(Antonio
Bello)
Le
pagine di questo libro si aprono con una frase di Gioacchino da Fiore, figlio
di quella Calabria generosa e sofferente che oggi guardiamo come l’icona del
Sud della terra, e che fu il capostipite di una scuola di profeti che non ha
mai chiuso i conti con la speranza. Gioacchino da Fiore parlando dei vari stati
attraversati dal genere umano e raccordandoli al mistero trinitario, disse:
“Il
primo stato del mondo fu stato di schiavi. Il secondo di liberi. Il terzo sarà
comunità di amici. Il primo stato vide le erbe, il secondo lo spuntar delle
spighe, il terzo raccoglierà il grano; il primo ebbe in retaggio l’acqua, il
secondo il vino, il terzo spremerà l’olio”.
Dal testo di Gioacchino
da Fiore emerge che nel Sud d’Italia ci sono ancora i segni dello stato
degli schiavi, ma è già in fermento lo stato dei liberi e si colgono
i segni premonitori della comunità di amici.
In
questo libro si parla solo del Meridione d’Italia, ma in quanto esso è un luogo
paradigmatico dove si svelano i problemi che attanagliano tutti i Sud della
terra.
Prima è impazzita la
legge (nomos) che regola la conduzione delle case, è saltata cioè l’eco
– nomia. Le regole di condotta per una società più ordinata, sono state
sostituite da regole che privilegiano la forza sulla giustizia, il «fai da te»
sugli articoli di legge, favorendo così la crescita di numerose organizzazioni
mafiose che, poggiando su logiche clientelari, accedono facilmente alla
ricchezza, al consumo, all’accaparramento delle risorse, all’attività
imprenditoriale.
Il paragrafo 6 del
documento Iustitia et Pax afferma che ancora più preoccupante è la
presenza della criminalità organizzata, fornita da ingenti mezzi finanziari,
che impone nel paese la sua legge e il suo potere, condiziona l’economia fino a
proporsi come stato di fatto alternativo a quello di diritto. Non meno
inquietante è la nuova criminalità dei colletti bianchi, che impone tangenti a
chi chiede anche ciò che gli è dovuto. Le risposte istituzionali sembrano troppo
deboli, con il rischio di rendere la coscienza civile sempre più opaca. Non c’è
la mobilitazione della coscienza che può frenare il fenomeno criminoso. C’è non
solo paura, ma anche omertà, e spesso si trova comoda la corruzione per
ottenere ciò che altrimenti non si potrebbe avere. Non si è sempre vittime del
sopruso del potente, ma spesso si cercano più il favore che il diritto e il
rispetto della legge. Siamo veramente all’età dell’erba di cui parlava
Gioacchino da Fiore. Infatti il fatturato annuo di illegalità è pari a quello
della Fiat: 50 mila miliardi. Il 25% delle attività economiche nelle città del
Meridione (Napoli – Salerno – Reggio Calabria – Catania – Bari) è controllato
dalla mafia.
Anche la Conferenza Episcopale Calabra ha ripreso il tema della mafia, denunciando con parole forti il fenomeno e ricordando il dovere, non solo di non abbassare mai l’attenzione, ma anche quello di reagire sia come singoli, sia come istituzioni. La «mafiosità», afferma,
“si
insinua tra le pieghe delle istituzioni, diventa facile accomodamento,
addirittura in certi casi si trasforma in comoda autogiustificazione (poiché
c’è la mafia, è inutile operare, inutile investire, inutile cambiare e vano è
restare per cambiare la nostra terra!)”[1].
Tutto questo non significa perdere la speranza, infatti possiamo anche credere che lo stadio della schiavitù ha le ore contate. Notiamo infatti i segni del cambiamento nella società civile, nel volontariato, nella Chiesa. Il rinnovamento della politica nasce nel Sud, le giunte di Palermo e Catania vogliono rompere il circolo perverso che lega la politica agli affari. Qualcosa del passato sta per morire, come il clientelismo che assicura in cambio dei voti, posti di lavoro, avanzamenti di carriere, appalti lucrosi e così via. La gente reagisce e si ribella a questo gioco di schiavi. Nel volontariato registriamo le denunce più ferme e più coraggiose che scuotono il Mezzogiorno.
Don Stelio Calabrò diceva che il nostro primo dovere è rinnovare la condanna ad ogni forma di mafia che succhia con le tangenti il frutto di onesto lavoro con sequestri di donne e bambini e calpesta i valori della vita. Occorre da parte di tutti uno sforzo affinché questa piaga venga eliminata e i mafiosi vengano isolati. Occorrono obiettori di coscienza che facciano fronte alla mafia attraverso denunce e assemblee popolari.
La battaglia sarà difficile e lunga, perché il male è troppo radicato, ma si potrà vincere se ci sarà concordia e costanza. Soprattutto nella Chiesa si notano i segni della primavera, che pentita dei suoi lunghi silenzi si schiera dall’altra parte del potere e rischia il martirio. Vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, scendono in piazze e organizzano la resistenza non violenta. Grazie a Dio diventano sempre più provocatorie le sfide di tanti uomini di Chiesa che sembrano dire ai mafiosi: «Voi sparerete le vostre lupare, noi suoneremo le nostre campane».
È arrivato il tempo di cambiare: è l’era del grano maturo, come diceva Gioacchino da Fiore, in cui non basta che ad ognuno venga dato il piatto che gli spetta, ma è necessario che questo venga consumato insieme alla stessa tavola, tra amici che si vogliono bene. È l’era dell’olio fluente, simbolo sacramentale dello Spirito, che riconcilia con Dio, con gli uomini, col creato. Ora nel Sud, c’è un’ansia di solidarietà e si avverte il bisogno di uscire dalle aree dell’individualismo per aprirsi ad orizzonti di comunione.
Il Mezzogiorno vede moltiplicarsi le esperienze di educazione alla pace, perché solo assumendo le categorie della solidarietà e della pace potrà risanare i ritardi del suo sviluppo «dipendenti, distorti, incompleti», come afferma il documento dei Vescovi Chiesa italiana e Mezzogiorno del 1989.
L’Europa deve fare i conti con il Sud d’Italia, che si rifiuta di assolvere al ruolo di icona delle subalternanza per tutti i Sud della terra, ma vuole essere l’icona del riscatto. Così il Sud d’Italia respinge la prospettiva di essere proteso nel Mediterraneo come arco di guerra e non come arco di pace.
Anche il teologo Vincenzo Salvati nel suo libro La Chiesa
tra signoria di Dio e altri signori traccia questo cammino di liberazione
che la Chiesa deve fare nella sua lotta alla mafia. Essa, sulla scia di Gesù,
deve diventare sempre più coraggiosa, anche se questo potrebbe significare perdita
di prestigio o di potere. Essa, ancora, - secondo il teologo - è chiamata a
porsi in modo critico primariamente nei confronti di se stessa e quindi nei
confronti del mondo in cui vive, ponendosi nella storia umana come segno di
contraddizione, annunciando con la sua stessa vita la novità di Dio all’interno
delle strutture del vecchio ordine delle cose[2].
Si può concludere questa
riflessione facendo ancora riferimento al libro sopra citato di Salvati, il
quale specchiandosi nelle parole del teologo don Gianni Mazzillo scrive che il
popolo di Dio del nostro Sud deve collocarsi dentro una situazione esodale, che
significa accogliere l’invito di Dio ad uscire dalle situazioni di schiavitù,
che con il passare del tempo potrebbero diventare strutturali se ci dovessimo
abituare talmente da non riuscire più a farne a meno.
(Piero
Fantozzi)
Il rapporto tra Mezzogiorno e degrado criminale si affronta secondo tre prospettive. La prima riguarda i problemi inerenti la criminalità organizzata e la mafia; la seconda i rapporti del Mezzogiorno con i processi di modernizzazione; la terza i problemi inerenti la criminalità organizzata in senso stretto e la mafia.
Ma che
rapporto c’è tra degrado e modernizzazione? Noi pensiamo al degrado come
arretratezza e povertà, in realtà il degrado che noi viviamo all’interno della
società del benessere è il frutto di un’incapacità crescente dei sistemi
sociali economici e politici. Il problema della marginalità sociale è un
effetto della modernizzazione non regolata e si scontra con alcune teorie
sociologiche, tra le quali la teoria dello sviluppo lineare e quella
della dipendenza capitalistica.
La teoria dello sviluppo lineare ha l’idea che lo sviluppo sia un fattore di carattere irreversibile, e che le società capitalistiche giungono allo sviluppo più rapidamente , altre più lentamente.
La teoria della dipendenza capitalistica
afferma il contrario di quanto sostenuto dalla teoria precedente e cioè che vi
sono paesi che si collocano al centro del sistema e generano paesi di
periferia. I problemi dello sviluppo e del sottosviluppo non sono contrapposti.
Si crea così una marginalità sociale all’interno della società del benessere.
La seconda teoria, però,
non ci permette di spiegare come è accaduto che paesi poveri abbiano superato
la barriera tipica dei rapporti e si siano collocati nella realtà del centro.
In verità, tra le condizioni interne della società del benessere e quelli esistenti fra gli stati intercorrono forti legami. I problemi della marginalità sociale vengono assorbiti nell’ambito delle tematiche relative ai processi di integrazione sociale. Si tratta di una crisi che scaturisce da molti processi, tra cui il più importante è quello della legittimazione, che si riferisce al modo dell’obbedienza: il consenso è una delle forme della legittimazione. La crisi della legittimazione è data dalla rottura tra consenso formale e consenso reale, il che porta ad un processo di integrazione sociale. A questi due livelli (legittimazione e integrazione) la modernizzazione non è né bene né male, ma è un processo di cambiamento.
Nelle nostre società esistono sempre dei cambiamenti che implicano che la modernizzazione è inserita dentro un circuito. La produzione, ad esempio, è elemento di cambiamento, ma anche una società che elegge cambia. È importante però cogliere gli interessi che ci sono a monte di questi cambiamenti perché per alcuni questi cambiamenti possono essere buoni per altri cattivi. All’interno di questi processi si verificano quindi scontri di interessi per cui ci si chiede se è vero che nelle società moderne crescono la democratizzazione e le pari opportunità per tutti.
Sembra che ciò non avvenga. Per esempio, per quanto riguarda il lavoro alcuni accrescono le proprie forze e altri le perdono, per cui il processo di democratizzazione delle opportunità non avviene.
Anche nell’ordinamento
politico più le società sono evolute e più c’è bisogno, per entrare a far parte
del ceto politico, di avere una referenza in termini di relazione, cosa che
impedisce al cittadino comune di poter accedere con le stesse opportunità di
chi è già all’interno. Chi rimane più in basso viene rigettato dal più forte, e
se il governo è di tipo oligarchico bisogna schierarsi con esso.
La questione della
marginalità sociale non è solo il problema dei soggetti più deboli ma è il
frutto di un’organizzazione che non funziona, in quanto permette ad alcuni di
rafforzarsi e ad altri di indebolirsi, non tanto nelle condizioni materiali di
vita quanto nelle opportunità.
Questi processi stanno
impoverendo sempre più le forme di solidarietà collettiva in tutte le società
del benessere. Oggi si contratta da soli, si esalta la professionalità del
singolo, per cui il lavoro operaio diminuisce e viene ghettizzato.
A proposito del Mezzogiorno, dobbiamo dire che il processo di industrializzazione ha avuto un’incidenza molto bassa, creando forme di solidarietà collettiva. Il fatto che vi fossero una realtà e una giustizia operaie portavano l’imprenditore più che ad aumentare lo sfruttamento delle persone, a creare presupposti di crescita diversi. Si trattava di una forma di regolazione dell’uomo che impediva che si potessero subire 14 – 15 ore di lavoro al giorno. Nel Mezzogiorno sono mancati i momenti di regolazione sociale, per cui quei fenomeni di radicalizzazione, tipici della modernizzazione si manifestano in modo più violento che altrove, perché nessuno è in grado di contrastarli. L’assistenzialismo, la versione del Welfare che il Sud ha conosciuto, è stata centrata sulla diffusione non di servizi ma di sussidi, e poi le stesse forme di assistenza sono diventate forme di indebolimento della solidarietà collettiva. Indebolendosi queste solidarietà collettive, i processi di degrado sono aumentati velocemente. È quello che sta accadendo nel Mezzogiorno.
I luoghi dove si manifesta il degrado in maniera più eclatante sono le città, In alcune città come Palermo, o Catania, o Napoli, il degrado esplode attraverso forme di criminalità organizzata, di controllo del territorio. La modernizzazione è stata usata secondo interessi precisi, il gruppo criminale, che opera nel commercio della droga, che governa e controlla il territorio, si è mosso con la stessa logica con cui si è mossa la realtà industriale: raggiungere un vantaggio, aumentare il proprio profitto. E visto che il sistema di mercato della società meridionale era estremamente debole, è stato più semplice inserirsi nei processi illegali. Nel Sud la politica non è più basata sul processo di rappresentanze ma sull’identità dei ceti. Il politico pensa alla sua riproduzione.
Oggi in tutte le realtà evolute, dagli USA alla Germania, dalla Francia all’Italia quasi nessun politico viene eletto come rappresentanza di una base categoriale orizzontale, precisa e individuabile, come poteva essere in passato quella operaia. La politica nella società moderna non ha più una radice sociale, e il consenso che il politico cerca è di altro tipo: lo scambio clientelare, forme di controllo che arrivano anche ai livelli mafiosi. Per cui si vota un politico nello stesso modo in cui si compra una saponetta. Si pensi agli scandali delle “Tangentopoli” Milano e ai partiti, dove si fa sempre più forte il peso di alcune famiglie, con padri politici che passano seggi, pacchetti di voti e cariche ai figli, ai nipoti. Non è più un elemento meridionale, ma interessa ormai tutti i partiti in tutte le zone. La differenza sta nel fatto che il Sud è privo di una regolazione sociale e di strumenti per attutire queste tendenze.
Oltre a questo riferimento chiaro del sociologo, mi sentirei di dire che anche i nostri pastori tante volte hanno parlato della politica, e forse ultimo in ordine di tempo richiamo l’intervento che Mons. Antonio Cantisani, come Presidente della Conferenza Episcopale Calabra ha fatto nella sede del Consiglio Regionale il 20 dicembre 2002. Questo da detto:
“Ecco
allora il forte invito che la Chiesa si sente di rivolgere a quanti partecipano
alla vita pubblica in posizioni di altissima responsabilità: respingere la
perenne tentazione di ridurre l’impegno politico all’esercizio del potere per i
propri interessi o gli interessi di gruppi particolari, ricuperare la politica
al suo genuino significato di esclusivo servizio per il bene comune, e, così,
trovare la maggiore concordia possibile sui grandi valori che devono animare la
costruzione della città dell’uomo ”[3].
Infatti, il problema della criminalità poggia esattamente su questi presupposti di natura generale: oggi le famiglie che contano non sono tanto quelle legate alla fedeltà della vecchia mafia, ma quelle entrate nei circuiti delle criminalità moderne, della distribuzione della droga, delle armi, cioè le famiglie che hanno saputo far quel cammino necessario per passare da un’attività quasi casuale, di tipo arretrato, ad una di carattere moderno.
Nel Mezzogiorno
l’elemento determinante, che accresce le forme di criminalità, è moderno,
perché il nuovo non esclude mai il vecchio, ma lo incorpora: per cui oggi la
clientela è anche nepotismo e familismo. La criminalità, cioè consegue il nuovo
incorporando il vecchio. Non vi può essere lotta alla criminalità se non vi è
una modificazione del vivere quotidiano delle persone e del funzionamento
dell’ordinamento economico, politico e sociale. Oggi si sono diffusi tre tipi
di percorsi di lotta alla criminalità:
- la prima forma è quella di chi intende questa lotta come controllo dell’economia, degli appalti, del riciclaggio del denaro;
- la seconda poggia su forme autoritative dello Stato, repressione, capacità di fare le riforme;
- la terza è il problema della mediazione sociale, della reintegrazione sociale sul campo. È un problema essenziale. Chi opera sul campo sa che oggi reintegrare una persona a rischio (drogati, ex detenuti, ecc.) non vuol dire solo dare un’opportunità di lavoro.
Nessuno si pone su questo terzo livello o lo fa per assorbirlo nei primi due. L’opera di mediazione sociale non paga, ma è l’unica che può dare opportunità diverse da quelle criminali.
Per tornare a fare ciò che la politica non fa più occorre lavorare sulla motivazione, offrendo nuove opportunità che abbiano al centro la persona in quanto singolo e in quanto comunità.
Modelli ecclesiologici e contesto mafioso
(Giovanni
Mazzillo)
Ciò con cui abbiamo a che fare quotidianamente si presenta sotto molteplici aspetti, che noi cerchiamo di ricondurre ad una unità formale. Il modello va inteso in questo contesto. Ci sono modelli sperimentali e modelli teorici e tra questi ultimi sono da collocare quelli «teologici» e quelli «ecclesiologici».
Il significato di «teologico» è da ricercare nell’attinenza che l’umano ha con la sfera della fede, e quindi con Dio, mentre il modello ecclesiologico rappresenta un particolare schema della realtà della Chiesa. Modello ecclesiologico è il modulo mentale con cui cogliere un certo agire ecclesiale. Ogni modello nasce in una determinata prassi, non c’è niente di teorico che non orienta l’agire dell’uomo e non c’è niente di teologico che non determini un certo agire della Chiesa e non venga influenzato dalle vicende storiche della stessa.
La Chiesa, che nasce dall’amore salvifico di Dio, non esiste allo stato puro. È popolo di Dio che unisce tutti gli uomini, facendo loro intravedere la loro grandezza e i loro limiti. Come afferma il Concilio Vaticano II essa comprende
“le gioie e
le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi”[4]
ed è
“santa e
insieme sempre bisognosa di purificazione”[5].
La Chiesa riconosce la sua peccaminosità e i suoi limiti anche come conseguenza di errori che sono stati commessi nel passato perché
“non
ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, non sono mancati
di quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio”[6].
Noi dobbiamo essere consapevoli di questi errori e combattere con forza e coraggio affinché essi non danneggino la diffusione del Vangelo. Il testo della Gaudium et Spes registra il bisogno per la Chiesa del futuro di maturare nei suoi rapporti con il mondo. Fino al tempo del Vaticano II essa, chiamandosi societas perfecta, si considerava, e a ragione, «indefettibile» (per quanto riguarda il suo patrimonio di fede), ma anche, e questa volta a torto, impeccabile per ciò che riguardava il suo modo di rapportarsi al mondo.
L’incanto di una simile concezione è stato rotto solo recentemente, grazie all’aggiornamento fatto da Giovanni XXIII, e alla revisione dei suoi moduli iniziata da Paolo VI. Quest’ultimo traccia alcuni disegni di autocomprensione della Chiesa, molto vicini ai «modelli ecclesiologici». Scrive nel 1964 che i rapporti tra la Chiesa e il mondo possono assumere molti aspetti diversi e abbozza tre modelli fondamentali:
a) quello della chiusura in una sorta di fortezza astorica (metodo dell’autosufficienza);
b) quello della lotta senza tregua (modello dell’anatema);
c) quello della sua immedesimazione in modelli storici e sociali (il metodo dell’integralismo).
Paolo VI continua affermando che bisogna adattarsi ai vari interlocutori, per cui con un credente si parlerà in un modo, con un non credente in un altro. Il metodo migliore quindi è quello del dialogo perché la società si trasforma continuamente e velocemente. Ma vediamo alcuni modelli fondamentali.
Il primo modello è quello giuridico-gerarchico, che dà più importanza al clero che alla massa dei fedeli. Si parla sempre meno del popolo e si mette in luce soprattutto l’aspetto sacramentale – giuridico della Chiesa ( ecclesia corpus Christi) trascurando, invece, quello pneumatologico (ecclesia Spiritus Christi). Lo stesso Tertulliano operava una netta distinzione tra ordo (ordinamento gerarchico) e plebes (turba dei fedeli) contrapponendoli. Dobbiamo ricordare che nella classi romane la plebe occupava l’ultimo posto nel gradino sociale e questo termine era quindi sintomo di dequalificazione dei laici.
Prende così corpo una delle prime forme di quel modello ecclesiologico improntato all’ordinamento della potestas, cioè del potere. La concezione della Chiesa è quella piramidale: ci sono in primo luogo i vescovi, poi i presbiteri e infine i diaconi. Al di sotto i laici.
È un modello che contiene un’idea negativa della realtà laicale, indicata come «plebe» o come «turba dei fedeli». Si accentua sempre più l’importanza dei ministri ordinati, considerando come popolo di sudditi gli altri battezzati. L’ecclesiologia misterica viene così impoverita e si lascia influenzare dall’organizzazione della società romana.
Oggi si vuole invece porre l’accento sul sacerdozio comune dei fedeli proprio per contrastare la definizione antica di popolo come «turba di fedeli», che sembra corrispondere di più ai sudditi di un impero che ad una Chiesa in cui tutti sono complementari.
Il modello giuridico non viene corretto né da San Tommaso, né dai teologi rinascimentali, per i quali la categoria migliore è la congregatio fidelium, cioè la congregazione dei fedeli. Il modello giustifica da una parte il metodo dell’arroccamento, presentando una Chiesa chiusa nel suo fortilizio, dall’altra ne motiva l’intervento nei confronti della società del tempo, considerata societas cristiana. La superiorità del papato sull’impero veniva giustificata nell’Occidente medioevale con il fatto che il Papa era sacerdos – rex. Se la Chiesa corrisponde all’imperium prima e alla societas poi, attualizza il piano di salvezza di Dio nell’oggi e nel luogo dove vive.
Il modello giuridico – gerarchico non favorisce né la presa di coscienza, né l’impegno nel mondo da parte dei laici. Melchiorre Cano, ritenuto padre dell’ecclesiologia, finiva nel 1550 con il porre valore giuridico solo nell’oligarchia e scriveva:
“Ciò
che compiono i principi e i regni di una città è anche ciò che compie e sente
la città”.
Come conseguenza la sapienza di Dio è prerogativa della signoria nella Chiesa come lo è nella polis. Cano ammette che Dio insegna ai grandi e ai piccoli, ma ai primi dà cibo, agli altri solo latte; ai grandi annuncia la sapienza e la gloria nascoste, ai piccoli la croce. Il modello ecclesiologico riterrà con Cano che la teologia della gloria è per i signori, per i grandi, quella della croce è per i servi, per i piccoli.
Ci sono molteplici forme
nelle quali la Chiesa comprende se stessa come societas inaegualis, cioè
organizzazione perfetta ma i cui membri non sono uguali. Al triplice
compito della predicazione, del governo e della celebrazione della gerarchia
corrisponde il dovere dell’ascolto e della recezione dei sacramenti da parte
dei fedeli.
Il modello gerarchico
non è solo un momento della storia della teologia, è un modello mentale e
comportamentale, che possiamo ancora rinvenire. Non si può certamente partire
da questo modello per cercare di tentare una trasformazione nel modo di
concepire la Chiesa e di renderla realtà incarnata in un mondo reale che ha
determinate esigenze e pone specifiche domande.
In questo modello
infatti la dimensione religiosa è mediata attraverso la dimensione sacrale.
La ricezione dei sacramenti, la perenne
giustificazione, la richiesta di benedizioni a tutti i livelli attinta tramite
il sacro ferma e perpetua un universo chiuso. La società, con le sue violenze
occulte, sembra ben integrata con la religione e i modelli ecclesiali interiorizzati
dalla gente sembrano perdere il loro valore di appello alla conversione.
Il nostro mondo
meridionale subisce un’evoluzione ma non modifica alcune strutture mentali e
sociali. La gerarchizzazione della Chiesa si integra con la gerarchia parentale.
Dall’indiscussa autorità del padre derivano non poche conseguenze: «il padrino»
da «padre» diventa il protettore; il «padrone», un tempo «proprietario» delle
terre, oggi è il «signore» che però può procurare il posto ai giovani; il
«padrone» è il padrino che battezza i futuri protetti; il parroco è il
«parrino»; il santo venerato è il «patrono»; Dio è visto come supremo signore e
capo dei patroni, dei padrini, dei parrini e dei padroni. Stando così le cose è
difficile combattere contro la mafia.
Molti Vescovi esercitano
il proprio magistero contro la mafia, ma la mafia è «cancro esiziale» che rode
la nostra compagine ecclesiale; succhia con i taglieggiamenti il frutto di
onesto lavoro, esegue sequestri che non risparmiano più le donne e i bambini, e
calpesta i valori più sacri della vita. Questo male trova i suoi adepti tra i
giovani parcheggiati nella disoccupazione. Non manca la denuncia coraggiosa, ma
mancano purtroppo la permeabilità e i modelli alternativi. Così mentre gruppi
del Meridione sono punte di diamante, la realtà odierna registra un
peggioramento, mettendoci davanti all’estensione del male, abuso di potere,
colonizzazione avanzata in tutto il Sud ed in Calabria.
C’è un modello alternativo al quale si potrebbe
fare riferimento ed è quello misterico-carismatico, ma questo lascia
immodificata la situazione. Alla base di questo modello ci sono tre linee
portanti che attingono alla novità ecclesiologica del Vaticano II: a)
l’iniziativa di Dio nella Chiesa; b) l’ecclesiologia di comunione; c) la modalità
dialogica tra la Chiesa e il mondo.
Si parte dal fatto che la Chiesa, guardando se stessa, riscopre di essere abitata da una Presenza che è «misteriosa» e nello stesso tempo «luce delle genti». Cristo le rivela che essa viene dalla comunione trinitaria e manifesta così che è imparentata con il mistero di Dio e abbraccia quello dell’uomo.
La Chiesa è inoltre
“sacramento…
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”[7]
e realizza quindi la
comunione. I vescovi italiani nel 1981 hanno scritto che la «comunione» è quel
dono dello Spirito per il quale l’uomo non è più solo né lontano da Dio, ma è
chiamato ad essere parte della stessa comunione che lega tra loro il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo. Ne consegue un’ecclesiologia di comunione che trova
applicazione più corrente nei termini di «comunità - carismi e ministeri». Tutti i ministeri sono
tali perché voluti da Cristo e suscitati dallo Spirito Santo, essi sono
diversi, e ciò non intacca la dottrina tradizionale della differenza tra i
compiti dei laici e il ministero sacerdotale, anzi sono l’uno a servizio
dell’altro.
Nonostante
questo modello misterico – carismatico dà spazio per una crescita di tutto il
popolo di Dio che potrebbe portare ad una maggiore coscientizzazione nella
lotta contro la mafia, molte volte, invece, si innestano dei processi non
consequenziali agli insegnamenti del Vaticano II e sono le difficoltà
dell’ortoprassi tra «tolleranza saggia e acquiescenza pericolosa». Il
rinnovamento sembra venga affidato ai gruppi e ai movimenti, che, comunque
nonostante la loro matrice positiva, anziché favorire una crescita globale con
un inserimento storico nel territorio, coltivano i modelli ecclesiologici.
La
vera alternativa è quindi quella di adottare un modello storico-liberante
il quale non si limita a considerare
un solo aspetto, cioè quello ad intra, ma anche quello ad
extra, che valorizza il ruolo dei laici all’interno della Chiesa, ma
soprattutto chiarisce il rapporto che la Chiesa deve avere con il mondo. Tutto
questo tradotto significa che non c’è una Chiesa più ripiegata su se stessa, ma
una Chiesa che diventa solidale con le sorti di tutti, soprattutto dei più
poveri.
La
Chiesa deve recuperare la sua peculiarità, che è quella di essere «annuncio
profetico» in un mondo che vive contraddizioni non solo personali ma anche
strutturali. Questo potrebbe comportare la perdita di appoggi e privilegi,
carriere ed onorificenze liberandosi altresì da forme di collateralismo ma
anche da un eccessivo pericolo di spiritualizzazione e liturgismo. Accanto a
questa profezia è necessaria una progettualità che non deve avere paura di
scelte religiosamente coraggiose, eticamente irreprensibili e
programmatica-mente verificabili.
Violenza
mafiosa e coscienza cristiana:
profili
etici ed esperienza religiosa
(Giuseppe
Mattai)
Parlare
di etica in un modo serio e incisivo significa evitare prima di tutto il
moralismo che lascia cadere giudizi dall’alto senza la fatica di sottoporsi alla «croce dell’analisi».
Tutto
questo comporta anche la comprensione del cammino evolutivo della mafia stessa.
Alcune costanti permangono: il concetto dell’uomo, di onore, di rapporto nei
confronti dei familiari, dello Stato, dell’avere, del potere, etc; altre
valutazioni invece vengono fatte in modo diverso adeguandosi e trasformandosi
in base al cambiamento della società. Un tempo l’uomo che contava era l’uomo
d’onore che sapeva incutere rispetto e sapeva tacere, e nella vecchia mafia
l’onore e il prestigio non si identificavano con la ricchezza. Oggi, invece, la
ricchezza stessa è diventata onorevole e per raggiungere essa tutti gli
strumenti sono leciti. Le forme ordinarie che la mafia utilizza per raggiungere
i propri scopi sono la violenza, la vendetta e la sopraffazione; tant’è che un
uomo che non abbia commesso qualche omicidio non può essere considerato tale.
Alla
radice di quest’etica mafiosa, quindi è individuabile quasi sempre una radice
di natura economica (oggi sempre più concretizzata nel mondo della droga) per cui una valutazione etica che si ispiri
al Vangelo e a Cristo deve saper proporre non una logica del profitto a tutti i
costi ma un’economia che sia sempre più a servizio di tutti gli uomini senza
discriminazioni o accumulazioni privilegiate e monopolistiche. Per una
valutazione più particolareggiata possiamo distinguere (così come ha fatto il
Chiavacci) tre tipi di persone mafiose: mandanti, esecutori e cooperatori.
1)
A livello di mandanti (boss, cupola) la
responsabilità etica è massima;
2)
per quanto concerne gli
esecutori la responsabilità indubbiamente esiste, ma deve essere valutata in
base alle motivazioni diverse che le ispira;
3)
i cooperatori che non ostacolano il potere
mafioso per paura o per interesse sono anch’essi responsabili, e la
responsabilità diventa più grave quando si tratta di responsabili di cosa
pubblica.
Per
poter tracciare alcune conclusioni ci facciamo aiutare da quello che Chiavacci
e Riboldi rivolgevano alle proprie
comunità cristiane:
1)
convincersi che l’ethos della mafia è
totalmente in opposizione a Dio e al suo Vangelo, quindi tutta la comunità deve
impegnarsi a combattere quell’ethos anti- evangelico;
2)
affrontare comunitariamente la minaccia e
il ricatto perché nessuno si deve sentire solo e isolato;
3)
non onorare mai il ricco e il mafioso nelle
assemblee, nell’amministrazione dei sacramenti e nelle esequie, così come non
bisogna accettare denaro che abbia anche solo il sospetto di derivazione
mafiosa;
4)
combattere ogni lista e candidatura
sospetta;
5)
tener ben presenti i peccati di mafia e non
assolvere chi vi si lascia invischiare.
Ma
detto questo non possiamo dimenticare il messaggio che Giovanni Paolo II ha
scritto per la giornata mondiale della pace. Egli ha sottolineato la necessità
di un nuovo ordine morale internazionale, il solo capace di fa nascere
“la consapevolezza che la questione
della pace non può essere separata da quella della dignità e dei diritti umani”[8].
I
rapporti tra nord e sud:
questione
nazionale, questione ecclesiale
(Giuseppe Pasini)
Quando
si parla di rapporti si deve intendere non tanto l’esistenza di questi, quanto
la qualità.
Essi
possono essere di dipendenza, di subordinazione, di amicizia, di parentela, di
collaborazione. I rapporti tra Nord e Sud ci sono sempre stati ma non secondo quello
che i Documenti della Chiesa (in particolare la Sollecitudo rei Socialis)
hanno proposto e che parlano di rapporti di solidarietà: “Oggi, forse più che
in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino
da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per tutti”[9].
Quando
si parla di rapporti di solidarietà questi suppongono l’accettazione delle
reciproche identità e il riconoscimento sincero che ognuna delle controparti è
portatrice di valori. Il problema della lotta alla mafia e dei rapporti Nord –
Sud viene presentato come questione nazionale il che significa:
-
che il problema va risolto in una visione
unitaria d’insieme anche perché tanti problemi devono essere risolti ad un
livello più ampio, per esempio la disoccupazione che porta con sé altri
problemi quali: l’evasione dall’obbligo scolastico, il lavoro e la devianza
minorile. Si può comprendere come mai i minori di famiglie senza reddito
diventano facile preda di crimine;
-
è questione nazionale perché oggi il problema
delle estorsioni, tangenti, corruzioni non conosce più distinzioni geografiche,
anzi si può affermare che la struttura mafiosa è veramente problema nazionale
perché tocca tutti.
Il
rapporto Nord – Sud in relazione al problema della mafia è anche una questione
ecclesiale perché c’è un dovere di evangelizzazione da parte
della Chiesa che deve riguardare come è logico le situazioni più degradate e
perché ci sono delle responsabilità ecclesiali derivanti dal fatto che
talvolta ha appoggiato personaggi ambigui o sospetti, non rimanendo così libera
dagli ingranaggi del potere.
Partendo
da queste considerazioni si possono indicare tre linee di rapporto tra Nord e
Sud:
-
la linea di una nuova cultura alla quale agganciare la convivenza sociale;
-
la linea dell’armonizzazione nell’affrontare problemi comuni;
-la
linea della testimonianza che anticipi una nuova progettualità nella
reciprocità solidale.
È
necessario intervenire creando una nuova
cultura che riesca a contrastare quella mafiosa. Per fare questo scuole,
parrocchie, mass – media, associazioni devono individuare i valori portanti per
cercare di immetterli nella realtà. Un esempio tra tutti è il rispetto della
vita e la dignità della persona umana rispetto ad una visione mafiosa che vede
la vita strumentale ai propri fini: vale per tutti il comando «non uccidere»,
perché la vita è di Dio.
Un
altro valore da contrapporre è quello della non violenza seguendo sineglossa
la Verità del Vangelo che mette al primo posto l’impegno per la pace.
L’alternativa
spesso drammatica si pone a livello di vita pratica: la violenza esiste e nasce
dal cuore stesso dell’uomo. Don Calabrò bonariamente affermava che tutti i suoi
giovani volevano la pace ma era difficile che egli li convincesse a non portare
il coltello.
Ogni
cristiano in coscienza deve sentirsi chiamato a denunciare con coraggio le
situazioni illegali. Il Sud tante volte invece, vive dentro una cultura di
omertà : “chi è sordo, orbo e tace, campa cent’anni in pace” (Proverbio
siciliano).
Anche
il documento della CEI a proposito di responsabilità inserisce addirittura il
discorso non solo sulle cose gravissime (fatti di sangue, sequestri) ma anche
situazioni più ordinarie, quali la disfunzione dei servizi
“ … fa parte di una giusta pratica
dell’eticità della convivenza umana anche l’impegno per una buona efficienza
dei servizi pubblici, della loro qualità in termini di accessibilità, rapidità,
competenza, mentre il loro scadimento determina
disaffezione dei cittadini verso lo stato democratico e quindi nei riguardi
delle sue norme. Al contrario, sono lontane dall’autentica legalità sia la
logica mafiosa dei comportamenti, che si fanno legge nel momento stesso in cui
si attuano, sia la dinamica contrattualistica, che pretende di risolvere tutto
nella logica dello scambio”[10].
La
Chiesa del Sud e quella del Nord devono affrontare i problemi comuni creando
segni di collaborazione nella solidarietà.
Alcuni
esempi sono:
a)
l’educazione ad una fede coerente e incarnata nella vita;
b)
il problema dell’immigrazione dai paesi in via di sviluppo;
c)
la formazione dei giovani alla solidarietà ed il problema della disoccupazione
e della emarginazione giovanile.
Le
comunità religiose in un contesto mafioso
(Francesco De Luccia)
La
vita religiosa si connota ricordando al mondo il primato di Dio. Tale profezia
si basa sullo Spirito e sulla Parola strettamente connessi tra di loro. Il
religioso è l’uomo totalmente libero da tutto e da tutti perché è di Dio, ma
come un paradosso proprio per questo è l’uomo di tutti.
La
sua missione è quella di riportare il primato di Dio nella storia con il dovere
primario della formazione delle coscienze.
Nella
Chiesa il sacerdote ha il compito di portare Dio agli uomini e di trasmettere
loro un patrimonio religioso. Il religioso è chiamato a comunicare le realtà
della Parola e dello Spirito come animatrici di tutto l’essere del singolo e
del mondo. Il Concilio invita le comunità religiose a leggere i segni dei tempi
e ad incarnarsi nel mondo contemporaneo.
Il
ruolo dei laici in un contesto mafioso
(Rosario Iaccarino)
Punto
di svolta per la valorizzazione dei laici è certamente il Concilio Vaticano II
che parlando della Chiesa ci ha dato l’immagine di un popolo di Dio che vive la
comunione. Non più una Chiesa gerarchica dove unica responsabilità era quella
dei consacrati, ma una chiesa dove tutti, ognuno nel suo specifico, danno il
proprio contributo di testimonianza, in virtù del proprio battesimo. Tutto
questo molte volte non è vissuto in pienezza, infatti se c’è un rischio che più
degli altri è presente è quello della clericalizzazione che fa dei laici dei
consacrati di serie b che, invece di impegnarsi nelle realtà temporali
trasformando il mondo dal di dentro, si chiudono nelle sacrestie.
L’apporto
dei laici può essere importante e necessario anche per la questione meridionale
e per il fenomeno mafioso. Per poter fare questo occorre che ci siano dei laici
«liberi» che non abbiano cioè dei legami clientelari con il potere deviato.
Tutto questo è vero anche per la gerarchia, la quale in tempi passati pur di
poter realizzare strutture per la sua missione si è collusa con il potere
politico del tempo.
Se
volessimo tracciare dei punti fermi nell’impegno dei laici potremmo dire: un
primo impegno è quello di tradurre in termini laici la virtù della carità
necessaria per un’integrazione globale della persona. Questo significa che ogni
ambito dove l’uomo vive ( lavoro, studio, sport e tempo libero) si trasforma in
un campo di lavoro. Possiamo aggiungere l’impegno socio – politico con il
dovere di stare dentro le istituzioni immettendo e lottando per i valori
cristiani.
Per concludere sottolineiamo due condizioni
necessarie per accrescere la partecipazione dei laici nella Chiesa:
1)
si deve maturare nelle nostre comunità
diocesane e parrocchiali una comunicazione feconda tra pastori e laici per
essere più incisivi nella profezia. Un dialogo che sappia valorizzare e non
omologare le diversità;
2)
i laici devono attrezzarsi spiritualmente
per comprendere e far maturare i semi del Regno; per far questo devono avere una
coscienza illuminata dalla Parola che permetta il loro impegno nel sociale.
Non è certamente fuori posto richiamare proprio qui la Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della Fede, circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica.
È in questo documento, infatti, che viene ricordato
l’impegno dei cristiani nella politica, un impegno che è per loro un dovere.
Essi non possono accettare l’idea di un «relativismo culturale» che difende,
sotto il pretesto della democrazia, un pluralismo etico che sancisce la
decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale
naturale. In nome della libertà si propone l’approvazione di leggi a favore
dell’eutanasia, dell’aborto, della clonazione a fini terapeutici, della
famiglia non più solo eterosessuale ma anche omosessuale, ecc. Il cristiano è
vero che non può dare soluzioni concrete o uniche alle diverse questioni ma ha
il diritto e il dovere di pronunciare giudizi morali su queste realtà in quanto
toccano il bene integrale della persona, violentano la natura e minacciano il
bene comune. E quale è il modo migliore per farlo se non impegnandosi nella
politica?
Giovanni Paolo II, già nella sua esortazione apostolica Christifideles laici ha affermato con decisione che
“i
fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla «politica»,
ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa,
amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente
il bene comune, che comprende la promozione e la difesa di beni, quali l’ordine
pubblico e la pace, la libertà e l’uguaglianza, il rispetto della vita umana e
dell’ambiente, la giustizia, la solidarietà, ecc.”[11].
Sempre Giovanni Paolo II ha più volte ribadito che quanti sono impegnati in politica hanno il «preciso obbligo di opporsi» ad ogni legge che risulti un attentato alla vita umana. Per essi, come per ogni cattolico, vige l’impossibilità di partecipare a campagne di opinione in favore di leggi che non rispettano in maniera coerente e solida i principi etici, frantumando l’intangibilità della vita umana[12].
Non si può accettare l’idea della «laicità» dello Stato (così come viene intesa oggi), la quale può portare ad una deresponsabilizzazione qualunquistica della coscienza. Per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale – è ormai un valore acquisito e riconosciuto. Non bisogna confondere la sfera religiosa con quella politica,
“ma
ciò non toglie che i cittadini cattolici hanno il dovere, come tutti gli altri
cittadini, di cercare sinceramente la verità e di promuovere e difendere con
mezzi leciti le verità morali riguardanti la vita sociale, la giustizia, la
libertà, il rispetto della vita e degli altri diritti della persona. Il fatto
che alcune di queste verità siano anche insegnate dalla Chiesa non diminuisce
la legittimità civile e la «laicità» dell’impegno di coloro che in esse si riconoscono,
indipendentemente dal ruolo che la ricerca razionale e la conferma procedente
dalla fede abbiano svolto nel loro riconoscimento da parte di ogni singolo
cittadino”[13].
Per il cristiano non ci possono essere due vite
parallele: da una parte la vita spirituale, con i suoi valori e le sue
esigenze, e dall’altra la vita quotidiana, cioè la famiglia, il lavoro, le
amicizie, i rapporti sociali, l’impegno politico, la cultura, ecc. Piuttosto,
in ogni attività, in ogni situazione, in ogni impegno concreto egli vede delle
occasioni provvidenziali per un continuo esercizio della speranza evangelica,
della carità fraterna e della fede che crede contro ogni apparenza e lotta
perché poggia le sue radici nel Dio della giustizia e della misericordia.
La coerenza tra fede e vita, tra vangelo e cultura, è oggi un’esigenza imprescindibile.
“Sbagliano
coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che
cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri
terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a
compierli, secondo la vocazione di ciascuno… Siano desiderosi i fedeli di poter
esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani,
domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale
insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene
coordinato a gloria di Dio”[14].
Conclusione
Oggi
i cristiani devono prendere coscienza che il problema della mafia e della
criminalità organizzata esiste e va affrontato con decisione.
Dobbiamo tenere presente
che i giudizi di valore della mafia si intersecano con quelli dell’ateismo
pratico, dell’amoralismo permissivo e della cultura di morte alimentata nella
società con la prassi dell’aborto e dell’eutanasia; che i fatti di morte
coinvolgono tutta la comunità e impediscono la pacifica convivenza,
catapultando tutti in un clima di paura se non addirittura di terrore; che non
è sufficiente condannare la violenza per risolvere il problema.
Tutti abbiamo il dovere
di riflettere e di impegnarci, in primo luogo a rendere visibile il volto di
Cristo e poi a rendere la Chiesa libera da ogni tipo di connivenza e di
compromesso con persone di dubbia moralità. Occorre alzare la voce, proclamando
il Vangelo della liberazione totale, soprannaturale e storica, del perdono e
della dignità dell’uomo e denunciando il fenomeno mafioso e il suo codice
d’onore antievangelico, disumano, satanico[15].
Una Teologia è autentica
quando diventa storia, quando calandosi nel qui e nell’oggi della vita
dell’uomo riesce a dare delle risposte concrete di riscatto e di liberazione da
ogni tipo di schiavitù.
Quanto più il male de
– formerà la Verità, tanto più forte, come singoli e come comunità, dovrà
essere la profezia evangelica, l’unica capace di operare un salto
qualitativo. Una profezia che sappia prima di tutto combattere una mentalità di
rassegnazione e di passività: si aspetta
che tutto piova dall’alto mentre
la « mafia» ne approfitta con i suoi miraggi illusori e distruttivi. Per questo
ci si dovrà rimboccare le maniche, con fiducia e operosità convinti che
“lo sviluppo del Sud non verrà mai dall’esterno, da qualche rara industria che si appoggia qui e non lascia traccia. Lo sviluppo non sarà mai vero se non sarà endogeno, costruito su realtà, intelligenze e risorse locali. Dal basso e non dall’alto. Certo, ci vuole una politica governativa che apra nuove strade, percorse poi da gente qui preparata, fiera delle propri doti, decisa a combattere fino in fondo”[16].
Parole forti e ricche di
speranza che solo un pastore che conosce e ama la sua terra e la sua gente può
pronunciare, parole che nascono da un’idea chiara che vede la
“riflessione
tra Nord – Sud, in clima di reciprocità e non solo di solidarietà, per cogliere
quella saggezza antica che il Sud regala al Nord e trarre uno stile, anche
politico, di inter – relazione con ogni Sud del mondo”[17].
Una profezia per essere
tale deve abbracciare ogni ambito di vita personale e istituzionale. Si deve
iniziare con uno stile incentrato sul rispetto della legalità, perché fino a
quando continueremo ad imbrogliare, a cercare scorciatoie, ad essere
esasperatamente individualisti; fino a quando vivremo di raccomandazioni, di
diritti che ci aspettiamo e mai di doveri che abbiamo; fino a quando non
usciremo allo scoperto con una denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, degli
inganni, mantenendo così uno stile omertoso … allora le cose non potranno mai
cambiare.
Ma anche le istituzioni
devono uscire da una logica clientelare, chiusa in se stessa, autoreferenziale,
arrivando alla ricerca del bene comune:
“il bene comune si presenta perciò come meta e impegno che unifica gli uomini al di là delle diversità dei loro interessi, e che esige la cura che ogni cittadino deve avere per la legge, la cui finalità è precisamente di proteggere e di promuovere il concreto bene di tutti. Si oppongono perciò alla ricerca del bene comune, e quindi al senso della legalità, non solo l’egoismo individuale, ma anche le situazioni economico – sociali nelle quali si sono solidificate ingiustizie, ossia le cosiddette strutture di peccato, che favoriscono gli interessi solo di alcuni a danno degli altri uomini”[18].
Per concretizzare tutto
ciò ci vogliono cristiani motivati e preparati che facciano dell’impegno politico
un campo esaltante per tradurre la carità di Cristo. Carità che significa
diritti umani rispettati, soprattutto dei più poveri, lavoro per tutti, equità,
onestà nell’amministrare le risorse pubbliche, impegno per la difesa e la
qualità della vita.
Ci vuole insomma l’impegno di tutti perché solo insieme si può opporre una resistenza forte capace di sconfiggere il fenomeno della mafia. E’ un problema culturale, di mentalità che si deve radicare nel cuore di ognuno domandandoci:
“Come
trasmettere al paese il senso delle cose giuste e delle cose sbagliate? Per rispondere ho usato
l’immagine della collina che scivola e frana piano piano perché è brulla. Come
fermarla? Certo, posso costruire in basso una grande muraglia che fermi la
collina: ma quanto riuscirà a trattenerla? La collina è più forte del muro, e
in pochi anni lo sgretolerà. C’è però un altro sistema, e consiste nel piantare
tanti alberi. Ecco i gruppi, ecco le organizzazioni dei giovani, ecco la
formazione delle coscienze, ecco, il senso profondo del messaggio di fede. È
come piantare innumerevoli virgulti, che non fanno rumore, e col tempo
diventano bosco, diventano foresta. Questi virgulti sono i giovani che, grazie
ad una forza nuova, grazie al senso di fede che dona libertà, attraverso scelte
concrete, insieme creano una foresta che frena la discesa della collina. Ecco
perché è importante ritrovarsi e stare insieme … certo, occorrono anche le
istituzioni, le forze dell’ordine, la scuola … Insieme possiamo farcela,
insieme si riesce a drizzarsi in piedi e , liberi, potremo lodare Dio e
benedirlo per sempre”[19].
Bibliografia
Osservatorio
Meridionale (a
cura di), Chiesa e
lotta alla mafia, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA) 1992.
Balducci E., L’uomo planetario,
Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1994.
Bregantini G., La terra e la gente. Edizioni
Luigi Monti, Saronno (VA) 2001.
Mons. A. Cantisani, «Il futuro della Calabria:
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in Comunità Nuova, 12 gennaio 2003.
Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium
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Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen
Gentium sulla Chiesa, del 21 novembre 1964.
Diocesi di Agrigento, Emergenza mafia. La profezia
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fondazione
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Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2001.
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Sollecitudo
rei socialis, del 30 dicembre 1987.
Educare alla legalità, nota pastorale
della CEI, Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace», Edizioni Paoline, Milano
1989.
Pacem in terris: un impegno permanente, Messaggio di Sua Santità giovanni Paolo II per la celebrazione
della giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2003, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2003.
Salvati V., Il Signore Dio e gli
altri signori, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA) 1994.
[1] La citazione è riportata da un foglietto rilasciato a tutte le chiese di Calabria in occasione della conclusione dell’anno bruniano. Il frontespizio del foglietto è Conferenza episcopale calabra, Lettera alle nostre Chiese di Calabria nel fascino dei nostri santi meridionali - 6 Ottobre 2002.
[2] V. Salvati, Il Signore Dio e gli altri signori, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA) 1994, passim.
[3] Mons. A. Cantisani, «Il futuro della Calabria: promozione culturale per la formazione morale, intellettuale e professionale», in Comunità Nuova, 12 gennaio 2003, pp. 6-7.
[4] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del 7 dicembre 1965, n. 1.
[5] concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa, del 21 novembre 1964, n. 8.
[6] Ivi, n. 43.
[7] Ivi, n. 1.
[8] Pacem in terris: un impegno permanente, Messaggio di Sua Santità giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2003, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, n. 6.
[9] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Sollecitudo rei socialis, del 30 dicembre 1987, n. 26.
[10] Educare alla legalità.
Per una cultura della legalità nel nostro Paese. Nota pastorale della
CEI, Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace», Edizioni Paoline, Milano 1989,
p. 11.
[11] giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 42.
[12] Cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, p. 18.
[13] Ivi, 18.
[14] Ivi, 26.
[15] Cfr. Diocesi di Agrigento, Emergenza mafia. La profezia e la testimonianza cristiana nei confronti della mafia e della mentalità mafiosa, Editrice Elle Di Ci, Leumann (TO) 1992, passim.
[16] G. Bregantini, La terra e la gente.La speranza in cui credo, Edizioni Luigi Monti, Saronno (VA) 2001, p. 31.
[17] Ivi, p. 12.
[18] Educare alla legalità, nota pastorale della CEI…, n. 12.
[19] Bregantini, La terra e la gente…, pp. 121-122.