DOMENICA 02/06/02 - Interventi di Scozzafava e del Dottor Sergio Maradei sul parlare di Dio e breve risposta

Carissimi, se Dio è così importante per tutti, ho sempre sognato che tutti ne possiamo parlare, anche se solo per tentativi e più per mettere in guardia dal profanarne il nome, che per tentare di definire l'Indefinibile. Il dibattito che già a Tortora e qui nel Web si sta sviluppando ha qualcosa di fuori dell'ordinario e dunque di straordinario. Ma proprio questo dibattito è già teologia. Almeno quella che viene chiamata "fondamentale" perché affronta il tema della dicibilità di Dio. È vero, resta l'analogia, la metafora che sono atrio e soggiorno della poesia, e già questa, come accennava anche Paolo, è intuizione e io direi interfaccia con la profondità delle cose, della natura, di noi stessi. È ciò che Sergio chiama Spirito e il Prof. Michelangelo Pucci chiama "divino" o qualcosa di simile. Aggiungo solo che è importante sapere se abbia anche una consistenza di un Tu. È questo che la teologia chiama Persona e non la rappresentazione umana che noi sempre tentiamo di applicargli. Parlo di un Tu cui parlare, da cui sentirsi accolti e amati. La rivelazione per chi l'accoglie come tale non è che questo, mentre poterlo affermare, o anche discuterne è già teologia.

Intervento di Sergio Maradei

Giovanni carissimo ho saltato gli appuntamenti di domenica perché ho partecipato ad un matrimonio ed allora ti invio qualche considerazione sul "Parlare di Dio", mentre telefonicamente potremo aggiornarci su eventuali novità decise in Comunità sul convegno da organizzare. Non sono intervenuto (!) durante la presentazione del libro, l'ho poi letto, abbastanza ma non tutto, e grosso modo le mie considerazioni sono le stesse del primo momento.

Secondo me non è possibile nè lecito parlare di Dio, almeno in termini di persona, padre, creatore etc. come solo possiamo fare pensando a un Qualcuno più grande ed ineffabile; mi ritrovo quindi in quelle tue ipotesi delle prime pagine sulla negazione del parlare di Dio in quanto lo stesso parlarne sarebbe di per sè uno sproloquio, un offuscare la natura stessa di Dio paradossalmente. Non si può parlare cioè con linguaggio umano dell'essere in sè (il mio linguaggio non può essere tecnico ma spero mi capirai ugualmente); se questo essere, alla richiesta del suo nome, dice semplicemente "Io sono colui che sono" credo significhi che non si può definire, etichettare, cercare di descrivere perché fuori da ogni possibile immaginazione; la chiacchierata vicino al roveto ardente probabilmente non sarà mai avvenuta, ma è l'espressione di una manifestazione insolita, non pensabile in termini umani. Mi chiedo, se non riusciamo minimamente ad immaginare la grandezza dell'universo che in fondo è visibile, le distanze delle stelle o cosa sia la vita in sé, cioè cosa faccia stare un corpo in vita ed un attimo dopo lo abbandona a se stesso quale accumulo di sostanze destinate a putrefarsi, come possiamo parlare di una 'realtà' (non vuole essere certo un'altra definizione) che sta addirittura a monte di tutte queste cose e infinite altre ancora?! Questo non per darne una visione diversa da quella antropomorfa, magari solo oggetto di speculazioni astratte, ma per dire che non è proprio possibile disquisirne: sono convinto che di ciò che non è visibile non siamo autorizzati a fare immaginazioni e questo riguarda chiaramente molto anche la realtà del dopo morte. Qui certo subentra la fede, la scommessa di Pascal: credere per me significa aspettarsi che dopo si potrà capire tutto, si avrà una 'vita' nuova, diversa, su cui oggi è inutile e non lecito fare congetture. Al 'parlare di Dio' mi viene voglia di applicare il comandamento del "Non pronunciare invano il nome del Signore", che non può essere riferito solo alla bestemmia ma deve allargarsi al nostro continuo far riferimento a questo Dio per tutti i nostri problemi, come un ufficio con tante sezioni: collocamento, ambulatorio, banca, lettino da psicoterapia, tribunale, casa-famiglia, metereologia, ecologia ecc. Ti dirò che nel senso della bestemmia sono disponibile a qualche apertura, quando la parola dio (in minuscolo) è veramente detta senza senso spesso, mentre non posso ammettere il continuo riferimento a Dio per spiegare delle cose, per giustificare o punire, per chiedere o anche solo ringraziare; Dio non può essere a nostra immagine e somiglianza e fare le cose che facciamo noi, nemmeno se lo volessimo confinare a fare solo il bene, come spesso diciamo. Non voglio negare l'importanza della preghiera, che però dobbiamo qualificare per quello che può essere realmente: a livello individuale una meditazione, un parlare con la propria coscienza (non è sempre Dio?), a livello collettivo, comunitario una riflessione ad alta voce, un confronto, una messa in comune di vissuti. Resta naturalmente la preghiera come ringraziamento ma credo debba essere espressa dalla nostra vita più che da parole. Questo infatti mi fa ricollegare alla seconda parte della riflessione, che altrimenti potrebbe addirittura sembrare una 'negazione dell'esistenza di Dio' o quanto meno una negazione della legittimità della teologia.

Per non trascurare completamente il libro, voglio solo riferire che mi trovo vicino ad una lettura del problema secondo la chiave dell'analogia, per definire concettualmente i termini della questione: altro secondo me non è possibile dire.

Questa lunga premessa invece vuole affermare che possiamo e dobbiamo parlare delle manifestazioni dell'Essere di cui sopra; la Rivelazione ci dà la possibilità di fare discorsi concreti: abbiamo una creazione davanti (con o senza Darwin, credo sia secondario a questo proposito) con una vita che scorre concretizzata in un tempo ed uno spazio che da infiniti, per ognuno di noi si attualizzano in termini finiti, quindi osservabili, modificabili, riproducibili. Per me la manifestazione essenziale dell'Essere (gioco di parole, ma non so dirlo in modo più tecnico, anzi spero di non usare termini in modo abusivo) è la vita; l'Essere è nella natura, in tutte le espressioni di vita che ci circondano, diacronicamente: ogni nascita rinnova la partecipazione dell'Essere alla storia umana. Possiamo così parlare di qualcosa di verificabile anche se non definibile, non conoscibile fino in fondo. Infatti, e qui ritorna la fede, l'espressione tangibile del Dio per noi uomini è il Cristo, una persona vissuta storicamente per comunicare concretamente come, soltanto, si possa esprimere la vita, attraverso l'amore, unica unità di misura per tutte le cose. La Trinità è un concetto che non ho mai capito bene, ma credo di poter dire che dell'Essere in sè possiamo far riferimento ad una persona reale, che si è storicizzata, ed all'espressione perpetua della vita, al soffio che alimenta il nostro stare in vita. Vivere completamente la vita è partecipare continuamente all'essenza della vita stessa e operare secondo quanto Cristo ci ha trasmesso è realmente il solo scopo del cammino che siamo chiamati a percorrere, l'unico senso del vivere la vita (naturalmente da umani, perché non siamo certo puro spirito!).

Allora caro Giovanni ti riporto al tuo posto: la teologia ha un oggetto di studio vastissimo perché queste parole che sembrano vuote acquistino un senso con spiegazioni logiche, precisazioni, definizioni anche, sviluppo concreto in dettaglio di questo rapporto tra la vita (=spirito) e l'amore (=Cristo). Non sta a me dare confini o compiti, ho solo voluto ridimensionare o forse ridefinire lo studio che nella teologia si può fare di Dio come figura centrale, spostando l'obiettivo sulle manifestazioni di Dio. Se questo studio possa dirsi scienza non so dirlo, perché il discorso è molto vasto e non può chiudersi con una affermazione o una negazione. Certamente, da sostenitore dell'omeopatia, non mi preoccuperei tanto dell'oggettivazione dell'osservazione, almeno non nel senso classico. Personalmente sostengo la convinzione che accanto alle teorie dominanti della scienza, fondate su basi tipiche della meccanica newtoniana, con principi-assiomi di tipo affermativo ed univoco, dai quali ricavare una sequenza di leggi, da confrontare poi con la realtà, possano esistere teorie fondate su problemi in cui è fondamentale l'empiria. Le prime rispondono all'organizzazione aristotelica della teoria apodittica; per i principi-assiomi vale la logica classica, caratterizzata dalla legge del terzo escluso: o vale A o vale non-A, mentre vi possono essere enunciati in cui le due negazioni non equivalgono ad una affermazione (non-non-A è diverso da A, perchè A manca di prove sperimentali. Vi possono essere quindi teorie che seguono una logica non classica; la teoria in questo caso dipende da principi metodologici che guidano la ricerca di un nuovo metodo scientifico che risolva il problema generale della teoria stessa. Questo discorso naturalmente è a mio avviso calzante per l'omeopatia, ma anche per varie altre 'scienze'.

Credo però di essermi dilungato troppo ed essere finito nella speculazione astratta che in fondo volevo evitare. Però, il principio di analogia, ad esempio, permette questo salto tra realtà diverse, quindi il discorso può avere senso!

Bene, a risentirci presto; non volermene se ho detto qualcosa di fuori luogo! Un abbraccio, Sergio

Mmercoledì 29 maggio 2002 - INTERVENTO DI PARBLÉ (PAOLO Scozzafava)

Riprendo la mia piccola riflessione se la teologia sia scienza e il suo confronto con le altre scienze. A me sembra che noi essere umani vediamo le cose al contrario, è proprio ciò che non è scientifico la nostra scienza più sicura. Di scientifico noi abbiamo proprio questo: non avere nessuna scienza. Certo vedendo le cose al contrario, in uno specchio distorto vediamo le scienze moltiplicarsi e le loro deotologie affinarsi fino al punto che un cieco potrà dire che la realtà non esiste perché non la vede. Certo ci vuole la precisione storiografica e non bisogna che vi siano delle aporie nel sistema logico e che due e due fa quattro, e che Gesù ha fatto un determinato percorso storico come anche Cesare, mi sembra però che molti si perdano su questi dettagli e che il senso di fondo sfuggi. Che noi esseri umani vediamo le cose al contrario non posso certo dimostralo, perché bisognerebbe essere dall'altra parte della sponda del fiume per avere una doppia visuale. Ma qualcuno ci ricorda che l'intuizione può arrivare prima della dimostrazione, anzi che la dimostrazione non è necessaria per sapere cosa ci sia oltre la siepe leopardiana. Ecco cosa sono per me i filosofi e gli scienziati: sono come due ipocondriaci che si comprano cataste di enciclopedie per curare le loro malattie "immaginarie". Si ritrovano nella sala d'attesa di un dottore che non c'è, e non li riceverà mai, e nel frattempo i due ipocondriaci si scambiano pareri sui propri acciacchi, nell'attesa che il dottore assente apra la porta e gli dica di entrare. Alla fine si prende la propria autoterapia come verità. Saluti Parblé