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Appunti sull’ecclesiologia di Dietrich Bonhoeffer. Intervento al convegno su D. Bonhoeffer. Parrocchia Madonna di Pompei. Catanzaro 22/04/07

Il mio contributo sul pensiero ecclesiologico di Bonhoeffer si basa per buona parte sullo studio della sua opera sistematica Sanctorum Communio, la sua tesi universitaria con il prof. Seeberg, accettata ufficialmente dalla facoltà di teologia di Berlino il 10 agosto 1927. Tiene conto anche di alcuni suoi sviluppi, indicati, a partire da Hanfried Müller, in altre due successive tappe: l’ecclesiologia della chiesa confessante (bekennende Kirche, tra il ‘33 e il ‘39) e quella appena intuita e lucidamente schizzata di una chiesa per il mondo adulto, laico e non religioso dell’ultimo periodo della sua vita.

In ciascuna di queste tre fasi ecclesiologiche – sostiene Italo Mancini, nella sua lunga presentazione della Sanctorum communio - Bonhoeffer è

«duro assertore di questo svincolamento dalla statualità, di questa libera comunione, di questa funzione popolare e unificatrice, da parte della chiesa, dello spazio del mondo»[1].

Si tratta di un’ecclesiologia che diventa però confessante, al pari della stessa chiesa, fin dagli esordi, visto che la concezione di Bonhoeffer sulla chiesa è decisamente anti-ideologica e non riducibile ad appartenenze regionali o confessionali. È di così ampio respiro che il teologo potrà dichiarare dal carcere, quasi a suggello di una ricerca di autenticità senza riserve e senza sconti:        

«La chiesa è chiesa solo se e in quanto esiste per gli altri. Per cominciare, deve dare ogni suo avere agli indigenti. I pastori, devono vivere esclusivamente dei contributi volontari della comunità, eventualmente devono esercitare una professione laica. La chiesa deve collaborare ai doveri profani della vita sociale, non dominando, ma aiutando e servendo»[2].

Ma prima di arrivare a questa conclusione, che rappresenta il vertice e il senso di un’intera biografia teologale, oltre che teologica, sarà bene cercare di capire i diversi passaggi, veri e propri attraversamenti esistenziali, oltre che culturali, che gli hanno consentito di arrivare fin a questo punto.

Li ricondurremo a questi paragrafi:

1) L’uomo esiste solo in una relazione sociale (persona e comunità);

2) Il ritrovarsi come comunità nel Dio di Gesù Cristo (società e comunità);

3) L’amore per l’altro come amore autentico e non strumentale (amore di Dio e amore del prossimo);

4) Comunione come partecipazione a un comune destino (identità comunitaria e solitudine esistenziale).

1) L’uomo esiste solo in una relazione sociale (persona e comunità)

Il punto di partenza sembra essere di duplice natura. È l’esperienza personale della chiesa come realtà viva e importante al di là dei pregiudizi confessionali, e, nello stesso tempo, una solida tradizione filosofica, a partire da quella classica greca, sulla natura dell’uomo come essere costitutivamente sociale.

L’esperienza del valore della chiesa è riconducibile al soggiorno di Bonhoeffer a Roma, nel 1924 (primavera-estate). Il suo attardarsi nella basilica di San Pietro e dintorni, la scoperta del valore della confessione tra i cattolici (compresi i più giovani), il senso di appartenenza avvertito durante le celebrazioni, gli fa confidare nel suo Tagebuch (diario): «Credo che comincio a comprendere la nozione di chiesa»[3].

Non è solo l’emozione d’un istante, come quando annota nel Tagebuch il suo congedo da Roma, con le parole: «Quando ho visto San Pietro per l’ultima volta, mi sono sentito male al cuore, sono salito svelto nel tram e mi sono allontanato»[4]. È la constatazione di qualcosa di cui sente la mancanza e il bisogno, perché scrive:

«C’è una parola che risveglia, presso il cattolico, quando l’ascolta, tutti i sentimenti dell’amore e della pietà..., che provoca in lui il sentimento chiaro della casa paterna..., il luogo della sua infanzia. C’è una parola che, per il protestante, risuona come qualcosa di infinitamente banale, di più o meno indifferente e superfluo..., si associa spesso all’idea di noia... Sì, ‘chiesa’, è questa parola che abbiamo dimenticata»[5].

Il bisogno esistenziale di una ecclesialità più visibile si collega in Bonhoeffer alla netta convinzione circa la natura fondamentalmente comunitaria dell’essere umano. Collegando inestricabilmente il valore della comunità a quello della persona, Bonhoeffer passa in rassegna gli schemi tradizionali di questo legame, riconducendoli alla razionalità (Aristotele), all’eticità (Stoicismo), all’utilità (epicureismo) e alla stessa soggettività conoscente (Cartesio e Kant). Conclude che se essi sono tutti insufficienti e tuttavia

«L’uomo sa di capire gli altri, di poter esprimere se stesso ed essere capito. Queste tre esperienze sono legate l’una all’altra. Esse sono presenti almeno potenzialmente in tutti gli atti spirituali, e così tutti gli atti spirituali sono connessi almeno potenzialmente con la socialità»[6].

Da tale strutturale, costitutiva apertura dell’uomo al rapporto con l’altro derivano, secondo la lezione di F. Tönnies[7], sia la comunità sia la società. La comunità è capofila di forme aggregative, come la famiglia, il popolo, la chiesa; la società si esprime invece in forme come le “società per azioni”, le associazioni e anche le sette (secondo Weber – Troetsch), mentre Scheler indicava come “comunità di vita” qualsiasi comunità, perché in essa l’uomo manifesta realmente la sua natura vitale[8].

In ogni caso la base costitutiva di qualsiasi forma di vita sociale è per Bonhoeffer l’affermazione del valore del tu, fondamento di ogni comunità, fino a scrivere:

«Bisogna innanzitutto richiamare l’attenzione su quello che abbiamo detto all’inizio sul nesso fra Dio, comunità e singolo. Allora il singolo esiste solo grazie ad un ‘altro’; il singolo non è l’’unico’. Per poter essere il singolo, anzi, gli è assolutamente necessario che ci siano ‘altri’. Ma che cos’è l’’altro’? Se io definisco il singolo come l’’io’ concreto, l’altro è il ‘tu’ concreto. Ma che cosa significa ‘tu’ dal punto di vista filosofico? In primo luogo, ogni ‘tu’ presuppone un ‘io’, immanente al ‘tu’ e senza del quale il ‘tu’ non potrebbe affatto essere distinto da una forma di oggetto. In tal modo ‘tu’ equivarrebbe all’ ‘altro io’. Ciò, tuttavia, è esatto solo a certe condizioni. Al di là del limite conoscitivo posto alla gnoseologia, ce n’è un altro proprio della conoscenza o riconoscimento, etico-sociale. L’altro deve essere sperimentato vitalmente dall’’io’ semplicemente come ‘tu’, non come esso stesso ‘io’, cioè nel senso dell’’io’, che è diventato tale solo per l’appello da parte di un ‘tu’.

Ma a questo riguardo, occorre tener presente che per Bonhoeffer il ‘tu’ è possibile perché c’è Dio, anzi il ‘tu’ è una

«proprietà mutuata da Dio… È vero piuttosto che è solo il ‘tu’ divino a creare quello umano e che quest’ultimo è un ‘tu’ reale, assoluto e santo come anche quello divino, in quanto è fatto e voluto da Dio. A questo punto si potrebbe parlare dell’uomo come immagine di Dio in relazione alla sua efficacia operante sugli altri…»[9].

La conseguenza di questa concezione della persona, che si realizza attraverso il ‘tu’ il cui valore e fondamento è il ‘tu’ di Dio, è che socialità e comunione, società e chiesa hanno una reciprocità:

«In concomitanza essenziale con la comunione con Dio si instaura la comunità sociale, non che la prima unicamente dia l’impulso alla seconda, ma non esiste senza la seconda, come viceversa»[10].

Ma non si tratta solo di questo. Qui è in gioco il valore assoluto della persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, ed è a partire dal valore infinito dato alla persona umana che si possono capire anche le scelte esistenzialmente drammatiche di Bonhoeffer . Il rispetto assoluto dovuto alla persona umana lo porterà ad opporsi radicalmente al nazismo e capire e presentare la chiesa come “chiesa confessante”, anche quando la maggior parte dei cristiani sia cattolici sia evangelici si piegava ai provvedimenti nazisti lesivi della dignità umana. Non senza una profonda ragione teologica e con il coraggio e la carità di chi si muove su una linea di assoluta obbedienza a Dio e nel rispetto totale dell’altro, Bonhoeffer poteva scrivere un volantino contro “il paragrafo ariano nella chiesa” nell’agosto del 1933, prima del «sinodo bruno» (braune Generalsynode)[11], che emarginò totalmente la piccola frangia degli oppositori al nazismo. Vi troviamo, tra le altre parole coraggiose e profetiche, anche questo passaggio:

«L’esclusione dei cristiani ebrei dalla comunità della chiesa [come pretendeva il paragrafo ariano] distrugge la sostanza della chiesa di Cristo: infatti in primo luogo si torna indietro rispetto all’opera di Paolo, rispetto al presupposto che fosse stata spezzata ogni barriera fra giudei e gentili dalla croce di Cristo (…) in secondo luogo la chiesa, nell’escludere i cristiani ebrei, mette in vigore una legge, che deve essere soddisfatta prima di poter far parte della comunità ecclesiastica, cioè la legge razziale… Una chiesa che oggi escluda gli ebrei cristiani … con ciò ha rinnegato il vangelo a vantaggio della legge»[12].

Il testo è di quella chiarezza evangelica che egli poco più tardi indicherà come l’unica via praticabile per il cristiano, a costo anche si mettere a rischio se stessi:

«La veridicità richiesta da Gesù ai suoi discepoli consiste nel rinnegamento di sé (Selbstverleugung) che il peccato non nasconde. Tutto è chiaro e luminoso»[13].

2) Il ritrovarsi come comunità nel Dio di Gesù Cristo (società e comunità)

 Conformemente alla sua teologia luterana di partenza, Bonhoeffer vede tuttavia radicalmente compromessa la realizzazione della dimensione sociale dell’uomo. I motivi di tale sfiducia risiedono da un lato nella situazione peccaminosa dell’uomo, dall’altro nel fatto che solo in Dio, origine o fondamento del rapporto ‘io’ ‘tu’, può esprimersi la relazionalità umana.

Richiamando Fichte, Bonhoeffer afferma che solo in Dio è possibile la nostra possibilità di comprenderci, di ri-conoscerci. In una lunga nota, che vale la pena di riprendere egli scrive:

«La questione della ‘sintesi del mondo degli spiriti’ fu esaminata da FICHTE con più serietà che da tutti gli altri pensatori. Egli fu l’unico a riconoscere che il fatto che altri uomini vivano in una ‘libertà spontanea’ è un problema filosofico, e che in esso risiede l’esplosivo dell’intero sistema: in che modo l’uno va verso l’altro, in che cosa risiede la comune origine degli uomini? Le risposte di Fichte sono molteplici e tuttavia molto simili l’una all’altra…[14] La sintesi del mondo degli spiriti si trova in Dio. Se noi possiamo comprenderci l’un l’altro, ciò dipende soltanto dal fatto che deriviamo tutti da Dio. Dove gli uomini si incontrano ad un livello profondo, lì c’è Dio; in Dio, a sua volta, c’è la piena unità di tutti nello spirito. Se si esclude Dio, ognuno rimane estraneo all’altro e non rimane altro che una pluralità di io atomistici»[15].

Bonhoeffer va comunque oltre e, appellandosi direttamente alla rivelazione, ritiene che la chiesa è qualcosa di comprensibile solo a partire da questa. Proprio essa ci mostra le ragioni delle difficoltà a realizzare la comunità e la possibilità di superarle. Infatti la comunità sociale è come infranta: spezzata dalla colpa; e ciò è avvenuto fin dalle origini, quando la frattura con Dio ha anche comportato l’immediata frattura della comunione fra gli esseri umani. Tra Dio e l’uomo si è come incuneata una terza potenza, il peccato, che ha minato nelle sue varie dimensioni la giusta e originaria relazione ‘io’ ‘tu’.

A riguardo, il teologo commenta:

«Un simbolismo più tardo relativo a questo evento è la raffigurazione medievale del peccato originale: nel mezzo, l’albero intorno al quale si avvinghia il serpente; ai due lati, l’uomo e la donna, separati dall’albero di cui, con un atto di disobbedienza, hanno mangiato il frutto»[16].

Ma la rivelazione non si ferma alla descrizione della colpa e alla sanzione che ne è derivata. Contiene anche la lieta notizia di un risanamento radicale operato dalla volontà salvifica di Dio. Riprendendo sistematicamente e abbondantemente la dottrina prima medioevale e poi specificamente luterana della sostituzione vicaria, Bonhoeffer indica nella Sanctorum communio è il superamento della peccatorum communio grazie alla giustificazione di Cristo.

Aggiunge tuttavia che per essere rettamente intesa la Sanctorum communio deve superare due equivoci: uno storicizzante l’altro religioso.

Per il primo la chiesa è semplicemente la comunità religiosa; per il secondo la chiesa è il regno di Dio. Ma contro la prima concezione erronea c’è la realtà biblica dell’elezione, confermata dall’affermazione giovannea: «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16); contro la seconda c’è il fatto che la storia umana non può essere bypassata. Va al contrario assunta in tutta serietà e il resto tanto della sua ecclesiologia che della sua vicenda storica va decisamente in questo senso.

Intanto è importante annotare la natura teologale della chiesa stessa. Essa nasce e resta solo nell’alveo della fede:

«Il concetto di chiesa è pensabile solo nella sfera della realtà posta da Dio, cioè non è deducibile. La realtà della chiesa è una realtà basata sulla rivelazione, e alla sua essenza spetta il poter essere o creduta o negata. Se dunque vogliamo trovare un criterio adeguato a giustificare la rivendicazione della chiesa di essere comunità di Dio, ciò è possibile solo se ci si pone dentro la chiesa, e si accetta con fede questa sua rivendicazione»[17].

È interessante notare, a questo proposito, che si tratta di una fede esplicita richiesta specificamente per la chiesa come tale e non di una qualche derivazione dalla fede, ad esempio la fede in Cristo. Al punto di affermare:

«Sarebbe anche del tutto sbagliato partire dalla fede in Cristo per ‘fondare’ come necessità concettuale la fede nella chiesa. Ciò che è necessario sul piano concettuale, non per questo è necessariamente già reale. Invece, non c’è alcun rapporto con Cristo in cui non sia implicito necessariamente il rapporto con la chiesa. Dal punto di vista logico, dunque, la chiesa ha il suo fondamento in se stessa e può essere giudicata solo sulla base di se stessa, come tutte le rivelazioni in genere»[18].

Ciò non vuol dire separare Cristo dalla Chiesa. Al contrario, la chiesa è per Bonhoeffer il «Cristo esistente come comunità» (Christus als Gemeinde existiriend). Nonostante l’idea di fondo possa sembrare di derivazione hegeliana, a ben considerare le cose, ci troviamo sulla linea biblica del Nuovo testamento, a partire dall’indicazione di Gesù che afferma: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) fino al richiamo dello stesso Gesù a Paolo sulla strada di Damasco, nell’identificazione di se stesso con i discepoli perseguitati da Paolo (cf. At 9,4-5)[19].

Insomma, senza Cristo non avremmo nemmeno la comunità dei salvati, cioè la chiesa. La sua mediazione è indispensabile perché è attraverso Cristo che viene vinta l’«impotenza collettiva d’amore», un’impotenza che di fatto sperimentiamo nel mondo, nonostante tutte le attestazioni della sociologia, che già ai tempi di Bonhoeffer affermava per larga parte che il mondo umano non può essere altro che un mondo comunitario.

3) L’amore per l’altro come amore autentico e non strumentale (amore di Dio e amore del prossimo)

L’importanza attribuita da Bonhoeffer alla chiesa non è solo teoreticamente teologica. È, come si diceva, anche teologale. Nasce cioè in un’esperienza autentica segnata da una fede che, vivendo l’amore del prossimo come sequela di Gesù, sa sfidare, in un’indistruttibile speranza, ogni potenza avversa all’uomo e alla comunità così come sono stati pensati da Dio e riconciliati da Cristo.

A questo riguardo bisogna dire che all’autenticità della fede per se stessa corrisponde nel pensiero di Bonhoeffer il valore di una carità da vivere come effettiva carità per l’altro e non per ragioni surrettizie, nemmeno di natura teologica. È così che l’appartenenza alla chiesa significherà per Bonhoeffer appartenenza a una chiesa che confessa, con la fede in Cristo, l’indisponibilità di principio ad appoggiare il razzismo.

Contro Barth, che vede nel prossimo solo l’occasione per incontrare Dio (chiamato “l’Uno”) e non piuttosto l’altro in quanto altro, Bonhoeffer afferma invece, secondo la sintetica ed efficace ricostruzione di I. Mancini,

«l’amore ama veramente l’altro, non l’Uno nell’altro - questo Uno forse non esiste affatto (doppia predestinazione!) -, e proprio quest’amore dell’altro come altro deve glorificare Dio… Dio ha reso infinitamente importante ‘il prossimo in sé e per sé’, e per noi non esiste un altro ‘in sé’ del prossimo! ... Devo dunque in ultima analisi ritrovarmi solo nel mondo con Dio?»[20].

La determinazione con la quale il teologo evangelico si muove nasce anche dal suo superamento di qualsiasi forma di individualismo salvifico, tanto che egli proclama con chiarezza:

«La comunione con Dio esiste solo ad opera di Cristo, ma questi è presente solo nella sua comunità, cosicché la comunione con Dio c’è solo nella chiesa. Di fronte a questo dato di fatto, fallisce ogni concetto individualistico di chiesa. Fra il singolo e la chiesa c’è il seguente rapporto incrociato: lo Spirito Santo agisce solo nella chiesa, in quanto è comunità dei santi»[21].

Si tratta di una comunione che, nella ricostruzione attraverso gli appunti di alcuni uditori delle lezioni sulla chiesa tenute da Bonhoeffer nel semestre estivo del 1932, è sintetizzata in questi punti dottrinali:

«La chiesa è costituita (gesetzt) in Cristo e attraverso Cristo… Egli agisce come nuova umanità» [ne è cioè il suo rappresentante agente (stellvertretend Handelnder)]. Dal concetto della rappresentanza si ricavano le seguenti determinazioni per la configurazione (Gestalt) della chiesa: 1) Cristo è la stessa comunità. 2) Cristo è il Signore della comunità. 3) Cristo è il fratello nella comunità»[22].

Tutto ciò contiene in estrema sintesi la concezione dell’essenza della chiesa per Bonhoeffer, ma ciò che colpisce è il riferimento non a una chiesa astrattamente intesa, bensì alla comunità dei credenti, che di Cristo sperimentano la signoria e la fraternità, la sua rappresentanza degli uomini presso il Padre e tutta la novità di una comunità umana che, grazie al lui, è già all’opera.

Con il realismo teologico, che dà consistenza alla sua fede nel Cristo presente nella chiesa, che ne è il suo corpo, il teologo scriverà più tardi, nel libro Nachfolge (Sequela) in un capitoletto intitolato «Il corpo di Cristo» :

«L’andarsene di Gesù non significa per i suoi alcuna perdita, ma piuttosto un nuovo dono. I primi discepoli nella comunione (Gemeinschft) fisica con Gesù non potevano avere niente di più di quanto abbiamo noi oggi. Sì questa comunione è più stabile, più piena, più certa di quanto non lo fosse per loro. Noi viviamo nella piena comunione del presente fisico-corporeo (leiblich) del Signore trasfigurato. La grandezza di questo dono non può restare nascosta alla nostra fede. Il corpo di Cristo è il fondamento (Grund) e la certezza della nostra fede, il corpo di Cristo è un dono completo (vollkommene Gabe), nel quale diventiamo partecipi della salvezza, il corpo di Cristo è la nostra nuova vita. Nel corpo di Cristo siamo arrivati da Dio all’eternità»[23].

E tuttavia questa assoluta certezza di essere con Cristo e attraverso di lui con quanti a lui aderiscono come membri del suo corpo che è la chiesa, non impedisce quella forma di solitudine, che più che un impedimento o una fuga rispetto alla comunità, ne permette invece un inserimento più libero e più consapevole.

Ragionando sull’irriducibilità dell’elemento più proprio che resta in qualsiasi rapporto ‘io’ ‘tu’, nell’insostituibilità della propria esperienza, Bonhoeffer lo collega alla decisione etica come insormontabile tipicità personale. Pone così le basi per quelle decisioni in tempi difficili, che a lui non sono state di certo risparmiate[24].

Ciò che è qui in gioco non è una sorta di armonizzazione dei soggetti della comunità, ma il valore assoluto della responsabilità etica che incombe a ciascuno, proprio in nome e per amore della comunità[25], in forza di quell’essere per gli altri che Bonhoeffer aveva già intravisto come dato fondamentale nella stessa persona di Cristo[26].

Con questa fondazione cristologica, la chiesa che ne è il la comunità e la parola[27] è Gemeinde, comunità appunto, oltre che Gemeinschaft (comunione). È nuova umanità in Cristo, il nuovo Adamo, è comunità eletta fin dall’eternità, realtà che in parte si identifica con Cristo, in parte se ne differenzia (per il suo scarto escatologico) e perciò resta strumento di riconciliazione con Dio e di riconciliazione interumana. La socialità infranta è così risanata:

«Il filo che correva tra Dio e l’uomo, e che il primo Adamo spezzò, viene di nuovo annodato da Dio nel momento in cui egli rivela in Cristo il suo amore, non accostandosi più all’uomo come un puro e semplice ‘tu’, in tono di chi chiama ed esige, ma donandosi come ‘io’, aprendo il suo cuore. La chiesa ha le sue radici nella rivelazione del cuore di Dio. Come però il laceramento che si verificò nell’originaria comunione con Dio si estese anche alla comunità umana, così dove Dio ristabilisce la comunione degli uomini con lui, si ristabiliscono rapporti comunitari fra gli uomini, conformemente a quanto abbiamo detto in precedenza sul nesso essenziale che c’è fra la comunione divina e la comunità umana. In Cristo, l’umanità è realmente innestata nella comunione con Dio, così come essa era caduta in Adamo»[28].

Occorre, anche aggiungere, a onor del vero, che secondo la teologia “teorica” di Bonhoeffer, tutto ciò avviene non attraverso la “solidarietà” di Cristo con l’umanità, ritenuta impossibile, ma – in maniera proto-luterana – attraverso la sostituzione vicaria. Solo questo principio, secondo Bonhoeffer, «può diventare fondamentale per la comunità di Dio in Cristo e per Cristo»[29].

In ogni caso, la chiesa rappresenta anche la «nuova volontà di Dio nei riguardi degli uomini»[30] e pertanto una realtà gia compiuta e contemporaneamente ancora da completare nel tempo e nella storia, attraverso l’opera dello Spirito Santo[31].

4) Comunione come partecipazione a un comune destino (identità comunitaria e solitudine esistenziale)

In questo ultimo passaggio sintetico sull’ecclesiologia di Bonhoeffer si può concludere che se proprio attraverso la chiesa Gesù rappresenta l’intera storia dell’umanità, la chiesa nasce dalla solitudine di Gesù sulla croce, che in quella solitudine esprime anche la comunione più intima:

«Sorge così per noi la paradossale realtà di una comunità della croce, che nasconde in sé la contraddizione di presentare allo stesso tempo un isolamento estremo e la comunione più intima. E questa comunità è quella specificamente cristiana. Esiste però una sola comunità della croce, quella generata dal messaggio pasquale; nella risurrezione di Gesù Cristo, la sua morte si rivela come morte della morte, ed in tal modo viene tolto e risolto quel limite della storia che è posto dalla morte; il corpo umano è diventato il corpo della risurrezione e l’umanità di Adamo è diventata la chiesa di Cristo»[32].

La comunità della croce sembra contenere anche la caratterizzazione della chiesa come sequela Christi e come cammino in avanti suscitato e sostenuto continuamente dallo Spirito Santo:

«Come realtà empirica, la chiesa poteva essere creata solo dallo Spirito Santo. Nella risurrezione, essa è ‘creata’ solo in quanto ha percorso ormai la sua storia dialettica. Essa è realizzata, non attualizzata. Nella risurrezione, il cuore di Dio è passato attraverso la colpa e la morte e si è conquistata veramente la sua nuova umanità, l’ha assoggettata alla sua sovranità»[33].

Il giorno della fondazione della chiesa come ‘attuazione’ è per Bonhoeffer la pentecoste, giorno dell’effusione dello Spirito Santo.

Essere in comunità con Cristo e con il suo Spirito attraverso la Chiesa non si oppone alla “solitudine” del singolo, chiamato a un cammino di crescita, di santità, perché lo Spirito Santo

«si accosta a ogni persona nella sua singolarità e la porta alla ‘solitudine’. Lo Spirito Santo rende ‘solitari’ i membri della sua comunità non solo nel rivolgersi ad essi, ma anche nel dono che esso fa»[34].

Possiamo aggiungere che ciò avviene nel dono totale anche di sé stesso, cui il singolo un giorno, al pari di Bonhoeffer potrebbe essere chiamato.

È questa la strada sulla quale siamo incamminati e sulla quale bisogna amare non per essere corrisposti, ma per amore, come dono di sé, senza riserve, sulla scia di quel Dio che ci ha amato e ci ama senza riserve.

Ed è questo, come si diceva, quell’amore reale come amore del prossimo reale:

Infatti:

«L’amore cristiano ama il prossimo reale, non perché abbia un’inclinazione, un compiacimento nella sua individualità, ma perché egli come essere umano si rivolge all’altro, cioè perché sperimenta in questo ‘tu’ la chiamata di Dio. Tuttavia, egli qui non ama Dio nel ‘prossimo’, ma ama il ‘tu’ concreto, lo ama ponendo al suo servizio se stesso e tutta la sua volontà. … Ora, l’amore che ama solo il prossimo non è determinato finalisticamente, ma scaturisce dal momento. Esso è ambedue le cose. Dall’uomo che lo ama, Dio vuole il vero amore del prossimo» (pp. 119-120).

Da quest’amore reale, come partecipazione dell’amore perdonante di Dio, discende in forza della Sanctorum communio anche il potere di rimettere i peccati:

«Così, siamo arrivati all’ultimo problema che ci consente di conoscere nella sua massima profondità il prodigio della comunità, cioè nell’affermazione che il singolo può perdonare all’altro i suoi peccati, con pieni poteri sacerdotali. Fu Agostino che riconobbe questo fatto come possibile solo nella comunione dei santi. Soltanto ad essa si riferisce la promessa di Gv 20, 23, perché soltanto in essa c’è lo Spirito»[35].

Se, come afferma Bonhoeffer, Lutero riprende la concezione agostiniana secondo cui la sanctorum communio porta su di sé la colpa dei suoi membri, ciò significa anche che grazie a Cristo, che prende su di sé ogni colpa,

«ci è data l’immensa grazia e misericordia di Dio, affinché in ogni nostra calamità deponiamo ogni tormento sulla comunità, e in particolare su Cristo, ogni mia disgrazia diventa comune a Cristo e ai santi »[36].

Si tratta di un recupero sul piano teologale-pratico della solidarietà in una ecclesiologia che ci vede partecipare a un comune destino, a cominciare da quello esistenziale che segna l’itinerario di ogni essere umano, particolarmente minacciato dalla tragedia della guerra. Bonhoeffer scriveva nella sua «prima circolare del tempo di guerra»:

 «La morte è tornata tra noi e noi dobbiamo pensarci, che lo vogliamo o no. Due cose negli ultimi tempi sono diventate per me importanti in proposito: la morte è fuori di noi ed è in noi. La morte che viene dal di fuori è il terribile nemico che ci attacca quando vuole. È l’uomo armato di falce, sotto il cui taglio cade il fiore ... Non possiamo nulla contro questa morte… Ma altra cosa è la morte in noi, la nostra propria morte. Anch'essa è in noi a cominciare dalla caduta di Adamo. Ma essa appartiene a noi personalmente»[37].

Ma anche in questa situazione, anzi soprattutto allora l’appartenenza a Cristo e l’essere chiesa di Cristo ci chiama a un compito che non possiamo disattendere e che Bonhoeffer e altri martiri, cioè testimoni, come lui non hanno disatteso.

Egli ne era completamente convinto. Nello stessa pagina troviamo infatti scritto:

«Questa morte in noi ha qualcosa a che fare con l'amore per Cristo e per l'uomo. Noi ne moriamo quando amiamo di cuore Cristo e i fratelli, poiché amare significa darsi interamente a colui che si ama. Questa morte è grazia ed è compimento della vita. Possiamo chiedere nella preghiera di morire di questa morte, di riceverla in dono, di essere colpiti dalla morte che viene da fuori solo quando ci siamo preparati a riceverla per mezzo dell’altra morte, accettata personalmente allora la nostra morte sarà realmente solo il passaggio al perfetto amore di Dio».

Ma, si badi bene, non si tratta di una reazione consolatoria privatistica. La sua ecclesiologia porta alla fine Bonhoeffer a intravedere per la chiesa un compito che ha a che fare con la pace e con la difesa del futuro dell’uomo. Infatti aggiunge:

«Quando intorno a noi il conflitto e la morte esercitano il loro selvaggio dominio, allora noi siamo chiamati a testimoniare l'amore e la pace di Dio, non solo con le parole e i pensieri, ma anche con l'azione. Leggete Giac. 4,1 ss[38]. Quotidianamente chiediamoci dove possiamo testimoniare con l'azione quel regno in cui domina l'amore e la pace. Solo dalla pace tra due o tre persone può finalmente risultare la grande pace in cui speriamo. Poniamo fine ad ogni odio, sfiducia invidia. “Beati i pacificatori,perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9)»[39].

Forse avrà pensato anche a questo e a molto di più allora. La sua un’ecclesiologia dalle aule universitarie e dai pulpiti delle chiese era diventata ecclesiologia confessante ed ecclesiologia praticata nei campi di concentramento. Così avrà pensato, quella mattina della domenica in Albis 1945, a Schönberg, quando alla richiesta da parte dei suoi compagni di prigionia di un breve culto mattutino, Bonhoeffer accondiscendeva dietro l’insistenza anche dei prigionieri cattolici e di Kokorin, nipote di Molotov. Ed egli leggendo i testi della domenica, oltre a pregare, aveva spiegato il brano di Isaia: «Per le sue lividure noi abbiamo avuto la guarigione» (Is 53,5) e «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere, mediante la risurrezione di Gesù Cristo, dai morti a una speranza viva» (1 Pt 1,3). E mentre parlava la porta si era spalancata con il grido: «Prigioniero Bonhoeffer, prepararsi a venir via!». Allora lui aveva semplicemente detto «È la fine, ma per me l’inizio della vita». Di lì a poco, sommariamente processato a Flossenbürg, si era avviato lunedì 9 aprile verso l’esecuzione. Allora prima di togliersi gli abiti da prigioniero, si era inginocchiato in preghiera e così aveva fatto anche prima di salire al luogo della forca. Forse pensava di portare con sé il peccato di quell’inaudita violenza, ma di certo portava con sé la sicura speranza, fondata in Cristo, dell’invincibile vittoria dell’amore su ogni violenza, della venuta un giorno di quella pace, solo costruendo la quale noi tutti diventiamo figli di Dio[40].

 

 

 


 

[1] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa, Con un'introduzione di Italo Mancini, Herder, Morcelliana, Brescia 1972, XIV.

[2] D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Milano, Bombiani 1969, 279-280.

[3] Citazione da D. BONHOEFFER, Sanctorum communio.. cit., XII che la riporta da E. BETHGE, Eine Biographie, 87 (trad. italiana Dietrich Bonhoeffer. Una biografia, Queriniana, Brescia 1975).

[4] Ivi, XIII (E. BETHGE, Eine Biographie, 88).

[5] Ivi, XV, (E. BETHGE, Eine Biographie 91-92).

[6] Ivi, 41.

[7] Cf. Gemeinschaft und Gesellscahft, Leipzig 1887.

[8] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit, 60.

[9] Ivi, 31-32.

[10] Ivi, 37.

[11] A questo sinodo della chiesa veteropussiana, del 5-6 settembre 1933, seguì il sinodo nazionale di Wittenberg del 27 settembre dello stesso anno.

[12] D. BONHOEFFER, Gli scritti (1928-1944), Queriniana, Brescia 1979, 374-375.

[13] Cf., a commento di Mt 5,33-37, l’intensa e profetica riflessione sulla Veridicità (Wahrhaftigkeit) in D. BONHOEFFER, Nachfolge, Kaiser Verlag, München 1981, (or. 1937), 114, da dove ho tratto questa citazione (mia traduzione), mentre nella pagina precedente ci sono espressioni meno radicali: «Il comandamento della totale veridicità è solo un altro termine per la radicalità (Ganzheit) della sequela. Solo chi è unito a Gesù nella sequela sta nella piena veridicità. Non ha niente da nascondere davanti al suo Signore. Egli vive scoperto (aufgedeckt) davanti a lui».

[14] Il rimando è a all'opera di E. Hirsch, Die idealistische Philosophie und das Christentum, Gutersloh 1926, e Fichtes Gotteslehre [Religionsphilosophie], Göttingen 1914, 140/290, in particolare 260 ss.

[15] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit ., 21-22, nota 89.

[16] Ivi, 37.

[17] Ivi, 87.

[18] Ivi.

[19] «…e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti!».

[20]D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit ., XX.

[21] Ivi, 111.

[22] D. BONHOEFFER, Das Wesen der Kirche. Aus Hörernachschriften zusammengestellt und herausgegeben von Otto Dudzus, Kaiser Verlag, München 1971, 47.

[23] D. BONHOEFFER, Nachfolge…, cit., 206.

[24] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit ., 30. Il testo è complesso, ma contiene questo riferimento all’insostituibile decisione etica personale: «Il mio ‘io’ può essere sperimentato vitalmente come forma ‘tu’ soltanto dall’altro ‘io’, il mio ‘io’ come forma ‘io’ soltanto da me; ciò significa, dunque, che la forma ‘io’ dell'altro non sarà mai compresente in modo immediato nell'esperienza vissuta del ‘tu’. Ciò significa però che io posso essere rimesso nei limiti da un ‘tu’ che non è ancora diventato ‘io’ nel senso delle relazioni ‘io-tu’. Così, la forma ‘tu’ si può definire come l'altro che mi spinge ad una decisione etica. Con questo rapporto ‘io-tu’ come relazione cristiana fondamentale, siamo però andati in linea di principio al di là del rapporto gnoseologico soggetto-oggetto. Allo stesso modo, è messo pure da parte il concetto del ‘tu’ come altro ‘io’. Se l’altro sia anche un ‘io’ nel senso del rapporto ‘io-tu’, è cosa per me imperscrutabile. Ciò trova la sua applicazione anche al concetto di Dio. Dio è un ‘tu’ impenetrabile, la cui personalità metafisica, concepita come assoluta autocoscienza e assoluta autoattività, non dice nulla del suo ‘io’ nel senso già esposto».

[25] La riflessione così prosegue: «A questo punto, ci chiediamo se l'affermazione che il ‘tu’ non è necessariamente ‘io’, non sia in contraddizione con il concetto di una comunità fondata su persone. Non ne viene forse che in ultima analisi la persona è completamente isolata? Solo a contatto con il ‘tu’ sorge la persona, e tuttavia la persona si trova in un isolamento completo. Nella sua unicità, essa è per principio separata e diversa dalle altre persone; in altre parole, la persona non può conoscere l’altra persona, ma soltanto riconoscerla, ‘credere’ in essa. La psicologia e la gnoseologia si fermano qui; il carattere di persona etica proprio dell'altro non è qualcosa di afferratile sul piano psicologico, né una necessità gnoseologica».

[26] E che non si tratti di un atto volontaristico, ma di un dato dogmaticament fondato lo si trova chiaramente espresso nella stessa impostazioen cristologica di BONHOEFFER, come ad esempio in questo passo: «Gesù Cristo è per i suoi fratelli, in quanto egli sta al loro posto. Cristo sta davanti a Dio per la sua nuova umanità. Se è così, così è la nuova umanità. Là dove l’umanità dovrebbe stare, là sta lui a rappresentarla,in forza della sua struttura che è struttura dell’essere-per-me» (D. BONHOEFFER, Christologie, Kaiser Verlag, München 1981, che ripropone la lezione di Berlino del 1933).

[27] Cf. ivi: «Christus als Gemeinde», pag. 37.

[28] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit ., 99.

[29] Ivi, 100.

[30] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit ., 95.

[31] Ivi, 96.

[32] Ivi, 104-105.

[33] Ivi, 105.

[34] Ivi, 113.

[35] Il riferimento è a Gv 20,22-23: «Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo;

a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» e secondo la teologia luterana non si riferisce solo al potere del ministro, ma al potere di tutta la chiesa in generale.

[36] D. BONHOEFFER, Sanctorum communio…, cit ., 139.

[37] D. BONHOEFFER, Gli scritti, cit., 663.

[38] «Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni

che  combattono  nelle  vostre membra? Bramate e non riuscite  a  possedere  e  uccidete;  invidiate  e  non

riuscite  ad  ottenere,  combattete  e fate guerra!...» (Gc 4,1-2).

[39] D. BONHOEFFER, Gli scritti, cit., 663-664.

[40] Queste ultime informazioni sono ricostruite sulla base di R. GRUNOW, «Dietrich BONHOEFFER», in P. VANZAN - J. SCHULTZ (a cura di), Mysterium Salutis 12. Lessico dei teologi del secolo XX, Queriniana, Brescia 1978, 586-592 e rimandano alla già citata biografia di Bethge.