienza teologico-ecclesiale italiana, ci sembra che dopo la pubblicazione del documento pastorale su Chiesa e Mezzogiorno[45], non ci sia da registrare gran che di innovativo[46].

Ben vengano allora tutte le occasioni di riflessione come quella in atto, anche perché non succeda che gli eventuali interventi in campo teologico e magisteriale si trovino spiazzati dalla crescita intanto sopraggiunta in campo civile e soprattutto scientifico, come quello cui abbiamo fatto riferimento.

Per la nostra parte, diremmo che la maturazione ecclesiale e magisteriale di quanti vivono nel Mezzogiorno è stata ed è provocata dalla stessa realtà, oltre e più che dai documenti. I vari convegni che hanno toccato l’argomento, gli interventi autorevoli di singoli vescovi o di episcopati regionali, le riflessioni condotte sulle riviste degli Istituti della nostra facoltà sono partiti da alcune analisi di fenomeni socialmente ed ecclesialmente preoccupanti, per allargare il discorso ad una progettualità rispondente alla missione profetica quanto messianica del popolo di Dio. In tutto ciò la teologia non può né deve svolgere pure e semplici funzioni di segretaria su quanto detto o sul nuovo che va emergendo, né può limitarsi a lavorare su commissione di questo o dell'altro soggetto ecclesiale. Deve invece ritrovare nel suo stesso statuto epistemologico motivazioni e argomentazioni convincenti per il suo essere coscienza critica, illuminata da Vangelo e in forza del vangelo, nella realtà dove si situa[47].

Quanto finora fatto in questo campo dimostra innanzi tutto che in campo ecclesiale e teologico si avverte sempre più il bisogno di indicare un riscatto per situazioni di ingiustizia, di violenza, di clientelismo, di degrado. Ciò che è stato prodotto sembra nascere dalla domanda segreta: C'è dunque speranza per il Mezzogiorno? Si risponde in diverse maniere: talvolta alcuni interventi stentano a congedarsi da una retorica meridionalistica che pensa di risolvere i problemi elencando i propri meriti; tal altra si resta succubi dello stesso fatalismo che si rimprovera agli altri; altre volte ancora, e ci sembra questa la posizione più adeguata, si invoca l’auto-progettazione e  quindi anche il proprio riscatto a partire dalle proprie risorse. Riteniamo anche noi che se ogni riscatto non può nascere che dalle proprie risorse, qui vale ancora, vale sempre l'autopropulsione come indirizzo generale e come inventario delle risorse e della loro utilizzabilità.

Se clientelismi di vecchi e di nuovi padroni si sono avvicendati nel Sud, rimangono però immutati alcuni bisogni fondamentali, che accanto a quelli già arcinoti di lavoro, di abitazione decente, di efficienza delle istituzioni ecc., sono quelli maggiormente collegati all'appartenenza ferita o, in alcuni casi in via di smantellamento. Questi bisogni, che sono poi fondamentali diritti, sembrano anche a noi essere quello della verità, a fronte della menzogna (che va da quella della fatue promesse politiche a quelle di felicità propinate grossolanamente dai tanti maghi che prosperano al Sud, ma non solo al Sud) e da quella professionalmente istillate dai mezzi massmediali[48]. Il bisogno-diritto all'equità a fronte degli  sfruttamenti nel lavoro, della mancaza di garanzie sindacali, delle comunicazioni viarie, perennemente critiche, della fatiscenza di locali scolastici e comunque di utilità comune. Il bisogno-diritto a una fede liberante a fronte di una religiosità che in molti casi si mostra alienante. E ciò, si badi, non per cedere a «modelli estranei o illuministici», ma per recuperare la genuinità di un vangelo che è annuncio di salvezza dell'uomo in tutte le sue componenti, essendo risanamento della sfera dei rapporti interpersonali non meno di quelli relativi a Dio, da riscoprire evangelicamente come Padre più che come Padrone, e relativamente a Gesù, da riscoprire come colui che è venuto ad alleviarci dai fardelli e non a imporcene altri.

Quali sono le risorse? Sono state anche indicate nel documento su Chiesa Italiana e Mezzogiorno[49] e sostanzialmente coincidono con quanto già registrato sul versante del pensiero meridiano. Muovono in ogni caso, come già sottolineato, da una capacità di resistenza alle condizioni avverse e da una sostanziale gratuità nei rapporti interpersonali. Si tratta di risorse pur sempre riconosciute come fondamento non solo del vivere sociale, ma del vivere in quanto tale. Se ci domandiamo invece di che cosa tale resistenza si alimenti, le risposte ondeggiano in genere tra il forte senso di appartenza, una solida spiritualità[50] che permane come ultima e inviolabile risorsa, dove paradossalmente la disperazione diviene rassegnazione, senza mai diventarlo completamente. Ed infine l'esperienza storica di un animo collettivo che tanto ha subito, veduto e sentito, che ormai nulla può scardinarlo.

Nel più generale contesto di una cultura mediterranea, che viene da lontano e mira ancora ad andare lontano, ci sembra di poter identificare la risorsa delle risorse in questa  non sopita nostalgia di poter osare ancora di più, pur nella consapevolezza che solo fattori contingenti lo impediscono oggi e forse continueranno ad impedirlo domani.

È fatalismo o piuttosto esperienza, divenuta sofferenza, quella con la quale cresciamo e moriamo, in questa appartenenza a una terra forse più che a una storia, ad un transito di popoli più che ad un solo unico popolo? C'è l'immobilismo di una identità ripetitiva, come ancora è dato di leggere anche in documenti ecclesiali[51]? L'indicazione del «fatalismo e conseguente rassegnazione con crisi di speranza», evidentemente da superare con un'evangelizzazione efficace e mirata, è tuttavia controbilanciata dall'elenco degli aspetti positivi dell'animo meridionale e che sono stati ripresi anche da Giovanni Paolo II nei sui viaggi al Sud, in particolare in Calabria[52]. Le risorse del Sud sono individuate innanzi tutto nella sua «ricchezza di umanità» (che si manifesta come ospitalità compartecipazione, vincolo parentale, memoria dei defunti, predisposizione al dono, alla memoria del bene ricevuto, alla festa). Tra gli aspetti positivi più importanti è ancora menzionata l'attitudine a privilegiare l'uomo e l'umano più che le cose e la tecnologia ed infine quanto già espresso nel Documento dei Vescovi italiani sul Mezzogiono e che viene variamente ripreso[53]. Sull'onda del Documento Pastorale sono state tracciate a grandi linee progetti di intervento, a partire dalla ricostruzione della coscienza cristiana e con l'aiuto degli strumenti formativi, nelle parrocchie e nelle altre sedi idonee, per contribuire a risolvere la «questione meridionale» attraverso la solidarietà[54].

Anche l’indicazione ecclesiale e teologica di una valorizzazione di un Mezzogiorno autopropulsivo collima con quanto si afferma in ambito civile. Qualcuno come Carlo Trigilia, ritiene impossibile uno sviluppo del Sud eterocentrato, vale a dire che abbia il suo centro altrove. Alla base di tale assunto c'è la constatazione che lo sviluppo non è una pura e semplice grandezza economica, ma anche un dinamismo propulsivo che quando è invece pilotato dall'esterno produce dipendenza, trasformismo e corruzione. A ragione F. Cassano ritiene lo sviluppo un fatto complessivo, le cui componenti sociale e culturale non sono semplici corollari, ma dati essenziali[55].

Il passaggio a questa nuova impostazione del problema è già teoricamente chiaro. Nella misura in cui verrà recepito consentirà una nuova impostazione e in un certo senso un superamento della tradizionale «questione meridionale» anche nella stessa chiesa italiana, vittima anch’essa di quella «grande metafora dell’Italia unita». Il Mezzogiorno appare così luogo teologico privilegiato per guardare non solo al resto dell’umanità con gli occhi, il cuore e la mente di chi conosce le contraddizioni, la povertà e l’emarginazione, ma perché la chiesa locale consideri anche il proprio compito nel restante popolo di Dio. La teologia è chiamata a testimoniare che se non c’è Grazia senza salvezza, non c’è Chiesa senza un messianismo storico che si concretizza nei luoghi e nei momenti dove esso vive realmente.

3.3. Dalla teologia dei diversi mondi a quella dell’unico mondo

Ci sembrano particolarmente rilevanti anche per la teologia, oltre che per la nostra coscienza ecclesiale indicazioni come queste:

«In altre parole noi ci proponiamo di leggere la fase storica attuale, quella del postfordismo e della globalizzazione, della comunicazione-mondo e della postmodernità, pur con tutte le sue spesso feroci contraddizioni, come un'occasione storica per il Mezzogiorno, come una fase più ricca di possibilità di quella dalla quale stiamo uscendo»[56].

Sebbene in altre varianti, ma in linea di principio, è un pensiero che si rinviene sempre più frequentemente, anche nei nostri ambiti teologici.

Così, ad esempio, Stefano Martelli dichiarava nel convegno del 1994 a  Catanzaro sul tema «Quale etica sociale per il Sud d'Italia»:

«Correttezza vuole che si esplicitino gli assunti di partenza; i nostri assunti sono i due seguenti: 1) che lo viluppo del Sud o sarà autopropulsivo, oppure non sarà affatto, pertetuandosi l'attuale stagnazione... 2) che tale sviluppo dipenderà da molteplici cause (politiche, economiche, sociali, anche internazionali), ma soprattutto dalla prosecuzione della riforma dello stato a vantaggio delle autonomie locali...»[57].

Se l'esigenza di un'autopropulsione è chiaramente espressa, più complesso è il discorso (di fatto poi risolutivo) delle risorse, della/e progettualità e della modalità attraverso cui realizzarla.

Ritornando a Cassano, egli privilegia l'ubicazione e la conformazione  geografica come topos umano e risorsa storico-sociale determinante. Penisola periferica di una più grande penisola, il Mezzogiorno è per lui una grande occasione storica proprio nel momento in cui si esaltano i processi complessivi, si attenua la pressione centralista e gli stessi stati-nazioni sono ridimensionati. Ciò comporta lo spostamento dell'asse identificativo, e quindi potenzialmente conflittuale, dal piano socio-politico (anche per la fine delle grandi ideologie) a quello religioso. A come riferito dall’autore, non ne fa mistero nemmeno il politologo americano P. Huntington, membro della commissione trilaterale, che vede tale asse di conflitto del presente e del futuro tra le grandi identità religiose tradizionali.

Una tale minaccia sebbene sembri enfatizzata, va tenuta nel debito conto, perché al di là di ogni altra esagerazione, l'Italia e in essa e con essa soprattutto il Mezzogiorno, può e deve riacquistare quella che è stata la sua missione anche nei secoli passati: luogo di incontro di diverse culture e terreno d'incontro di visioni umano-religiose complessive che anziché scontrarsi frontalmente per imporre la propria supremazia, possono e devono imparare a convivere e ad arricchirsi grazie a una loro conoscenza reciproca sempre da favorire e non da demonizzare. Qui il Mezzogiorno diventa una sorta di cuore del dialogo con il Mediterraneo e nel Mediterraneo.

Se questa è la nuova occasione geopolitica per il Mezzogiorno, a questa si aggiungono l'occasione istituzionale, per la decentralizzazione di cui sopra, e quella culturale, identificata nella relativizzazione che al Sud ha sempre subito il fondamentalismo della modernità e della sua modernizzazione. Ma vi si aggiunge anche, e non artificiosamente dall’esterno, ma come fermento e ultima motivazione quella teologica che non si rassegna più a parlare di tanti mondi, ma di un unico mondo costituente la famiglia di Dio e il suo popolo sulla terra. Tutto ciò a partire da un nuovo approccio con le religioni e le culture delle quali esse sono foriere, da considerare con rispetto, da trattare con dialogo, nella ricerca di una convergenza continua sull’assunto che niente ci può essere in Dio che sia contro l’uomo e i suoi fondamentali diritti. Al contrario, la crescita religiosa autentica costituisce anche una crescita umana veridica.

Potremmo ancora aggiungere che la riflessione teologica sulla funzione del Mezzogiorno ad essere terreno di incontro e di dialogo tra culture diverse può contribuire a immunizzare da quell'ideologia del mercanteggiare, che, a quanto pare, già nel medioevo investì la stessa concezione del tempo. A questo riguardo qualcuno ha potuto parlare di una vittoria del tempo del mercante, fino a identificarlo con il denaro stesso[58]. È un campo dove la teologia ha molto da dire sulla gratuità e la solidarietà, riconducendole alla stessa loro origine trascendente. Ma è anche ciò che la comunità ecclesiale sta sviluppando come approfondimento di una specifica funzione di collegamento tra culture, religioni e popoli diversi di cui è portatore il Mezzogiorno. Sicché vale per l'intera area meridionale quanto affermato anche da A. Sabatini a proposito della Calabria:

«... destinata a ricoprire un ruolo singolare (che in qualche modo la riconduce alle sue origini storiche come civiltà), nell'ambito delle emergenti relazioni non solo tra Est ed Ovest del"continente vecchio" ma tra questo e l'Africa settentrionale e il Medio Oriente: essere, in pratica, una sorta di nuovo crocevia di popoli e di culture nel Mediterraneo»[59].

Questa rivisitazione del Sud come luogo non solo di transito ma anche di dialogo di culture e di popoli, ci sembra la novità convergente (dalle analisi sociologiche e da quelle ecclesiali) da tenere nel debito conto, per evitare di affrontare l'argomento come pura e semplice assegnazione di compiti da svolgere ciascuno per proprio conto. Prendiamo seriamente e nel loro giusto senso le indicazioni migliorative che vengono da personalità ecclesiali autorevoli e da studiosi non prevenuti. Tuttavia esse da sole non bastano, perché talora suonano  come lodevoli appelli, ma verso i quali nessuno si sente vincolato. Così recitano, ad esempio, le interessanti indicazioni per uno sviluppo del Mezzogiorno identificate a) nel superamento di una concezione meramente economicista, b) nel rendere protagonista la stessa gente del Sud e nel rinnovare le istituzioni e la classe dirigente[60]. Occorre più precisamente indicare chi impegnano, in che misura e con quali modalità e soprattutto quali strumenti di attuazione e di verifica sono indispensabili all'impresa.

In questo contesto si comprende «la rilevanza ecclesiologica della "questione meridionale»[61], ma essa deve andare al di là dell'identificazione del Mezzogiorno, già abbastanza delineata sul versante teologico-ecclesiale, dai documenti magisteriali, inclusi gli interventi del Papa. È vero, tale identità sembra possa essere ricondotta ad alcuni caratteri che affondano le loro radici e le relative ermeneutiche tanto nella storia della chiesa che nel discernimento di fatti e comportamenti sociali. Tra questi sono indicati elementi negativi e fattori positivi. Se sono senza dubbio negative le conseguenze di un divario tra Nord e Sud vissuto come frattura da riconciliare, come dipendenza da risanare e come assistenzialismo da superare per una reciprocità di rapporti e di collaborazione effettiva  (nn. 8; 9; 12; 13), non mancano le indicazioni sui valori del Sud, tra i quali compaiono l'etica del lavoro come sacrificio, anche nell'emigrazione, la propensione all'amicizia e alla gratuità dei rapporti, il gusto della diversità, la coesione della famiglia, la presenza di una «sentita religiosità» (n. 11).

Il discernimento richiama tuttavia alla denuncia e alla vigilanza. Alla denuncia di quelle forme eversive e devianti di sfruttamento organizzato del bisogno che diventa - diremo a parole nostre - disperazione prima e depravazione poi: mafia e delinquenza organizzata, taglieggiamento, traffico di droga, sfruttamento della prostituzione ecc. Fenomeni che allignano certamente, ma non esclusivamente nel Mezzogiorno e che hanno centrali e menti organizzative non solo e forse non prevalentemente ormai nel Mezzogiorno.

Dal momento che tutto ciò è ormai evidente, si impone l'assunzione di un nuovo compito etico, che deve declinare insieme una prassi di reciproca solidarietà (n. 24), ma anche un impegno positivo, diremo, qualificato e mirato (n. 28), per una  "ministerialità di servizio e di liberazione" come recita testualmente il n. 29. Dal punto di vista più specificamente ecclesiale, ciò significa anche una «testimonianza coraggiosa e profetica» fatta di libertà da ogni condizionamento e da qualsiasi ricerca di potere. Significa anche una scelta di vita nella sobrietà di chi sa di poter tutto dal momento che ha scelto di vivere secondo il vangelo e prendendo a cuore la sorte del fratello (n. 25). Su questi punti ritengo tuttavia che le indicazioni dovrebbero essere più concrete e più vincolanti, contestuali ad una progettualità pastorale meno declamatoria e più esperienziale. Inoltre, prima di passare a nuovi progetti pastorali si dovrebbe più convenientemente fare una verifica rigorosa di quelli precedenti. Qualcosa di più concreto, appare, ad esempio, quando si parla di evangelizzare la pietà popolare, al fine da aprirla da alcune derive individualistiche e consolatorie a una "fede liberante" (n.26). A riguardo, il documento pastorale sul Mezzogiorno concludeva che le parrocchie del Sud sono, anzitutto

«spazi per una "ministerialità" della liberazione, di promozione umana, di servizio» (n. 34).

Con un'ulteriore coraggiosa indicazione di principio:

«La parrocchia non può ridursi solo al culto, e tanto meno all'adempimento burocratico delle varie pratiche. Bisogna che nasca una parrocchia comunità missionaria di credenti, che si ponga come "soggetto sociale" nel proprio territorio».

A tale chiarezza occorre ora accompagnare gesti concreti che siano esperienze pastorali pilota, nonché testimonianze vive che si trasmettono con la forza dell'esempio più che dei documenti. Bisogna affrontare nodi complessi eppure cruciali, quali quello delle liturgie effettivamente celebrate al Sud, come al Nord (chiedendosi quanto abbiano di profetico e di liberante), quello della catechesi (quali dati  della fede passano attraverso la concretezza del servizio e del dialogo), quello della solidarietà (in che misura essa non è solo occasionale, ma sistematica e abbraccia anche il discorso delle cause dell'impoverimento) e via di questo passo.

Con queste concretizzazioni e con le necessarie, indispensabili verifiche, anche se sofferte, ci si convertirà a Cristo e al suo Vangelo di liberazione, che sa dialogare e confortare, ma anche spingere in avanti e non reggere lo strascico della storia. Se tale passo sarà fatto, come tutti ci auguriamo, allora varrà anche per il servizio della teologia e della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale ciò che troviamo egregiamente scritto della parrocchia:

«Se la parrocchia è la chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi. Deve, in una parola, essere la casa aperta a tutti e al servizio di tutti, o, come amava dire Giovanni XXIII, la fontana del villaggio alla quale tutti ricorrono per la loro sete» (ivi).



[1] M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998. L'autrice è docente di storia europea moderna e contemporanea alla Cyty University of New York; oltre che negli Stati Uniti ha studiato anche in Italia ed ha insegnato all'Università della Calabria.

[2] Ivi, 7-8.

[3] La studiosa dichiara senza mezzi termini «La Questione Meridionale è un discorso, una costruzione dell'immaginario, la cui enfasi è cangiante» (Ivi, 8). Ne esamina quindi i diversi e spesso contraddittori significati che gli sono stati attribuiti. Dai meridionalisti di fine ’800 fino agli anni sessanta del ’900 è stata infatti indicata nell’arretratezza di tipo economico-strutturale, mentre per altri interessati all’aspetto istituzionale era uno scorretto rapporto con lo stato. Vista da alcuni come struttura semi-feudale (latifondo, dipendenza di classi sociali povere da quelle ricche) o addirittura come carenza di '"spirito" inteso  alla maniera di Weber, la questione meridionale significava e significa per altri l’incapacità di impresa e di associazione, fino alla riduzione familistica di ogni rapporto e alla devianza (con mafia e criminalità organizzata come fenomeni strutturali). Fu Pasquale Villari a parlare di vera e propria «Questione Meridionale», come povertà economico-sociale, che per Franchetti e Sonnino, era alimentato da particolarismo, clientele e criminalità. La questione meridionale era infine vera e propria questione criminale per autori come Cesare Lombroso ed Alfredo Niceforo, che ascrivevano il carattere deviante del Mezzogiorno alla stessa tipologia antropologica dell’uomo del Sud. Su altri autori successivi si ritornerà in seguito.

[4] Ivi, 12-33ss.

[5] Vengono fatti i nomi di Nelson Moe, John Dickie, Mariella Pandolfi.

[6] Cf. G. Giarrizzo, Meridione senza meridionalismo: la Sicilia, lo sviluppo, il potere, Marsilio, Venezia 1992.

[7]  M. Petrusewicz, Come il Meridione, cit., 135SS.

[8] Francesco Trinchera riteneva il governo borbonico un «oltraggio alla religione, alla civilità, all’umanità ed alla decenza» (riportato da M. Petrusewicz, Come il Meridione, cit., 145.).

[9] Sui rapporti tra questione meridionale e storia ecclesiastica locale (uso di proposito tale termine e non quello ecclesiale locale, per la predominanza degli ecclesiastici) cf. soprattutto gli studi di P. Borzomati. Qui rimandiamo a Id. «Movimento cattolico e mezzogiorno», in F. Traniello - G. Campanini (direttori), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980 I/1 I fatti e le idee, Marietti, Torino u.e., 122- 29; Id., «La "questione meridionale" ieri e oggi», in La Chiesa nel tempo 15 (1999/2) 7-12; e all'intero quaderno della stessa rivista della diocesi di Reggio C. - Bova Marina, contenente sull'argomento mezzogiono articoli di G. Rumi e D. Farias.

[10] Tale pensiero è di Michael E. Porter  ed è ripostato in F. Cassano, Paeninsula. L'Italia da ritrovare, Laterza, Bari  1998,  33.

[11] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari  19996. La prima edizione è del 1966.

[12] F. Cassano¸ Paeninsula. L’Italia da ritrovare,.Laterza, Bari 1998, 53.

[13] Ivi.

[14] Ivi.

[15] Ivi, 54. Nella stessa pagina si ritrova un’altra accezione del Sud, che ci sembra ugualmente interessante riportare: «C'è un sud anche nelle città dell'America del nord, il sud un po' deturpato dei giovani neri, la rabbia e l'esibizionismo che sono nel loro modo di camminare, cantare e ballare, nella loro voglia di farsi riconoscere e sentire. Un orgoglio povero, ma capace di parlare a tutti i giovani del mondo, dove il gruppo è l'impronta deformata di un'altra idea di ricchezza laddove essa sembra avere solo la forma della proprietà, dei recinti, dei prati verdi e riservati, delle polizie private, dei circuiti elettronici, delle belle dame bionde come magnifiche prede, della venerazione del possesso e del successo».

[16] P. Fantozzi, «Per una identificazione del Sud: l'appartenenza» in D. Graziani e I. Schinella (a cura), Quale etica per il Sud d'Italia, Rubbettino, Soveria Mannella (Catanzaro) 1995, 33-39, qui 33.

[17] Ivi.

[18] Ivi, 39.

[19] Il campo d’indagine è indicato con il nome di Montegrano, in realtà è stato Chiaromonte, comune compreso nel circondario di Lagonegro, situato a 794 metri d'altitudine, tra i fiumi Sinni e Serrapotamo. Le indicazioni geografiche vi segnalano resti di fortificazioni medievali, il palazzo di Giura del ’700, una raccolta d'arte anche se non particolarmente ricca, la chiesa di San Tommaso Apostolo del XIV secolo e alcune opere medievali e barocche. Non è da dimenticare che fu distrutto da un terremoto e ricostruito dai Normanni, fino a divenire feudo dei Chiaramonte prima e dei Sanseverino poi. Riportiamo queste indicazioni anche solo per dimostrare la fretta, tutta di stampo pragmatista americana, con la quale si può arrivare a delle conclusioni ideologiche che ignorano la storia culturale di un popolo e soddisfano il giudizio di amoralità di chi non è allineato con il proprio ideale di progresso e di sviluppo.

[20] I risultati dell’indagine di Edward C. Banfield sono riportati in Le basi morali di una società arretrata pubblicato in Italia il 1958.

[21] La sopravvalutazione del modello americano era stato già operato da Alexis-Charles Henri-Maurice-Clérel de Tocqueville, storico e uomo politico francese (Verneuil 1805 - Cannes 1859). L’autore aveva studiato la democrazia americana, restandone affascinato (cf. la sua opera De la démocratie en Amérique, del 1835). L’idea dominante, comunque obiettivamente avanzata rispetto all’ideale della restaurazione, considerava il progresso sociale l’unico mezzo per una società liberale, dove il libero associazionismo coesistesse equilibratamente con le autonomie locali.

[22] La critica è così espressa in V. Cotesta, «Immagini del Mezzogiorno nelle scienze sociali», in Il Mulino 48 (1999) 841-851, qui 844-845. Il suo testo  è, come informa in nota alla pag. 850,  «una versione modificata del progetto di ricerca Cnr Identità meridionali. Vie nuove allo sviluppo a cui partecipano le unità di lavoro coordinate da F. Cassano (Università di Bari), R. De Giorgi (Università di Lecce), F. Merico (Università di Lecce), A. Merler (Università di Sassari, R. Rauty (Università di Salerno), R. Cavarra (Università di Roma)».

[23] Dalla presentazione di «Mezzogiorno oggi» cf. il numero monografico ad esso dedicato di Meridiana - Rivista di storia e Scienze sociali 10 (1996/maggio-settembre) n. 26-27, che privilegia soprattutto gli aspetti economico-sociali. L'argomento era stato trattato ad un seminario tenuto dell'Imes (Istituto meridionale di storia e scienze sociali) a Molfetta il 24-25/11/1995, 55-56.

[24] R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane , Mondadori, Milano 1993.

[25] Cf. anche la teoria espressa in E. Todd, La troisième planète, Seuil, Paris 1983, che individua due fondamentali modelli nella famiglia italiana: quella comunitaria esogama dell'Italia centrale e quella nucleare  egualitaria del Settentrione e del Mezzogiorno, ciò avrebbe dovuto spiegare la prevalenza del partito comunista nel centro e quella della democrazia cristiana al Nord e al Sud d'Italia. L'evoluzione politica e sociale successiva all'anno di pubblicazione del libro ha platealmente dimostrato l'inconsistenza della tesi.

[26] Cf. V. Cotesta, Fiducia, cooperazione, solidarietà. Strategie per il cambiamento sociale, Liguori, Napoli 1998, che ha compiuto un'accurata rilevazione dei conflitti etnici tra il 1990 e il 1997..

[27] Raccolti in G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, Einaudi, Torino 1955.

[28] Cf. A. GRAMSCI, I quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975.

[29] Cf. L. Sturzo, La battaglia meridionalista, Laterza, Bari 1979.

[30] Cf. a riguardo G. M. Viscardi, «Il mezzogiono tra identità e pregiudizio», in Caritas Italiana, Mezzogiorno e solidarietà,  (a cura di L. Baronio), Piemme, Casale Monferrato  (AL) 1995, 9-49.

[31] Cf. A. Bagnasco, Tre Italie: la problematicca territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna 1997.

[32] Cf. E. Capecelatro e A. Carlo,  Contro la questione meridionale. Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia, la Nuova sinistra,  Roma 1972.

[33] Non è pertinente al nostro argomento una trattazione così specifica, ma non la si può nemmeno eludere. Fa parte dell'insegnamento sociale della Chiesa ed è ricorrente anche in incontri e documenti a noi più vicini. Cf. G. Mazzillo, «Il Sud come soggetto ecclesiologico», in D. Graziani - I. Schinella (a cura di), Quale etica per il Sud d'Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1995, pp. 205-231, Id., «La scelta preferenziale per i poveri: cosa implica, cosa comporta», in AA.VV., Motivi e modi della carità ecclesiale, Queriniana, Brescia 1985, pp. 72-77.

[34] Così intitolano il loro articolo Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli, «Mezzo giorno e mezzo no. Realtà, rappresentazioni e tendenze del cambiamento meridionale», in Meridiana - Rivista di storia e Scienze sociali 10, cit.

[35] Ivi , 23. Aggiungevano: «Cambia tutto. E' cambiato tutto. Ma il Mezzogiorno sembra inamovibile, ai primissimi posti nella graduatoria dei grandi problemi italiani. Né si può fare a meno di notare un aspetto paradossale di questa persistente centralità. La questione meridionale non finisce nemmeno quando ad essa se ne contrappone un'altra opposta e speculare, quella del Nord. Anzi: neanche la "questione settentrionale" impedisce al Sud di proiettare la sua ombra sullo spazio civile del nostro paese (Questione settentrionale, "Meridiana" 1993)».

[36] Non si può negare che i tradizionali rapporti tra centro e periferia proprio alla luce della globalizzazione debbano essere drasticamente rivisti, se è vero che la mondialità si alimenta di ed alimenta una corrispondente località. Tra i diversi approcci a tale problema, cf. D. Farias, «Mondialità dell'età contemporanea e contemporaneità della storia locale», in Id., Emergenze della cultura contemporanea e coscienza dei principi del diritto, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 19982, 9-20.

[37] Sono questi gli argomenti dei capitoli del libro di M. Alcaro, Sull’identità meridionale. Forme di cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Milano, 1999.

[38] Cfr.  F. Cassano, «Premessa, cit., V-VIII.

[39] Ivi, VIII.

[40] F. Cassano, Paeninsula, cit., 11.

[41] Ivi 12.

[42] «Mezzogiorno oggi» cf. il numero monografico ad esso dedicato di Meridiana - Rivista di storia e Scienze sociali 10 (1996/maggio-settembre), cit. 11.

[43] Ivi, 24.

[44] La tipologia dell'appartenenza delle popolazioni meridionali ritenuta in genere più religiosa che ecclesiale è stata ed è oggetto di studio. Cf., a riguardo, D. Pizzuti -  C. Sarnataro - G. Di Gennaro - S. Martelli, La religiosità nel Mezzogiorno. Persistenza e differenziazione della religione in un'area in trasformazione, Franco Angeli, Milano 1998.

[45] Quanto al documento della CEI sul Mezzogiorno, occorre innanzi tutto premettere che essendo un atto del magistero sociale dell'Episcopato italiano, la sua prospettiva è esattamente di valutazione etica e muove dalla ricerca di quella "religione più pura e di una giustizia più piena" di cui parlava la lettera ormai famosa redatta da una parte dell'episcopato meridionale nel 1948, dal titolo «I problemi del mezzogiorno« (Cf. I Vescovi dell'Italia Meridionale, Lettera collettiva, Domenica di Settuagesima, 25.1.1948: Enchiridion CEI, vol. IV: 2793-2840.

[46] Il giudizio alquanto amaro non ignora singoli interventi soprattutto al Sud, di cui informiamo anche altrove nel testo, ma registra un calo di attenzione sull'argomento, come documenta A. Sindoni, «Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà. Per una lettura storica dieci anni dopo», in Studium  95 (1999/5) 817-833.

[47] Cf., a riguardo, i contributi dello scrivente: G. Mazzillo, «Legittimità di una teologia dal contesto», in Vivarium 1 n.s. (1993) 51-63; Id., «Modelli ecclesiologici e contesto mafioso», in AA.VV., Chiesa e lotta alla mafia, a cura dell'Osservatorio Meridionale, La Meridiana, Molfetta (BA) 1992, 35-62. E per una maggiore contestualizzazione sul piano della Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale, cf., oltre a quanto già citato, S. Muratore – P. Giustiniani, Quale teologia per il Mezzogiorno d’Italia?, Piemme, Casale Monferrato 1994; Convegno dell’Istituto Teologico Calabro «Per un discernimento teologico-pastorale dell’ethos meridionale» (Catanzaro, 12-14 marzo 1998), in Vivarium, 6 n.s. (1998) n. 2; testi del Convegno del 1996 su Teologia e chiesa nel Sud Italia. Memoria, coscienza, progetto; in particolare, . M. Giordano, «Teologia e chiesa nel sud in un’Italia che cambia», in Asprenas 43 (1996).

[48] Cf V. Salvati, «Domande e risorse etiche dal contesto del Sud», in D. Graziani e I. Schinella (a cura), Quale etica..., cit., 41-61.

[49] Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e mezzogiorno, Enchiridion CEI/4: 1919-1981.

[50] Sulle annotazioni sul cattolicesimo meridionale tra fede e religione cf. A. Russo, «Il cattolicesimo nel mezzogiorno: una religione con poca fede?», in D. Pizzuti -  C. Sarnataro - G. Di Gennaro - S. Martelli, La religiosità nel Mezzogiorno..., cit., 46-63.

[51] L'idea ricompare ancora, ad esempio, in interventi come quello di  G. Agostino, «Teologia e Chiesa nel Sud d'Italia», in Vivarium 4 ns (1996) 35-49.

[52] Cf. Conferenza Episcopale Calabra, La visita del Papa in Calabria, Fasano, Cosenza 1985.

[53] Cf. G. Agostino,   «Teologia e Chiesa...», cit., 43-45.

[54] Così ad esempio, oltre ai testi già citati, cf. Aa. Vv., L'impegno nella solidarietà per lo sviluppo del Mezzogiono. Atti del Convegno di Studi - Cosenza 26/27 Aprile 1991, Fasano, Cosenza 1991.

[55] Cf. F. Cassano, Paeninsula, cit., 61-62.

[56] Ivi, 62.

[57] S. Martelli, «Modelli di Chiesa, etiche sociali, sviluppo del Sud. Contributo dell'analisi sociologica per una lettura dei segni», in D. Graziani I. Schinella (a cura), Quale etica per il Sud d'Italia, cit., 167.

[58] Cf J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977.

[59] A. Sabatino, «La Calabria e la sfida del Duemila», in Conferenza Episcopale Calabra, La Calabria di fronte a Gesù Cristo Maestro e Signore alle soglie del Terzo Millennio. Atti del III Convegno Ecclesiale Regionale, Paola 28/10-1/11/1997. Tutto ciò significa una revisione del luogo comune del mezzogiorno come pura e semplice periferia o appendice. Proprio il Mezzogiorno, alla luce di quanto emerso deve acquistare nella pratica e nella considerazione culturale e politica  quella funzione che alcuni studi le riconoscono in linea di principio. Cf. M. Mariotti, Guida al documento dell'episcopato italiano: sviluppo e solidarietà. Chiesa Italiana e Mezzogiorno, «Quaderni del Brutium» 1, Progetto 2000, Cosenza 1990.

[60] B. Sorge, «Chiesa e Mezzogiorno», in Asprenas 46 (1999) 75-84.

[61] L'espressione è nel documento Sviluppo nella solidarietà, cit., n.3, ma fa riferimento a diversi interventi di Giovanni Paolo II che ne sono alla base.