Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Teologia, pace, ecologia [Campo Scuola a Tortora-Sarre, 5-12/8/91]

 

Voi vi aspettate da me un contributo teologico, che venga ad integrare ciò che altri che mi hanno preceduto hanno già presentato sul versante sia dell'informazione che dei movimenti civili che sono in fermento. In realtà, cosi come per loro, vale anche per la teologia il fatto che non c'è una buona o una cattiva teologia, come non c'è una buona o cattiva informazione. Se non c'è informazione, c'è disinformazione, c'è esercizio spavaldo di potere. Al contrario l'informazione quando è tale, si qualifica da sé. Cosi succede pure per la politica: o c'è politica, ossia servizio della gente, oppure non c'è politica, c'è servirsi della gente, o comunque spadroneggiare su di essa, usando spesso la mafia come utile strumento di dominio. In realtà un disservizio dei cittadini è già un abuso di potere ed è quindi già violenza di per sé.

Cosi pure per la teologia: o c'è una teologia degna di tale nome (e dovremo cercare, seppure brevemente di vedere che cosa questo significhi), oppure non c'è teologia, c'è ideologia teologica, anch'essa esercizio di potere. C'è un abuso del nome di Dio, ma non per servire Lui, né per servire gli uomini ma semplicemente per servire sé stessi o per servire un gruppo, una idea, una religione o qualcos'altro.

Ma arrivati a questo punto ci chiediamo: c'è, anche sul versante teologico, qualche fermento che possa indurre alla speranza e faccia guardare alla teologia come a un servizio reso non più soltanto a un'idea di Dio ma, in una tripolarità organica, come servizio a Dio, all'uomo e alla natura. Si può porre la questione in questi termini: il dialogo teologico interessa solo il binomio tradizionale Dio-uomo o è invece divenuto ineludibile nel servizio verso Dio e verso gli uomini il servizio alla natura?

Ponendo infatti la questione anche soltanto nei termini tradizionali (che tipo di dialogo c'è tra Dio e l'uomo?) viene a mancare il terzo elemento di una tripolarità che credo fondamentale per la stessa teologia e che include il "mondo", inteso nel senso cosmologico della parola, non più il mondo come realtà storica e sociale nella quale l'uomo vive, come semplice teatro dove l'uomo - salvato da Dio - vive la sua avventura, ma il mondo come una realtà ben integrata con l'uomo, come ambiente con cui egli interagisce. In questo caso si tratta di una realtà essa stessa salvata e sua volta salvifica per l'uomo e dunque avente un suo posto, una sua significanza tutta particolare nello stesso progetto di Dio e di converso nella stessa teologia.

Sono queste le domande, che non sono di poco conto, oggi vanno emergenti nella coscienza teologica, perché stiamo arrivando alla scoperta o, molto più modestamente, alla riscoperta del valore che questo terzo polo del dialogo teologico ha per l'uomo: La riscoperta della natura.

Noi veniamo da una visione teologica, quella medioevale, nella quale tutto era gerarchizzato in un modo rigoroso: Dio, l'uomo e la natura. In questa sequenza l'uomo aveva una posizione rigidamente subordinata e la natura era trattata ancora peggio dell'uomo. La teologia metteva al centro della sua riflessione Dio (e teologia significa immediatamente "discorso su Dio") ma fino al punto di ridurre tutto il posto dell'uomo (partner dialogante con Dio) ad un margine puramente periferico, di ricettore passivo, mentre la natura non aveva nessun'altra considerazione se non quella, appunto, di ambiente, di teatro, di palcoscenico dove si giocava la partita della salvezza, una specie di gioco a scacchi tra Dio e l'uomo.

Non potendo essere dimenticata del tutto, non potendo essere cacciata completamente dall'esistenza, la natura si prendeva una rivincita nelle forme vitalistiche pur sempre presenti nel medioevo e in tutto ciò che esprime questo rapporto primo tra l'uomo e il mondo: l'amore e l'odio, la gioia e il dolore, la pace e la guerra e soprattutto nell'arte. Ciò avveniva in maniera molto vistosa sul finire del medioevo e soprattutto nel rinascimento, dove lentamente la prospettiva cominciava a delinearsi in una maniera diversa perché si assisteva a una nuova polarizzazione dei poli tradizionali della teologia. Si è soliti indicare questa ripolarizzazione con il nome di antropocentrismo (cioè l'uomo al centro di quell'universo di senso, nel quale ogni cosa deve avere una sua collocazione, per poter essere capita). In questo modo se l'uomo diventava protagonista, Dio era pur sempre punto di riferimento del suo vivere e del suo morire, mentre la natura restava ancora elemento coreografico, anche se otteneva una valorizzazione molto notevole sul piano estetico. Basti pensare, per esempio, alle stupende pitture del '500, dove la natura appare sullo sfondo su cui campeggia la figura umana e vive soprattutto nei lineamenti dei personaggi ritratti. Ciò che attira sempre l'attenzione dell'artista e in pratica la sensibilità del tempo, è infatti l'uomo con i suoi sentimenti e i suoi problemi, con il suo soffrire e il suo gioire.

È però indubbio che passando da una visione teocentrica a una visione antropocentrica si mortifica ancora una volta la natura. In quest'approccio culturale, che ha anche contagiato la teologia fino a pochi decenni fa, l'uomo, con la sua centralità, viene presentato recentemente come esistenza, con tutti suoi problemi e soprattutto con la sua lotta per la vita e per la felicità, mentre di fronte a lui il polo tradizionale che è Dio è presentato dalla teologia di questo secolo come trascendenza e ulteriore superamento del limite umano.

Ma nonostante questo taglio antropologico, fino al punto che qualcuno parla di "svolta antropologica" o asserisce che la teologia rischia di diventare antropologia, manca ancora il terzo elemento oppure esso è ancora troppo marginale, per cui non è ancora effettivamente uno dei tre poli che devono essere in integrazione continua, cosi sono in realtà nella Bibbia, nella stessa antropologia biblica, dove l'uomo non è separato in anima e corpo, ma costituisce una unità, tanto che la natura plasma l'uomo completamente ed è informata da quel centro vitale, che è la spiritualità dell'uomo (dove per spiritualità, ovviamente, non s'intende affatto uno spiritualismo avulso dalla realtà ma un vivere davanti a Dio secondo il suo progetto di Dio assunto come proprio).

Questo progetto di Dio è - a quel che mi risulta e a quel che cerco di approfondire da qualche tempo - un progetto di pace e l'uomo viene chiamato ad esserne con-protagonista, perché Dio non fa a meno di lui, non perché non possa, ma perché non vuole farne a meno, dato il dialogo salvifico che Egli ha intrecciato con l'uomo e dato che questo dialogo è un dialogo dove il mondo, i rapporti umani e persino la natura stessa hanno un posto abbastanza preciso, disegnato, per esempio, dalle profezie messianiche, che ipotizzano e rilanciano continuamente la realtà complessiva verso una riconciliazione cosmica. Si tratta di una riconciliazione cosmica della quale il racconto delle origini è per cosi dire non proto-logico, una sorta di racconto preistorico, ma è invece profezia e utopia.

Stando così le cose, è giunto il momento per la teologia di non considerare più l'esistenza umana come un'esistenza che si gioca solo ed esclusivamente davanti a Dio, ma come un'esistenza che si gioca nel luogo dove l'uomo vive come incontro o come crocevia di una serie di relazioni (ivi incluse le relazioni con il cosmo, con i minerali che costituiscono il nostro corpo senza dei quali io non potrei parlare, voi non potreste ascoltare né leggere, e inclusi il sole, l'aria che respiriamo, l'ossigeno, le molecole). In una parola la teologia non può ignorare queste relazioni fondamentali con tutto ciò che ci circonda e che non troviamo semplicemente intorno a noi come alveo che ci accoglie, ma che troviamo dentro di noi, perché non solo l'uomo è nella natura ma la natura è nell'uomo ed essa parla in noi.

La teologia sta riscoprendo il valore forte di questa interazione profonda che l'essere umano ha con la natura, mettendo in forse la fredda e calcolata ideologia che vuole l'essere umano come mondo a sé stante. Infatti l'essere è di per sé un incontro di esseri, un'incontro con gli altri e pertanto "politico". Si tratta di una serie di relazioni che avvengono con la realtà circostante nella quale noi ci muoviamo e che "muove" ciascuno di noi e tutti noi.

Un mio amico coreano, discutendo con me del fatto che il mondo nostro occidentale fosse in balia del consumismo e dell'ateismo pratico, oltre che teorico, mi diceva: "Voi sbagliate tutto e il vostro errore consiste nel ritenere che la realtà esterna siate voi occidentali a farla esistere con un atto di pensiero. È la vecchia tentazione dell'idealismo, ma che voi non l'avete superata ancora perché pensate che da una parte ci sia l'uomo (l'io) dall'altra la realtà (possiamo chiamare questa realtà Dio o vita, oppure progetto utopico di società, oppure semplicemente mondo)". "Voi pensate -aggiungeva- di essere fuori dalla realtà o pensate, di potervi tirar fuori da essa, in modo da poter fare le vostre riflessioni su ciò che ritenete 'esterno' a voi e quindi permettervi di ritenere che il mondo vada così o vada colà, che Dio ci sia o non ci sia, che per gli altri io sia importante o non lo sia, che questo dipenda da me, e che gli altri mi siano importanti o mi sono indifferenti con un semplice atto di volontà o di pensiero".

Ragionare così è sbagliato, e anch'io me ne sono convinto, perché, parte da presupposto mai dimostrato, e comunque molto arrogante: che la realtà sia frutto di un progetto individuale, che di essa possa disporre a suo piacimento. Mai più che oggi, invece, dagli effetti che noi cogliamo, nella con-causazione generale dei tanti aspetti della vita che noi viviamo, è diventato chiaro che ognuno è per l'altro responsabile della costruzione del mondo. Ciò vale per l'informazione, per esempio, e vale per l'ambito più generale della politica, ma vale in maniera ancora maggiore per la teologia, che cerca di individuare le linee di un sistema che inglobi gli altri sistemi, nel quale le cose abbiano il loro senso, cioè non solo la loro origine ma anche il loro fine e il loro risultato.

Se questa analisi è giusta, bisogna riconsiderare il rapporto che noi abbiamo con Dio, perché le possibilità che si aprono sono due: o la fuga dal mondo reale, (che oggi è continuamente in agguato nello spiritualismo che riduce il rapporto religioso a una fede disincarnata e astratta, o sentimentale ed intimista) oppure assumere "l'altro" (gli altri esseri umani e l'altro come mondo) come base e soglia della propria coscienza e dire: "Io non sono uomo se gli altri non ci sono." Gli altri non sono un "optional" e la natura non è il frutto di una mia scelta, per cui posso farne a meno. In realtà, io sono una cosa sola con gli altri e con la natura. Non ci sarei se gli altri non fossero. Il mio io da solo non esiste. Il mio io più vero è in un incontro. È l'incontro.

Ma in questa maniera il rapporto religioso, alla fine, verrà a configurarsi come corresponsabilità e solidarietà effettiva, realistica con gli altri, non per moralismo, ma come conseguenza della stessa "natura delle cose".

Appena vent'anni fa dicevano alla Pax Christi, (ma l'hanno detto chissà a quanti altri): "Voi siete degli utopisti, perché pensate che il mondo possa arrivare al disarmo e che l'Est possa smantellare il suo apparato militare e ideologico, il suo materialismo. Ritenete che l'uomo possa vivere senza armi e senza eserciti. Questo è utopia!". In maniera analoga si diceva: «Ritenere di modificare il "progresso", limitandolo o indirizzandolo su altra rotta è pura illusione. È arrestare il corso della storia». Qualcuno di noi cominciava allora timidamente, a rispondere: «Guardate che forse è più utopistico (nel senso negativo del termine, cioè è illusorio) pensare che il mondo possa sopravvivere con queste premesse anziché pensare che il mondo dovrà cambiare rotta, se vorrà sopravvivere». Se le cose sono cambiate nel campo dei rapporti politici internazionali, non si registrano grandi miglioramenti in quello dell'ecologia. Oggi non si può più dire (e nessun uomo di buona volontà, come nessuno scienziato serio lo afferma) che il mondo possa sopravvivere se non si attivano dei correttivi di fondo nello stesso uso sconsiderato della natura e delle sue risorse, perché è veramente illusorio pensare ad una sopravvivenza dell'umanità con lo sperpero in atto di quanto è essenziale alla vita presente e futura della terra.

Ma, dal canto suo, la teologia arriva anche ad individuare il motivo perché tali cambiamenti debbano avvenire e avvenire subito. Il motivo è una solidarietà che noi riscopriamo come virtù teologale politica, nel senso che è una solidarietà che si estende non solo ad una dimensione orizzontale verso coloro che vivono oggi nel mondo, che siano vicini o meno vicini poco importa, ma si estende anche ad una dimensione che va oltre il tempo. Noi dobbiamo essere solidali anche con le generazioni future, altrimenti il mondo che consegneremo agli altri che verranno dopo di noi, sarà cosi rovinato da non essere più il mondo venuto fuori dalle mani di Dio e che era stato affidato alle nostre mani per essere migliorato, abbellito e perfezionato.

Con queste premesse, allora diventa chiaro che la teologia può fare e deve fare la sua parte, come riflessione critica sulla fede e sul rapporto religioso, fino in fondo, perché la teologia non è innocua, ma diventa prassi e diventa persino prassi pericolosa per alcuni, diventando denuncia verso il potere e verso i detentori del potere e diventa, nello stesso tempo, forza liberante verso quelli che nella società e nel mondo soffrono di più per l'esercizio di un potere diventato semplicemente celebrazione del proprio io, della propria casta e del proprio gruppo e quindi è diventato ateismo di fatto, ateismo praticante di chi non vive la dimensione della solidarietà né a questi livelli, nè a nessun altro livello. La teologia individua denuncia così l'esercizio del potere come potere che si presenta come perseguimento di un progetto egemone sulla società e per conseguenza sulla stessa natura. Vi riconosce l'antico peccato di Adamo e il rischio di un che Adamo aveva pur sempre rispettato. Il peccato più grave che l'uomo potesse mai commettere, oggi è diventato realtà. Se la creazione è l'atto più grande che Dio abbia potuto fare, insieme con la redenzione, il peccato più grave che realmente oggi sta davanti alla possibilità umana è l'atto della distruzione della creazione, l'atto anticreaturale per eccellenza. Occorre anche per queste ragioni mobilitarsi perché tale peccato sia scongiurato.

Terminerei qui il mio intervento, dicendo che proprio in questo luogo, che è purtroppo teatro di avvenimenti mafiosi che sembrano distruggere non solo le persone che sono sotto il tiro delle armi ma minacciano persino la nostra speranza, occorre reagire dicendo che se la mafia è distruzione della vita ed esercizio arrogante di violenza, la teologia si pone come riflessione sulle condizioni ottimali del vivere e come offerta di collaborazione al rispetto e alla salvaguardia della vita a tutti i livelli, incluso quello della salvaguardia del creato. Se dove c'è la mafia non c'è, come tutti sanno, rispetto della vita, non c'è nemmeno il più elementare rispetto per natura, ma il degrado ambientale.

Se la teologia oggi vuole essere un servizio a Dio e ai propri fratelli, e solo cosi potrà essere teologia, dovrà essere sempre più un servizio di pace, in quanto riflessione sul dato della parola di Dio e sul dato dell'agire storico dell'uomo, affinché la parola di Dio illumini sempre più profondamente l'uomo. Se mi chiedete di parlarvi di Dio in quanto teologo, io potrò sempre e soltanto dirvi: "Non vi posso parlare di Lui, vi posso dire però come dovremmo vivere alla luce della Sua parola e alla luce della Sua prassi". E come succede con la luce del sole, che non si può fissare eppure ci consente di guardare le cose che ci sono intorno, cosi di Dio noi non possiamo che balbettare qualcosa, (tra l'altro sempre suggerito da Lui) ma possiamo non di meno parlare e parlare con forza di ciò che Egli esige da noi perché siamo costruttori autentici di pace e di rapporti fraterni.