Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Cristo nostra speranza in Calabria (Vibo Valentia Marina 05/03/2006)

Introduzione: dall’ascolto alla sequela di Gesù

“Rispondere”. Così s’intitola quest’ultima parte del nostro convegno. Ma per poter rispondere con consapevolezza, profondità e lungimiranza dico subito che abbiamo bisogno ancora e innanzi tutto di ascoltare. Potrete dire che lo abbiamo già fatto, e ciò in parte è vero. Lo abbiamo fatto ascoltando le testimonianze, le analisi, i desideri e i progetti più belli che ci portiamo nel cuore. Ora però, per poter tirare delle conclusioni che riaprano e non chiudano quanto è emerso, ribadisco che tra le tante parole ascoltate e le parole dette, abbiamo bisogno di ritornare ad ascoltare la Parola, quell’unica Parola che è la Verità e la sorgente di ogni altra parola. Abbiamo bisogno di ascoltare Cristo, Logos, cioè ragione prima ed ultima di quanto esiste. In lui ed in vista di lui ogni cosa esiste, Lui, vero aldilà di ogni parola, cioè di ogni nostra analisi, di ogni nostra denuncia, di ogni nostro progetto. In lui ed in vista di lui esistono le nostre singole esistenza e l’esistenza di noi come aggregato umano; di più:  come comunione di persone, come popolo di Dio che vive in Calabria e che è sangue e carne di gente di Calabria. Solo ascoltando nuovamente, ascoltando costantemente Cristo, saremo in grado di accoglierlo e di seguirlo come nostra speranza in Calabria.

Ascoltare Cristo sì, ma partendo da dove? Cominciando da quali parole? Evidenziando quali itinerari sui quali camminare e camminare insieme?

La proposta è di ripartire da quella sue parole generatrici di vita e di speranza, che uno dei suoi discepoli, il “discepolo che amava” (oltre che colui che egli amava), l’evangelista Giovanni, ha saputo individuare e fissare per sempre.  Il discepolo dell’amore sa riscrivere la vita di Gesù secondo un codice di amore, ma è l’unico codice che ci consente di afferrare qualcosa del mistero di dolore e d’amore di quel Gesù che ama ogni uomo e tutti gli uomini, e pertanto anche la nostra terra.  Forti della conferma venuta dalla prima enciclica di Benedetto XVI “Deus caritas est”, sapremo rispondere alle attese del convegno e delle nostre Chiese di Calabria solo se saremo stati in grado di accogliere l’amore di Dio, l’amore che è Dio, facendone un progetto di vita, un impegno quotidiano, una ragione unica e ultima per vivere e per morire in Calabria.

Le parole generatrici di speranza dalle quali partire sono quelle che segnano le tappe fondamentali del vangelo del discepolo che ama e perciò comprende, del discepolo che sente e perciò propone e vive la speranza. Il suo è l’esempio di un pensiero sensibile, o se si vuole di un pensiero amante. Ma non è di questo che abbiamo tutti bisogno proprio per continuare a credere e sperare anche contro ogni speranza? Per donare amore in situazioni di disgregazione e persino di degrado, di paure e di minacce, di indifferenza e di egoismo?

Con questo spirito vi invito a ripercorrere 5 tracce di speranza, che sono anche tracce di luce e di progetto:  1) l’acqua che zampilla di Spirito e di vita eterna,  2) il pane che sfama il corpo e sazia la nostra sete di Dio, 3) la luce che illumina il nostro cammino, 4) il pastore che ci conduce alla libertà, 5) il Vivente che ci fa sfidare la morte.

1. L’acqua che zampilla di Spirito e di vita eterna  

La nostra realtà calabrese è ancora pervasa di un bisogno e di segni concreti di convivialità, che né le condizioni avverse, né circostanze storiche negative sono riusciti, ed io ritengo non riusciranno mai, ad estinguere. Questa consapevolezza si è rafforzata in me, pensando al primo dei segni operati da Gesù, quello delle nozze di Cana[1]. Un segno che ritengo particolarmente emblematico per noi per diverse ragioni.  La prima è il nostro insopprimibile bisogno della festa condivisa. Alla nostra predisposizione a condividere la gioia non solo con parenti ed amici, ma anche con estranei e forestieri, l’icona di Gesù che interviene ad una festa di nozze dice molte cose. È innanzi tutto un invito a continuare a credere nella e a praticare la  condivisione. La condivisione può e deve arrivare anche a sfidare le condizioni avverse. Essa rimane pertanto un grande valore e la fede in Cristo certamente la rende abile ad affrontare insufficienze, penuria, contrarietà. Le sei giare colme di acqua,  che Gesù trasforma in vino[2], costituisce un invito forte a fidarci di Gesù nell’affrontare con creatività problemi ed emarginazione, sottosviluppo e disoccupazione, sì da realizzare quell’indovinato programma che afferma “trasformare la nostra marginalità in tipicità”, programma attiguo al progetto di ricostruire una cittadinanza come prossimità e vicinanza.  

È possibile tutto ciò? Diventa possibile se la preghiera a Cristo, nostro Maestro e Signore[3], da preghiera talvolta consolatoria e alienante, individualistica ed egoisticamente interessata, diventa colloquio e dialogo aperto al mondo e agli altri. Si può e si deve compiere questo passaggio attraverso l’aprirsi a Cristo, uomo per gli altri. Ciò pur con il doveroso attraversamento della religiosità popolare, sempre da purificare ed elevare e passando attraverso il riferimento a Maria, Madre del Signore e madre della Chiesa, donna dell’ascolto e donna che rappresenta e presenta al Signore le attese e le speranze dell’intero popolo di Dio e di quella sua porzione che è in Calabria. 

Ciò significa anche fornire alle nostre situazioni di insufficienza e di penuria, di scoramento e di disistima,  quel supplemento di anima, di coraggio, di intraprendenza, che ci vengono sì dall’alto, ma cambiano la nostra realtà dal basso. Aprendo le nostre situazioni sociali e i nostri interventi in questo campo a ciò che li motiva spiritualmente, li apriremo a quella dimensione Altra, che ci rende testardamente fedeli, fedeli di quella fedeltà che, nonostante ogni avversità, partecipa della coerenza fino alla fine del “testimone fedele” che è Cristo. La nostra realtà sociale ha bisogno non solo di un supplemento di analisi, ma di un supplemento di anima. In quanto operatori sociali, perché tutti, sebbene in maniera differente, lo siamo, abbiamo bisogno di essere illuminati da quell’Amore che è eterno amore, perché restiamo fedeli all’amore delle nostre radici, ma anche, all’amore del nostro futuro. Se talora avvertiamo la tentazione di essere solo acqua che non vale e non giova, l’ascolto di Gesù farà sì che la nostra acqua si trasformi in vino, che la nostra disistima si trasformi in forza propulsiva dell’amore. Sicché “rinati dall’alto”[4], nella nostra realtà sentiamo zampillare la Sua vita eterna[5].  Aderendo al Cristo che ha garantito che chi si sarebbe abbeverato a Lui (cioè alla sua Parola e al suo modo di essere e di agire) avrebbe visto sgorgare dal suo seno «fiumi di acqua viva»[6], potremo vedere sgorgare ancora dalla nostra terra non rivoli, ma fiumi di speranza. L’incapacità a stare in piedi o a tenere il passo con la storia potrà essere superata se, ribattezzati in una fede cristiana ridiventata speranza, sapremo prendere il lettuccio delle nostre deficienze e inefficienze e camminare in avanti[7].

2. Il pane che sfama il corpo e sazia la nostra sete di Dio

Al pari dell’acqua e del vino, il pane nella nostra cultura mediterranea è di fondamentale importanza. Ma il pane è determinante per comprendere e seguire Gesù anche nel Vangelo di Giovanni. Annalena Tonelli, la volontaria italiana uccisa il 5 ottobre 2003 in Somalia aveva suggellato la sua vita, interamente spesa per gli altri in situazioni di povertà sociale estreme, con parole che ci riconducono immediatamente al cuore del Vangelo e direttamente al messaggio di Gesù:

«... la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’Amore è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti e poi tanti comandamenti ma ne ha uno solo, l’Amore, che non serve costruire cattedrali e moschee, né celebrare cerimonie e pellegrinaggi, che quell’eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi racchiude un messaggio rivoluzionario —“questo è il mio corpo fatto Pane perché anche tu ti faccia Pane sulla mensa degli uomini, perché se tu non ti fai Pane non mangi un Pane che ti salva ma mangi la tua condanna -”».

Se i più recenti congressi eucaristici (tanto a livello nazionale che internazionale) hanno potuto mettere in relazione l’eucaristia con l’ineludibile bisogno della condivisione[8], già il libro degli Atti degli apostoli  coglieva una volta per tutte il rapporto esistente tra frazione del pane e condivisione dei beni, ascolto della Parola degli apostoli e  attività sociale[9].

La comprensione del pane da parte di Giovanni è anche in questo caso la più idonea, perché avviene nel contesto dell’amore, l’unico contesto capace di reggere all’urto di dell’amore radicale contenuto nell’eucaristia ed espresso da essa.

Agli occhi più attenti di coloro che tra noi leggono la realtà attraverso un approccio non disincarnato, ma sensibile e partecipe, la situazione della Calabria - per i suoi gravi e mai denunciati problemi della povertà, delle ingiustizie subite, della disoccupazione, dell’inefficienza delle strutture, dei continui e reiterati inganni e calcoli fatti sulla pelle dei poveri - deve apparire con tutta la drammaticità di chi si chiedeva come Andrea nel Vangelo: «C'è qui  un  ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma  che  cos'è  questo  per  tanta gente?»[10].  Ci sentiamo tutti come Andrea, anche in questo convegno, a fronte delle analisi e dell’enormità dei problemi da esse evidenziati e  ci sembra davvero che le nostre proposte possono apparire in proporzione ancora più inadeguate di quei cinque pani e di quei due pesci per una folla che superava le cinquemila persone.

A noi, però, come ai discepoli, Gesù dice di provvedere con i nostri mezzi, i nostri poveri mezzi, a tanto bisogno. Proprio i nostri mezzi, sebbene limitati, saranno investiti di un valore inimmaginabile se saranno ispirati dalla condivisione e supereranno le logiche individualistiche o di consorteria, quelle puramente materialistiche o meramente matematiche. La matematica da sola può in questi casi solo dividere, assottigliando, solo l’amore che condivide può, invece, moltiplicare. E di fatto moltiplica. E tutto ciò comincia a capirlo anche una certa economia, più attenta alla globalità dell’uomo e a tutte le sue risorse, andando al di là della considerazione del solo aspetto monetario e finanziario.

Gesù è speranza per la nostra terra di Calabria anche per questa ragione. Perché ci invita a ricevere e a condividere un pane che è come una breccia luminosa che squarcia il muro degli egoismi individuali e corporativi e ci fa intravedere il cielo. Per questa ragione noi cristiani di Calabria non possiamo solo pensare ai problemi, ma dobbiamo avere sempre a cuore le persone che in essi soffrono e gemono. Queste ci stanno sommamente a cuore, come stanno a cuore a quel Gesù, che nel suo discorso sul pane diceva che suo cibo era fare la volontà del Padre e questa era che nessuno andasse perduto di quanti gli erano stati affidati[11].  Noi calabresi dobbiamo vivere la nostra sequela di Gesù come responsabilità per gli altri, in particolare per i più svantaggiati e per coloro che hanno meno opportunità.  

In effetti, in quanto popolo di Dio che è in Calabria, abbiamo bisogno urgentemente di pane, cioè di lavoro, di opportunità reali di sviluppo, ma non solo di ciò che può soddisfare il corpo o i puri bisogni materiali.  Guardando realisticamente alle regioni più ricche del Nord del nostro Paese e del mondo, ci accorgiamo quanto l’avanzare del solo benessere materiale abbia disatteso le sue promesse di felicità. Né poteva essere diversamente, dal momento che l’uomo non è solo una bocca da sfamare o un fascio di istinti da soddisfare, ma è fessura che si apre sull’Infinito. Ha sempre impellente bisogno d’Infinito, perché si alimenta solo di esso, come il materiale fotosensibile che si illumina solo al contatto con la luce. Non vogliamo ripetere lo stesso errore, trasmettendo la convinzione pagana che la vita si realizzi autoalimentandosi dei suoi istinti. Vogliamo che la Calabria non perda la sua innata e radicata percezione spirituale che fa cogliere il cielo anche nell’abisso del dolore e fa innalzare il canto anche nei momenti di accorata disperazione.  Dobbiamo essere in grado di trasformare il disagio in molla propulsiva, fino a valorizzare le nostre ataviche e più recenti ferite come fessure che si aprono sull’Infinito.  Dobbiamo formare i nostri giovani a fare altrettanto. Pertanto ci impegniamo ad attingere dall’eucaristia non solo le ragioni della nostra speranza, ma il fondamento stesso della speranza, il vigore profetico che ci abilita a parlare davanti agli uomini e ci fa anticipare proletticamente il futuro. Ci impegniamo ad attingere la speranza come profezia da quel pane che è Cristo, il pane del cielo, ma come anticipo di una salvezza che se va verso un suo compimento definitivo, può e deve venire gia in questa dimensione terrena[12].

3. La luce che illumina il nostro cammino

Anche la luce è uno dei temi più suggestivi e più importanti del Vangelo di Giovanni e della vita cristiana. La nostra meridianità dipende fondamentalmente dalla luce. Dalla luce del sole e da tutto ciò che è collegato alla luce, dai colori che in essa risaltano al calore che riscalda e dà vita, dalla nitidezza dei cieli agli immensi spazi che si aprono sul mare. Della luce abbiamo bisogno a livello fisico e biologico,  a livello psicologico e spirituale. La luce indica ancora trasparenza nei rapporti, sincerità nei comportamenti, affidabilità di sé all’altro.

La nostra terra visitata ed abitata da tanta luce non sempre esprime la stessa luce in tante situazioni. Le analisi mettono spesso in risalto violenze occulte e trame oscure che arrivano a progettare e realizzare la sottomissione dell’altro (dipendenza clientelare e di genere simile), lo spadroneggiare sulle sue risorse (usura e strozzinaggio), il taglieggiamento delle sue attività produttive (“pizzo” e tangenti),  il controllo mafioso del territorio e di ogni genere di risorsa (incluso lo smaltimento dei rifiuti). Su una terra nata per essere terra di luce e di luminosità hanno luogo sovente intrecci inconfessabili di torbidi affari che pescano nella violenza e generano violenza. La Calabria, al pari dell’intero Mezzogiorno e non solo di esso, ha bisogno allora di luce, di chiarezza, di trasparenza.

Ha bisogno di una cultura della chiarezza oltre che della legalità, della trasparenza, oltre che della giustizia. L’impegno delle nostre Chiese, e di quanto nasce al loro interno come attività formativa, deve assumere al più presto questa finalità come finalità prioritaria del suo operare e del suo essere. Non può restare cieca di fronte alle situazioni torbide che innervano singoli e istituzioni, uomini comuni e uomini di cultura e che irretiscono privati cittadini e personaggi politici. Gli uomini e le donne di Chiesa, poi, cioè quanti hanno a che fare con il Vangelo, non possono e non debbono assolutamente tollerare l’incultura malsana dell’intrigo, delle situazioni ambigue, peggio ancora della mafia e della delinquenza organizzata.

Chi è dalla luce deve venire alla luce ed agire nella trasparenza, perché, come dice Gesù, 

«Chiunque (…) fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21).    

A Cristo, nostra speranza, dobbiamo ancora guardare e da lui ci dobbiamo lasciar guidare, dando peso storico e concretezza esistenziale alla sua affermazione cardine, allorché egli proclama:

«Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).

Attraverso la riconquista della luminosità della vita e dei rapporti passa la riconquista della libertà, memori di quanto dice ancora colui che ci restituisce la vista come la restituiva ai ciechi nati o a quanti erano diventati tali: 

«se dunque il Figlio  vi  farà  liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,36).

Potranno i nostri cristiani, potremo noi tutti essere pienamente liberi, esserlo davvero? Dove attingere l’energia necessaria per alzarsi in piedi e scuotere il giogo delle nuove e delle vecchie oppressioni? Ancora una volta nella frequentazione intensa e fedele, accorata ed amorosa di colui che non può fare altro che presentare se stesso come esempio supremo di trasparenza davanti al Padre e davanti al mondo, davanti a tutti, sicché tutti dovranno alzare lo sguardo e vederlo come supremo atto di protesta contro ogni ingiustizia e come suprema attestazione dell’amore che non si arrende nemmeno davanti al totale naufragio della propria esistenza. Ecco le sue parole, il suo testamento. Sono di una chiarezza insuperabile:  

<<Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo»>> (Gv 8,28).

E ancora: «Io,  quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,23).

Sarà allora ancora una volta l’amore la prova convincente e il richiamo irresistibile della luce. Fino a uscire di nuovo – ed insieme – allo scoperto,  fino a dichiarare, memori della lezione dei giovani di Locri «e adesso ammazzateci tutti». Fatelo, se potete, perché in effetti non potrete farlo, non solo perché ciò fa saltare ogni calcolo e ogni possibile interesse e guadagno, ma perché l’amore è già insuperabile da solo, ma se è condiviso, diventa invincibile.

Un popolo che cammina ancora per una certa parte nelle tenebre è chiamato alla luce - e ciò avviene adesso – e la sua luce significa la frantumazione di ogni giogo che opprimeva le sue spalle, la sua storia, la sua dignità e la sua fierezza[13].

4. Il pastore che ci conduce alla libertà,

Con queste considerazioni siamo già al tema del pastore che ci conduce alla libertà. Nonostante il gran parlare di libertà, spesso a scopo propagandistico, l’analisi sul suo livello effettivo da noi raggiunto e raggiungibile non è agevole, né semplice. Sul versante della vita pubblica e civile, la parola “libertà” va insieme con le parole “democrazia”, “identità” “cittadinanza”, “giustizia”, “pace”,  ma anche con “concorrenza”, “realizzazione di sé”, “difesa della propria civiltà”, “esportazione della democrazia”. Sul versante della vita privata è pari ad essa solo la parola “amore” in tutte le sue variazioni, e così pure le parole “sentimento”, “affetto”, “sensibilità”, “emozione”, “religione”, “religiosità” e simili.

Senza poter entrare nel vivo delle numerose questioni che ciascuna di queste realtà,  la pace e l’amore, tanto complesse quanto indispensabili, solleva, una prima e immediata osservazione nasce proprio dalla constatazione della eccessiva separazione, avvenuta principalmente nel nostro mondo occidentale, tra i cosiddetti valori pubblici e quelli privati che sono qui in gioco. Siamo arrivati all’effetto di confinare nella sfera pubblica tutto ciò che è di carattere generico, globale, razionale e di relegare nella sfera privata tutto ciò che invece si collega ai sentimenti, alla sensibilità, alla religione. Con l’eccezione della libertà. Questa è contemplata e inseguita, propagandata e offerta al miglior acquirente sia sul piano pubblico e sociale sia sul piano personale ed esistenziale.

Si è detto, a ragione, che anche la libertà può andare soggetta alla sua ideologizzazione. E così in effetti succede, quando essa è idolatrata, fino ad arrivare a una sua concezione fondamentalista. Come in ogni fondamentalismo anche la libertà diventa insensibilità e tirannia sugli altri, violenza ed esportazione della guerra, pratica della tortura e controllo e indottrinamento delle coscienze. Come cristiani, non solo dobbiamo denunciare queste storture, ma proporre e praticare già nelle nostre chiese quella libertà solidale e responsabile che ci fa riprendere e assecondare nei fatti l’affermazione di Paolo: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi!»[14].    

La Parola di Dio e la tradizione magisteriale della Chiesa non hanno sottovalutato l’importanza della libertà a tutti i livelli. La stessa storia dell’alleanza di Dio con il suo popolo è una storia intrisa non solo di aneliti insopprimibili di libertà, ma anche di reali effettuazioni di essa, come dimostra esemplarmente la vicenda dell’esodo dall’Egitto e del ritorno dall’esilio babilonese. Anche Gesù ha avuto sommamente a cuore la libertà umana, come attesta ogni pagina di Vangelo, nel mostrarcelo come colui che restituisce continuamente gioia e dignità ai malati e agli emarginati, ai peccatori e agli oppressi, ai disperati e agli infelici di ogni genere.

Egli ha gioito di gioia indicibile nel constatare come proprio costoro accoglievano la “lieta notizia” della loro liberazione. E a loro si è rivolto dicendo:

   «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-29).

 Del resto tutto ciò era la realizzazione del suo mandato messianico, teso a portare la gioia agli infelici, la liberazione agli oppressi, la lieta notizia ai poveri[15]. Il Vangelo di Giovanni contiene una delle espressioni più ardite, nell’indicare la libertà come processo e come termine della ricerca della verità, la stessa con la quale Gesù si identifica:

«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

Per la nostra realtà sociale, dove le promesse di libertà sono le più propagandate e non di rado le più illusorie, la parola di Gesù è ancora una volta di importanza fondamentale.  Egli ci suggerisce innanzi tutto che Dio vuole la nostra libertà e non la nostra oppressione.  Ciò vale a tutti i livelli. Dobbiamo pertanto liberare una certa religiosità ancora immatura e talora masochista, che considera Dio più come padrone che come padre e la vita umana sulla terra più come punizione da scontare che come missione da vivere.

Inoltre, la parola di Gesù mette direttamente la libertà in inscindibile rapporto con la verità. Ora è proprio la verità il criterio di discernimento della libertà. Questa non può esistere  senza quella. Una libertà offerta con la menzogna, o perseguita o da perseguire con il raggiro o con la sopraffazione degli altri, non è libertà. Una libertà offerta e/o conseguita per calcolo come spazio chiuso solo per sé e per il proprio gruppo non è libertà, ma solo una forma raffinata di egoismo.

 Si può uscire da questa concezione della libertà innanzi tutto se si supera la separazione già accennata e si recupera il valore di un pensiero non astratto, né individualistico, ma sensibile e partecipe. Solo se la libertà è aperta all’amore e permeata di esso può essere una libertà condivisa e pertanto vera. Gesù è anche in questo caso Maestro e artefice della nostra libertà, perché è il buon pastore e non il mercenario[16]. Egli è il custode e il guardiano della nostra libertà. Veglia su di essa e così devono fare i nostri pastori e così dobbiamo fare tutti, perché il fascino irresistibile della libertà non si tramuti in nuove e pervasive forme di schiavitù. Dobbiamo impegnarci ad esercitare questo servizio della custodia della libertà anche quando gli altri non se ne rendessero conto perché è come se dormissero su un effimero quanto illusorio benessere![17].

Come popolo di Dio che vive in Calabria abbiamo tutti da imparare dal Cristo buon pastore. Abbiamo da realizzare un accompagnamento delle nostre popolazioni. Un accompagnamento che rifugge protagonismi e gratificazioni, che sia teso più alla libertà e alla realizzazione di quanti ci sono affidati che a quella di una propria carriera o di un proprio autonomo progetto di vita.  Cristo costituisce anche qui una sicura speranza e un’insuperabile risorsa, perché, oltre a purificare ogni giorno le nostre intenzioni, ci aiuta a smascherare i “venditori di illusioni”, che offrono libertà dietro pagamento e falsi paradisi, a patto di compromessi con il male, con la mistificazione e con la sopraffazione degli altri o almeno con una imprendibile indifferenza.

 5. Il Vivente che ci fa sfidare la morte

Siamo così giunti all’ultimo punto della sintesi. Non è un punto da poco, perché qui si tratta di vita e di morte, vale a dire della nostra intima, insopprimibile e radicale volontà di vita e dell’impatto con la realtà violenta, esterna e alienante della morte. Il Vangelo di Giovanni, scelto come guida  di questa riflessione, pone giustamente a culmine della rivelazione di Gesù  quest’aspetto.  Si tratta di un dato che coincide anche con la conclusione della vicenda di Gesù e in cui proprio Gesù, quando è giunta “la sua ora” alla fine appare come colui che vince la morte e ci dà una vita piena e definitiva.

Che cosa può dire tutto ciò a noi che abbiamo tanto amore per la vita e viviamo in una terra ancora insanguinata e segnata da tanti lutti, dei quali stentiamo persino a tenere il calcolo? Come attingere da Cristo non solo ogni volta, ogni giorno, l’amore per la vita, quando tanti nostri conterranei, tanti fratelli sono ancora minacciati di morte? Quando persino sacerdoti e laici, uomini socialmente impegnati e semplici cittadini di passaggio, sono stati falcidiati dalla violenza omicida della malavita organizzata?

Lasciamoci ancora istruire da Gesù. Egli è colui che non ci lascia predare dalla morte, ma per noi, i suoi amici, si consegna volontariamente alla morte[18]. Egli ci insegna una fedeltà non altisonante, ma che si consuma nella quotidianità; un testimonianza non eclatante, ma che non indietreggia nell’ora della prova; una compagnia dei più piccoli non rumoreggiante, ma che sa rischiare con loro.

  Il segreto di tutto ciò è la consapevolezza che egli ha vinto la morte e l’ha vinta per sempre. Le sue parole sono chiare: «A  voi  miei  amici,  dico: Non temete coloro che uccidono  il  corpo  e  dopo non possono far più nulla» (Lc 12,4). Il suo regno è già da questa terra il regno di coloro che in lui vincono la morte, perché «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna»[19]. “Ha” al presente e non solamente al futuro.

La vittoria di Cristo sulla morte significa la vittoria anche sugli altri aspetti negativi della nostra condizione umana ad essa collegati. Ci impegna, come suoi seguaci, innanzi tutto al risanamento dei rapporti interumani, chiamati ad essere rapporti riconciliati e interdipendenti nel bene e in una progettualità autopropulsiva, che si fa carico dei bisogni dell’altro e della collettività[20].  Ci impegna a creare e a favorire una rinnovata rete di relazioni reciprocamente costruttive. In questo ci impegna a riscoprire la cittadinanza non solo come luogo, ma come modo di vivere, impostando la progettualità su un registro di qualità di vita tale, da essere degna di essere vissuta, senza idolatrare l’appartenenza, ma sapendo restare come pellegrini sulla terra. Ci impegna ancora nella salvaguardia del creato. Il problema dell’inquinamento in Calabria non può lasciare indifferenti noi cristiani. Abbiamo avuto il dono di una terra straordinariamente bella. Dobbiamo sentire tutti il dovere, e inculcare tale senso del dovere, di una straordinaria tutela di tanta ricchezza. Infine abbiamo ricevuto il dono – ed è quello più grande – della fede in Cristo, dobbiamo riscoprire tutto ciò che sta a cuore anche a lui, perché siamo davvero suoi discepoli, perché crediamo non solo in Cristo, ma anche in tutto ciò per cui egli è vissuto ed ha dato la sua vita. A lui, Risorto, sia per sempre la gloria!


 

[1] <<Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà»>> (Gv 2,3-5).

[2]   <<Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le giare»; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui>> (Gv 2,6-11).

[3] Vedi Paola 3.

[4] <<Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete rinascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito»>>(Gv 3,5-7).

[5] <<Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore, gli disse la donna, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua»>> (Gv 4,13-15).

[6]  <<Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato>> (Gv 7,37-39).

[7] <<Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina». Gli chiesero allora: «Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina?»>> (Gv 5,11-12).

[8] Cf. l’affermazione centrale del discorso iniziale del cardinale Iniguez, all’apertura del Congresso eucaristico Internazionale di Guadalajara: «Il Pane eucaristico è allo stesso tempo un’esigenza e un modello di condivisione».

[9] Cf. At 2, 42-48; At 4,32-35;At 5,12-16.

[10] <<Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero>>. (Gv 6,5-11).

[11]  <<Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dá il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dá la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. Tutto ciò che il Padre mi dá, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno»>> (Gv 6,32-39).

[12] <<Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»>> (Gv 6,48-51); <<Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui»>> (Gv 6,52-56).

  

[13] Tornano in mente le immarcescibili parole di Isaia «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda. Poiché il giogo che gli pesava e la sbarra sulle sue spalle, il bastone del suo aguzzino tu hai spezzato come al tempo di Madian» (Is 9,1-3).

 

[14]   «Cristo  ci  ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il

giogo della schiavitù» (Gal 5,1).

[15] Lc 4, 17-21: <<Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi»>>.

[16] «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (Gv 10,11-15).

[17] Emblematica e toccante è risuonata al convegno la testimonianza su Domenico Golemme, rimasto a vegliare su Cavallerizzo, il cui abitato era portato via da una frana, e che ha salvato i suoi compaesani dando l’allarme nel momento più critico.

[18] «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,12-15).

[19] «Il  Padre  ama  il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio incombe su di lui» (Gv 3,35-36).

[20] È ciò che il Prof. Fantozzi indicava parlando della “regolazione sociale”.