‘Ndrangheta e religione

Lamezia, Istituto teologico calabro, 27 e 28 marzo 2015

Giuseppe SAVAGNONE

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Un anti-vangelo

 

La 'Ndrangheta come religione

 

'Ndrangheta e religione possono sembrare del tutto eterogenee. L'appartenenza alla 'ndrangheta sembrerebbe, a prima vista, solo una questione riguardante la società civile e il diritto penale. Ma non è così. La mafia, infatti, non è solo un'organizzazione criminale tesa, al pari di tante altre, a realizzare i propri illeciti interessi con mezzi altrettanto illeciti, ma si configura come una vera e propria forma di anti-vangelo e, proprio per questo, come qualcosa che si pone sul suo stesso piano, sia pure per negarlo: «La ‘ndrangheta» - hanno scritto i vescovi della Calabria -  «non ha nulla di cristiano. È altro dal cristianesimo, dalla Chiesa. Non è solo un'organizzazione criminale che, come tante altre, vuole realizzare i propri illeciti affari con mezzi altrettanto illeciti e illegali, ma - attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule, che scimmiottano il sacro si pone come una vera e .propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell'unico vero Dio» (Conferenza Episcopale Calabra, Testimoniare la verità del Vangelo. Nota Pastorale sulla 'ndrangheta, 25 dicembre 2014, n.8).

 

Il  "battesimo" mafioso

 

Per rendersene conto, basta guardare al rituale d'iniziazione attraverso cui ci si affilia, da sempre, sia a Cosa nostra che alla 'ndrangheta. In ogni grossa organizzazione criminale si sottopongono i candidati a delle prove e si tende "formalizzare" in qualche modo la loro adesione. Ma quello che avviene nel caso dell'affiliazione mafiosa non ha paragoni. Lo notava Giovanni Falcone: «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione» [1]. Non a caso l'iniziazione del nuovo membro si struttura come un rito in cui «ricorrono immancabilmente alcuni elementi collegati al rituale religioso del battesimo»[2].

E in questi termini lo descriveva già il «Giornale di Sicilia» del 21 agosto 1877: «Le forme d'inizio e di battesimo sono gravi e solenni (...). L'iniziato si inoltra nella sala e si ferma in piedi innanzi a una tavola sovra cui trovasi spiegata l'effigie di un santo (...). Offre ai due compari la sua mano destra e i due compari punzecchiando per mezzo di un ago il polpastrello del pollice destro ne fanno stillare tanto sangue che basti a bagnarne l'effigie del santo. Sopra codesta effigie insanguinata , l'iniziato presta il suo giuramento» e fa «bruciare alla candela accesa di rito [sic] la santa effigie insanguinata, e l'iniziato ha così preso il suo battesimo ed è salutato compare».

Più di cento anni dopo, Giovanni Brusca, descrivendo davanti ai giudici il proprio rito d'iniziazione a Cosa Nostra, testimonia della continuità di questo stile quando dice che Salvatore Riina fu per lui, in quell'occasione, «il padrino di battesimo» [3].

Non è solo una sceneggiata: c'è dietro una filosofia, che assomiglia, per certi versi, a una teologia. Nell'iniziazione mafiosa il candidato «viene simbolicamente invitato ad abbandonare la propria precedente condizione di vita, con la prospettiva di acquisirne una nuova e diversa, caratterizzata da prestigio e potere. Quando Leoluca Bagarella annuncia all'amico Tony Calvaruso il suo ingresso in Cosa Nostra, gli dice: "Tu non fai più parte di questo mondo... perché il nostro mondo è tutto un mondo particolare"» [4]. Il solo paragone plausibile è quello con la conversione: «Nell'immaginario dell'universo mafioso, la parvenza di sacralità giustifica e sorregge l'idea che attraverso il rito della combinazione si venga introdotti a una nuova vita, a una nuova identità» [5]. 

Addirittura, il parallelismo si può spingere fino a quel livello più radicale per cui una conversione implica, col conferimento della grazia, non solo un nuovo atteggiamento morale, ma un nuovo modo di essere. Il nuovo affiliato è chiamato a «una "mutazione ontologica del [suo] regime esistenziale" (...). L'iniziazione, infatti, è un rito di passaggio: Si entra dentro, ma soltanto dopo aver obliterato il proprio essere pregresso. Si muore (simbolicamente) alla vita profana per rinascere uomini nuovi»[6] . Non è il sacramento del battesimo che imprime un carattere e muta ontologicamente l'identità personale, facendo del battezzato un "uomo nuovo"?

Analoga ritualità si trova nella iniziazione alla 'ndrangheta. I presenti, in quanto membri della «società degli "uomini" veri», conferiscono all'iniziato «tale titolo di omu riconoscendo, con un rito solenne definito "battesimo", il possesso, da parte del candidato, dei requisiti necessari per essere elevato a tanta dignità» [7]. «Lo "status" di cittadino della mafia si acquista infatti in Calabria solo in seguito ad un rigido controllo tendente a verificare l'affidabilità e l'attitudine criminale del candidato, giacché nessuno può essere accolto se non viene preventivamente osservato, valutato, esaminato da altri militanti in grado di garantire sulle doti e le disposizioni della recluta. Anche se, diversamente da quanto si verifica nella mafia siciliana, quella del "merito criminale" non è la sola strada per fare ingresso nella 'ndrangheta, poiché i figli maschi dell'uomo d'onore calabrese hanno diritto ad essere "battezzati nelle fasce" e, quindi, ereditano di fatto l'investitura criminale dai titoli conseguiti in precedenza dall'ascendente diretto» [8].

Ma anche ai gradi più alti si accede attraverso rituali che sono strettamente legati alla tradizione cristiana. Cosi, nella 'ndrangheta, al grado immediatamente inferiore a quello più elevato della gerarchia criminale si accede ponendo la mano sul Vangelo e facendo su di esso un solenne giuramento di fedeltà. Il legame col rito è talmente stretto che colui che occupa questo grado viene chiamato «vangelista»[9] .

 

La "religione" dei mafiosi

 

Ma qual è il contenuto di questa "religione" mafiosa? Già parlando della mafia ottocentesca si è potuto affermare che «non si tratta unicamente di un'accumulazione della roba fine a se stessa. C'è un culto della terra, una vera e propria religione della terra e del sangue, che è probabilmente la sola religione a cui è devota la sanguinaria mafia del giardini» [10].

Ma più appropriato a definire l'essenza di questa "religione" è forse qualificarla come culto del potere e del prestigio che ne deriva. Nell'universo mafioso il potere è più importante della ricchezza economica e di qualsiasi altra cosa: “U cumannari è megghiu 'ru futtiri ”, il  piacere che dà il potere supera quello sessuale. «La fondamentalità dell'onore nella struttura dell'azione mafiosa fa sì che il movente economico puro e semplice - inteso sia nei termini della volgare sete di guadagno che in quelli della religione dell'accumulazione - non riesca ad affermarsi come il supremo regolatore del rapporti e delle posizioni sociali». Anche ora che «l'approdo verso l'imprenditorialità ha significato l'assunzione della moderna cultura del successo», «è la ricerca della potenza e non la sete di lucro che caratterizza, in ultima analisi, il mafioso imprenditore»[11].

E' questa una delle note che più chiaramente distinguono la mentalità del mafioso da quella del comune delinquente. A proposito di Michele Navarra, capo della mafia di Corleone prima che Liggio prendesse il suo posto, facendolo uccidere in un agguato, la Commissione Antimafia nota: «La scarsa consistenza patrimoniale dimostra come Navarra pia che al denaro in quanto tale abbia sempre mirato al potere (...) Egli spendeva spesso pia di quanto introitava dalla sua attività sia di medico che di mafioso»[12]. E di suo fratello, capo della mafia catanese, che riceveva ogni giorno gente venuta a chiedergli favori di ogni genere, ii pentito Calderone ricorda con fierezza che «non ha mai preso una lira per queste sue attività (...). Nessuno doveva parlare di soldi in sua presenza, quando gli veniva a chiedere un favore. Pippo avrebbe buttato fuori chi lo avesse fatto» [13].

La religione del boss mafioso comporta una rigorosa ascesi. Per sfuggire alla cattura, senza rinunziare però al controllo del suo territorio, e dunque escludendo l'ipotesi della fuga all'estero (dove potrebbe vivere da nababbo con le immense fortune illecitamente accumulate), spesso egli vive, come è stato nel caso di Bernardo Provenzano, in condizioni logistiche estremamente rudimentali, lontanissime da quelle del gangster americano tradizionale. Gli basta sapere che la vita di altri uomini è nelle sue mani e che egli ne dispone a proprio arbitrio. Leoluca Bagarella ha detto più di una volta a un suo aiutante, poi "pentito": «Io ho la possibilità domani mattina di decidere se una persona dovrà vedere o meno il sole (...). Tu lo capisci che io sono simile a Dio?» [14].

I vescovi della Calabria parlavano di una «religione capovolta», di «sacralità atea». Abbiamo qui un primo livello di riflessione che consente di giustificare queste espressioni. Per dimostrare la pertinenza del sostantivo, valgano le analogie sopra indicate fra l'affiliazione mafiosa e il battesimo cristiano. Quella della mafia non è solo un'opzione fra le altre, ma una scelta radicale, totalizzante, che pretende di trasformare e possedere l'individuo nel suo stesso essere in funzione di un Assoluto a cui egli deve darsi. Ma quando si va a vedere qual è questo Assoluto, esso si viene a identificare col potere a cui, da boss, è pervenuto, o a cui, da semplice gregario, deve obbedire ciecamente.

 

 

Una “fede” atea

Alla luce di quanto detto si può giustificare il giudizio che uno storico della Chiesa, profondo conoscitore del fenomeno mafioso, dava già più di quindici anni fa a proposito della "filosofia" di Cosa nostra: «La mafia produce una cultura di fatto atea, che è antitetica con il Vangelo, perché  mette un uomo o una organizzazione al posto di Dio» [15]. Sulla stessa linea un noto teologo moralista: «Possiamo dire con tutta tranquillità teologica che la mafia è qualcosa di radicalmente anti-Dio», perché in essa «la pretesa del potere dell'uomo sull'uomo è esplicita» [16].

Spesso si è stati colpiti dall'apparente collegamento dei rituali mafiosi con l'universo spirituale del cristianesimo popolare e dalla ostentata religiosità di molti boss (frequentazione della Bibbia, altarini, immaginette di santi, professioni di adesione alla fede cattolica). Qualche presbitero, ingenuamente, si è anche prestato ad alimentare l'equivoco (famoso il caso del frate carmelitano Frittitta, che si recava a celebrare la santa messa nel covo del killer pluriomicida Aglieri, latitante ricercato dalla polizia).

Si tratta di un’illusione ottica. «Sono convinto, contrariamente a quanto si crede, che la mafia sia strutturalmente una grave forma di ateismo. Utilizza anche immagini, simboli, tratti dal codice culturale religioso, ma resta essenzialmente atea (...). La mafia è una forma di ateismo perché colloca un uomo - o un gruppo di uomini - come detentore della totalità del potere e del sapere. In altri termini, non accetta che vi sia un'istanza più alta al difuori di essa (...). Uno solo ha diritto di decidere, di agire (...). Ma questo è contro il vangelo, contro la dignità della persona umana, contro la libertà dei figli di Dio» [17].

Qualcuno potrebbe obiettare che ogni delitto contro la persona umana implica un rifiuto del Dio di cui l'uomo è immagine. Sarebbero dunque atei tutti gli assassini?

L'osservazione è utile per evidenziare il punto essenziale di quanto stiamo cercando di dimostrare. Ogni violazione della legge di Dio, specie se grave come l'omicidio, comporta implicitamente una negazione della sua signoria e, al limite, della sua stessa esistenza. Quello che caratterizza il mafioso, rispetto a tutti gli altri trasgressori della volontà divina, è che egli esplicitamente consegna totalmente se stesso, con una libera e consapevole scelta, a un altro Assoluto, di cui il Dio di Gesù Cristo diventa una maschera e uno strumento. (Notiamo di passaggio che, in questo modo, all'ateismo si aggiunge il sacrilegio). Non si tratta di un ateismo pratico, come nel caso di tanta gente che vive come se Dio non esistesse, ma di una filosofia (naturalmente espressa in termini non tecnici, ma egualmente netti e inequivocabili), o meglio - come dicevamo all'inizio - di una religione, con ciò che di totalizzante ha questo termine. Perciò non è esagerato ribadire che «la religione dei mafiosi è una delle tante versioni in cui si configura l'atteggiamento più sostanzialmente irreligioso che l'uomo possa nutrire»[18].

Appare pienamente appropriato, alla luce di quanto detto, ciò che hanno scritto i vescovi della Calabria: «Nelle radici della ‘ndrangheta c'è, in realtà, il concetto di un "assoluto", sopra del quale non c'è alcun altro: c'è solo il capo di turno e la "cupola" mafiosa. Un "assoluto" da cui si dipende, a cui bisogna sempre ubbidire e rendere conto di tutto; un "assoluto", che ha l'ultima parola sulla vita degli altri» (Conferenza Episcopale Calabra, Testimoniare la verità del Vangelo, cit., n.13).

Su tutto questo si sono pronunziati senza mezzi termini anche i vescovi siciliani. Denunciando i «presunti, pretestuosi e distolti valori propri della mentalità mafiosa», essi hanno sottolineato che in essa l'interesse della "famiglia" (cioè del gruppo criminale) «viene posto in cima a tutto, a costo di lacrime e sangue». «Per questa ragione», continuano i vescovi siciliani, «tutti coloro che, in qualsiasi modo , fanno parte della mafia o ad essa aderiscono a pongono atti di connivenza con essa, devono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori della comunione della sua Chiesa. Né potrà ritenersi escluso da questo giudizio chi, trovandosi in una delle suddette condizioni, pretendesse di coonestarla con atti esteriori di devozione o con elargizioni benefiche. Al limite, siffatte manifestazioni dovranno essere considerate strumentali e perciò false ed esse stesse peccaminose» (Conferenza Epicopale Siciliana, Nuova evangelizzazione e pastorale. Orientamenti pastorali per le Chiese di Sicilia, 13 aprile 1994, n.12).

E’ già chiaro, a questo punto, che lo scontro tra la mafia e la Chiesa non è solo motivato da ragioni di ordine sociale, civile e culturale, ma, pur passando anche attraverso di esse, ha una portata ben più radicale, in cui si configura il conflitto tra due fedi, quella mafiosa e quella evangelica. È stato in quanto rappresentante di questa seconda che, per esempio, un sacerdote come don Pino Puglisi è stato assassinato dai mafiosi. Appare significativo, a questo proposito, ii fatto che nessuno del sacerdoti della diocesi di Palermo attivamente impegnati sul piano sociale e civile, e che in quest'ottica svolgevano una vigorosa battaglia contro la mafia, tanto da essere costantemente protetti da una scorta, sia stato ucciso o abbia subito degli attentati. Evidentemente, proprio il fatto che la loro linea fosse polarizzata su temi più secolari che religiosi li ha resi, agli occhi dei mafiosi, meno odiosi e pericolosi di don Puglisi, che non è mai stato un prete anti-mafia.

 

 

Chiesa e ’Ndrangheta

 

 

Lo scandalo della convivenza della comunità cristiana con la criminalità organizzata

 

È innegabile che per molto tempo, in passato, le comunità cristiane abbiano avuto nei confronti della mafia un atteggiamento che oggi ci appare inadeguato. Certamente, nel complesso non si può parlare di  una chiara presa di distanza. Come osserva Cataldo Naro a proposito della mafia siciliana, nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (ma in realtà il discorso abbraccia un periodo ben più ampio, che si può far risalire alla fine dell'Ottocento), da parte dei cattolici si aveva «una “percezione” del fenomeno mafioso che ne coglieva l'aspetto di radicata simbiosi con la “tradizionale” società paesana e si rivelava incapace di stigmatizzarne, in nome della coscienza cristiana, il controllo sociale in forza dell'esercizio o della minaccia della violenza» [19]. Nel contesto di una cultura prevalente arcaica e feudale, certi rapporti di dominio e di prevaricazione non colpivano eccessivamente. «Né il clero o i semplici fedeli o gli stessi affiliati o complici della mafia avvertivano una netta contraddizione tra l'appartenenza o la collusione mafiosa e l'appartenenza ecclesiale. L'omogeneità religiosa della società paesana non era messa in discussione. La mafia non contrastava il culto e le devozioni tradizionali. E il clero non esprimeva riprovazione morale, in nome del vangelo, almeno in pubblico, per il sistema di controllo mafioso» [20]. 

Il regime prevalente dei rapporti tra Chiesa e mafia appare, in complesso, quello di una coabitazione senza conflitti - almeno visibili all'esterno. Talora alla coabitazione si aggiungevano legami di parentela. Calogero Vizzini, capomafia di Villalba e presunto leader  della mafia siciliana, aveva due fratelli sacerdoti (uno dei quali fu anche vicario generale), uno zio era parroco del paese, un altro zio vescovo e un cugino anch'egli vescovo. Uno dei due fratelli sacerdoti, fra l'altro, abitava con lui. Entrambi si adoperarono attivamente, quando don Calogero fu inviato al confino dal fascismo, per far revocare il provvedimento, ricorrendo alla mediazione del vescovo di Caltanissetta, mons. Jacono.

Probabilmente ha giocato, nella lentezza con cui la Chiesa ha acquistato consapevolezza della perversità del potere mafioso, il fatto che essa affondava le sue radici nella società contadina e tradizionalista, sua ultima roccaforte in una civiltà che la modernizzazione le rendeva sempre più estranea od ostile. Ora, precisamente di questo mondo rurale, con le sue luci e le sue ombre, ma in complesso familiare, il mafioso era il garante, rispettato e temuto. E, del resto, società contadina, Chiesa e mafia non si trovavano unite, alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento, contro  il comune nemico costituito da  uno Stato liberale, ostile ai cattolici (pesavano la “questione romana”  e il conseguente non expedit), che nel Sud si presentava per lo più come un ennesimo conquistatore?

E quando il rapporto della Chiesa cambiò, con l’avvento al potere della Democrazia cristiana, un nuovo pericolo contribuì a mettere in secondo piano il problema della criminalità organizzata: «Nel secondo dopoguerra il nemico ideologico comunista oscurava  (...) la percezione del pericolo della mafia perché essa si era inserita a poco a poco nel fronte anticomunista. La preoccupazione più impellente dei vescovi dopo lo sconvolgimento della guerra era quello di ricostruire una nuova unità di popolo attorno alla Chiesa e ai valori religiosi che si ritenevano in pericolo a causa dell'azione dei socialcomunisti» [21].

Si aggiunga il fatto che la percezione diffusa della gravità del fenomeno mafioso è rimasta a lungo, nella società italiana,  molto diversa da quella odierna. Si è spesso citato come uno scandalo il caso del Cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, che minimizzò, arrivando a negarne l’esistenza, il fenomeno mafioso.  Ma uno studioso certo non sospetto di simpatie clericali, come lo storico marxista Francesco Renda, poteva dire, onestamente, che per quanto riguarda la mafia «la sottovalutazione  è stata della Chiesa, ma non solo. Tutta la comunità nazionale ha sottovalutato il fenomeno»[22].

Non è un’affermazione fatta a caso. E' impressionante che ancora nel 1955 il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, ritenuto il vertice della gerarchia mafiosa, potesse scrivere in una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (...) ha affiancato addirittura le forze dell'ordine (...) Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività» [23].

Si tratta, allora, come scrive in un suo studio lo stesso Renda,  di  «non escludere che riguardo al fenomeno mafia negli anni ‘40 e ‘50 ci sia stata una diffusa sottovalutazione; che il concetto di mafia sia stato diverso dal concetto di mafia oggi dominante; e che diversa sia stata pertanto la sensibilità e la maniera di porsi e affrontare il problema da parte della società isolana e nazionale. E poiché anche la Chiesa è figlia del secolo, se il livello culturale si abbassa nella società, si abbassa pure nella Chiesa. E perciò nel valutare il silenzio cattolico non si può non tenere in conto anche l’agnosticismo dello Stato, e l’atteggiamento neutro e distaccato delle polizie e della magistratura, nonché l’assenza di una legislazione appropriata, che erano causa ed effetto insieme del non considerare la mafia come problema di interesse civile e politico generale, ma solo come nebulosa sociologica di interesse più o meno folclorico locale, lasciando che la stessa, impunemente o quasi, continuasse la sua criminosa attività nel territorio» [24].

 

 

Non è vero che le denunzie non ci sono state

      

Questo, tuttavia, riguarda il passato. Ormai, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, le denunzie della Chiesa e l’esplicita reiterata presa di posizione - di singoli pastori e di conferenze episcopali regionali - nei confronti della criminalità organizzata, hanno posto fine una volta per tutte all’equivoco.  Perciò non si può non restare quanto meno sorpresi davanti alle affermazioni contenute nella relazione annuale del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti,  nel febbraio 2015, là dove egli parla, fra l’altro, del ruolo della Chiesa e del suo atteggiamento nei confronti della criminalità organizzata. «Sono convinto», ha detto il magistrato, «che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie. E che grande responsabilità per i silenzi sia della Chiesa. Viene ammazzato don Diana, poi don Puglisi: reazioni zero. Siamo dovuti arrivare al 2009 per iniziare a parlarne timidamente. Ora finalmente si è mossa qualcosa con Papa Francesco ma per decenni la Chiesa avrebbe potuto fare ma non ha fatto nulla. Papa Francesco ne parla apertamente ma sono dovuti passare altri 6 anni per la scomunica dei mafiosi».

Roberti non sa, evidentemente, che già da tempo, nell'autunno del 1982,  la Conferenza Episcopale Siciliana ha comminato la scomunica per gli autori di crimini di stampo mafioso [25], che dunque non è una novità. Questa informazione lo avrebbe forse rassicurato sul fatto che le denunzie sono state fatte, e come!, ben prima di papa Francesco. Che le ha certo ribadite e confermate, ma partendo dalle prese di posizione dei suoi predecessori e dei vescovi meridionali.

Ma non sono stati solo i vescovi. Insieme a loro, una porzione significativa del popolo cristiano ha ormai da tempo espresso il proprio rifiuto nei confronti della mafia. Nel 1993, al terzo convegno delle Chiese di Sicilia, dove era stato  invitato a parlare il procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, che della lotta alla mafia in quel momento era il simbolo vivente, per applaudire il suo discorso tutta l’assemblea (duemila delegati provenienti da tutte le diocesi della Sicilia) si alzò in piedi, - «come davanti al Vangelo», commentò con un sorriso il cardinale Pappalardo. E in quello stesso 1993 fu un sacerdote qualsiasi, non un “prete-antimafia”, don Pino Puglisi, a testimoniare con la sua vita la radicale contrapposizione tra il Vangelo predicato dalla Chiesa e la mafia. Una testimonianza che la Chiesa stessa ha voluto solennemente consacrare quando il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di circa centomila fedeli, don Puglisi è stato riconosciuto martire della fede e proclamato beato.

E, per quello che riguarda le Chiese di Calabria, basta andare a leggere una serie di prese di posizione che, a partire dal documento della Conferenza Episcopale Calabra, Leviamo la nostra voce contro la mafia - L’episcopato calabro contro la mafia, disonorata piaga della società, del 20 novembre 1975, fino al recente Testimoniare la verità del Vangelo. Nota Pastorale sulla ’ndrangheta, del 25 dicembre 2014, dicono tutte con estrema chiarezza e fermezza che «l’incompatibilità della ’ndrangheta non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato, che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale» (Testimoniare la verità del Vangelo, cit., n.8).

 

 

Una Chiesa “a due piani”

 

Le Chiese del Sud, dunque, non hanno taciuto. Eppure suona inquietante l’interrogativo posto in un recente convegno della Conferenze Episcopale Calabra: «Sono state dette moltissime cose, sono stati indicati moltissimi percorsi, sono state prese posizioni coraggiose. Mi chiedo, però: che cos’è che non ha funzionato? (…). Questi sforzi che abbiamo fatto a cosa sono serviti, se poi la situazione di degrado sta crescendo?» [26].

Già nella “Presentazione dei lavori” della stessa assise la rappresentate del comitato preparatorio, facendo riferimento alle «preziose conclusioni degli ultimi Convegni ecclesiali regionali», aveva osservato: «Quanta lungimirante attenzione, in quei documenti. Quanta lucidità analitica, quanta intensità propositiva. Eppure non possiamo non chiederci in che misura alla luminosità delle parole sia poi seguita la coerenza dei comportamenti e delle scelte, non possiamo non chiederci quanti passi avanti abbia effettivamente compiuto la nostra terra sulle auspicate strade di liberazione»[27].

Che cos’è che non ha funzionato? Una prima risposta può certamente essere che, per quanto la Chiesa si pronunzi, oggi «la sua produzione di norme e valori, i suoi discorsi, hanno poco peso, poca rilevanza» [28] . E questo non vale solo nei confronti della criminalità organizzata!

Ma perché avviene questo? E qui si impone una seconda risposta: «Il problema che abbiamo nella Chiesa è di fare in modo che questi elementi diventino comuni a tutti i cristiani e che contemporaneamente siano portati agli altri» [29]. In altri termini, il problema è che nella Chiesa – e questo non riguarda solo il Sud – ci sono come due “piani”, due livelli ben distinti, e in larga misura anche separati. C’è il “piano nobile” dove si svolgono i convegni, i seminari di studio, i dibattiti tra gli esperti, da cui la gerarchia ecclesiastica trae il materiale per i propri documenti. A questo livello si pongono i testi che abbiamo citato e che dicono cose verissime. E c’è il “piano-terra” della pastorale ordinaria, delle parrocchie, dei gruppi e delle associazioni, della vita quotidiana della comunità credente, dove dominano dinamiche, difficoltà, esigenze, così diverse da quelle trattate nei documenti e nei convegni da destare, negli inquilini di questo “pianterreno”, un senso di totale indifferenza o, addirittura, di sorda irritazione.

Tra i preti d’avanguardia e i laici “impegnati”, che stanno al “piano nobile”, e la grande maggioranza del clero e del  laicato , che invece abitano al “piano-terra”, non mancano, evidentemente, scambi, contatti: i secondi ogni tanto chiamano i primi a fare qualche conferenza, mandano dei loro delegati ai convegni, ma la separazione resta.

Ora, la risposta della comunità cristiana ai problemi posti dalla “cultura della mafia” dipende per il novanta per cento dal “piano terra”. Tutto ciò vale per il Nord come per il Mezzogiorno. I Vescovi settentrionali hanno sicuramente continuato a sostenere, in questi anni, la validità della Dottrina sociale della Chiesa, ma questo non impedisce che alcune regioni italiane di antica tradizione cattolica abbiano visto il sorgere e l’affermarsi della Lega, in aperto dissenso con molti punti di quella Dottrina. Anche lì, al “piano nobile” non mancano i preti e i laici “impegnati” che nei documenti e nei convegni rivendicano la logica della solidarietà, ma di fatto la gente che va a messa la  domenica (e anche quella che non ci va, ma ci tiene a far battezzare i figli e a sposarsi in chiesa) non si comporta secondo questa logica  quando si tratta di fare alcune scelte concrete che incidono sul volto della loro società. La stessa cosa avviene al Sud per la mafia.

Evidentemente, il tipo di problemi su cui si verifica la frattura tra i due piani è molto diverso nei due ambiti territoriali. Se noi qui dovessimo affrontare il rapporto della Chiesa con la “questione settentrionale”, la nostra diagnosi, pur partendo da un comune terreno culturale, che è quello della post-modernità, avrebbe un andamento differente. Qui il nostro compito è di guardare ai motivi per cui il messaggio evangelico non riesce di fatto a “mordere” nel Mezzogiorno e di questo cercheremo di rendere conto.

 

Il “sacro” non cristiano

 

Che cosa, nel Sud, non va al “piano terra”? Per rispondere a questa domanda il discorso si deve ancora approfondire. La mafia attinge a ciò che più oscuro e ambiguo si nasconde nella pieghe di un fenomeno in sé ricchissimo di positività qual è la religiosità popolare dei siciliani. Un aspetto che affiora nell'enfasi posta sul culto dei santi e della Madonna, a scapito della centralità della figura del Salvatore; nella moltiplicazione e nella gelosa appropriazione, da parte di singole comunità territoriali, delle diverse forme devozionali, a scapito della cattolicità della Chiesa e della sua fede; nella riduzione della Provvidenza al cieco e spietato Fato greco; nell’antropomorfismo per cui  il Dio trascendente viene identificato con un Potere arbitrario, da condizionare con riti e doni, a prescindere dal reale impegno, nella propria esistenza, per fare la sua volontà. E' in questo clima di religiosità, fortemente radicata, ma bisognosa di una profonda purificazione, che matura quello scollamento tra la fede e la vita di cui l'etica mafiosa si nutre.

C’è, alla base, la ricorrente tentazione di ridurre il cristianesimo ad una forma di “sacro” che rimanda a un senso del divino di tipo cosmico-panteistico, «in cui da un lato la divinità è concepita in termini impersonali - salvo a manifestarsi in una miriade di espressioni personali particolari, tutte “divine” in egual modo senza che nessuna di esse possa veramente essere ritenuta Dio (per es. i santi o la Madonna, equiparati a Gesù Cristo) - dall'altro l'individualità del credente è chiamata ad inabissarsi fino a perdersi in essa»[30].  Una visione incompatibile con la fede cristiana che, invece, richiama vigorosamente a un dialogo tra persone, quella divina e quella umana, con la loro singolarità e la loro coscienza e libertà, aprendo lo spazio della responsabilità per le proprie scelte.

Da qui anche il diverso atteggiamento verso la storia: il “sacro” riporta a un divino presente nella natura, senza tempo, indifferente alle vicende particolari dei singoli e delle società. «La fede cristiana - proprio in quanto fondata sul rapporto tra due soggetti liberi, le cui scelte imprevedibili e irripetibili sono irriducibili alla regolarità e ripetitività dei fenomeni naturali -  è pervasa di storicità. Fin dalla sua matrice giudaica, essa si presenta come una storia, segnata dall'irrompere di Dio nel tempo degli uomini - e non viceversa, come in tante religioni e filosofie, dalla fuga degli uomini nell'eternità immutabile del divino. L'annuncio evangelico porta all'estremo limite questo paradosso: Dio stesso, facendosi “carne”, assume la storicità come sua dimensione propria. Il cristiano non crede in una dottrina, ma in una vicenda. E le sue feste non scandiscono i tempi delle stagioni, ma i momenti di una storia» [31].

Perciò anche il valore dell'impegno dell'uomo nel mondo è molto diverso nelle due prospettive. In quella del “sacro” si tratta di riprodurre incessantemente quello che da sempre è. In quella cristiana, di prolungare l'opera creatrice di Dio - di far esistere, dunque, ciò che ancora non è. Nella logica del “sacro”, la comunità è vincolata a un passato oltre cui non si può andare; in quella della fede è la compagnia di coloro che sono chiamati a costruire insieme il futuro.

Nel Sud la visione del “sacro” impersonale e fatalista, eredità della Magna Grecia e – per quanto riguarda il secondo aspetto -  anche della tradizione musulmana, ha pesato sempre nella religiosità popolare. Da qui il rischio sempre presente di un «monoteismo dichiarato che maschera un politeismo sostanziale», in cui  le singole persone della Trinità o dei santi «vengono considerate (…) “cifre” equipollenti di una sorta di (heideggeriano) “abisso senza fondo”, anonimo, inconosciuto e inconoscibile» [32]. A questo punto  «l’insondabile divino è per molti versi identificabile con una oscura forza arbitraria e inappellabile a cui tutti – Dio, Gesù, Madonna, santi, uomini e altri animali – siamo soggetti senza possibilità di opporci»[33].

Questo ci riconduce a quella “religione capovolta” di cui si parlava all’inizio a proposito della mafia.  Perché qui le singole figure personali di Cristo, di Maria e dei santi sono solo «“icone” che alludono – e alludono soltanto – a quell’Assoluto incondizionato che, nella sua indecifrabilità ultima e irriducibile, è l’autentico Prototipo dell’unico potere a cui si crede veramente: il potere del capo-mafia. Se chiamiamo Dio questo super-Dio, questo Dio-prima-di-Dio, possiamo continuare ad usare il semantema “Dio” anche a proposito della teologia mafiosa» [34]. Ma è una maschera del sostanziale ateismo che ci sta dietro: «Se davvero ateo è solo il pensiero che tra vita e morte, bene e male, non ci sia dialettica, perché – al di là delle apparenze superficiali e convenzionali – non si dà differenza, in quanto la stoffa omogenea da cui tutto è ritagliato è nihil, si deve serenamente asserire che la teologia dei mafiosi – ripresa interpretativa e amplificante della religiosità  meridionale – è nichilistica. È una teologia atea» [35].

 

Il corto-circuito di arcaismo e post-modernità nel Meridione d’Italia

 

Quando si vuole capire la mafia non bisogna dimenticare il quadro culturale per certi versi fortemente arretrato  del Meridione d’Italia:  i legami privati spesso sostitutivi di quelli pubblici, la famiglia come alternativa alla cittadinanza, la religiosità  in termini che a volte oscurano la fede. E sul ritardo economico, cornice importante del potere della criminalità organizzata, pesano da sempre «una occupazione staccata dalla produttività», «l’adagiarsi dei gruppi e degli individui su una stasi patologica», e, più in generale, «una cultura della passività» [36]. Vale per tutte le regioni meridionali, probabilmente, l’amara considerazione che Tomasi di Lampedusa mette in bocca al principe di Salina ne Il Gattopardo: «In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”»[37].

Da qui la scarsa propensione all’impegno sociale, civile, politico, all’attività produttiva, ad ogni iniziativa creatrice di novità, nella fatalistica certezza che non si possa mai cambiare la realtà. Al fondo, la percezione della insignificanza del divenire storico, ridotto a un ciclo sempre uguale, e delle innovazioni come una maschera per nascondere questa sostanziale immobilità. Come dice ancora un personaggio di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?»[38].

Da qui anche una religiosità che si pone parallela alla vita reale, con i suoi impegni e le sue responsabilità. Da qui, infine, una radicata diffidenza verso chi non appartiene al proprio gruppo familiare, nonché la sfiducia e perfino la larvata ostilità  nei confronti dello Stato, che porta con sé il perdurare del radicato costume della vendetta privata, in alternativa alla fiducia nella legge e nelle istituzioni.

Su questo terreno arcaico ha fatto irruzione la cultura della post-modernità, rafforzando, per un’anacronistica e pur reale sintonia,  gli antichi germi patologici che si annidavano in esso. Alla base, la crisi della società tradizionale. Per tutta l’Italia, in realtà, il brusco processo di modernizzazione del dopoguerra ha costituito un trauma, travolgendo il mondo contadino con le sue tradizioni e proiettando le masse nella civiltà dei consumi, con effetti fortemente problematici. Scoppola parlava, a questo proposito, di «salto in un vuoto etico che non ha riscontro in altri momenti o aree geografiche della storia europea»[39].

Ma nel Mezzogiorno questo trauma è risultato particolarmente violento. La crisi di trasformazione, infatti, ha sorpreso il Meridione in uno stadio assai più arretrato di quello di altre aree del nostro Paese. Come ha osservato una volta padre Sorge, «da noi (...) il premoderno è giunto fino ai nostri giorni. E oggi il Sud passa al postmoderno, senza aver condiviso con il resto del Paese quei processi di modernizzazione che hanno mutato il volto dell'Italia negli ultimi decenni»[40].

Ciò ha reso ancora più repentino il “salto” dai costumi tradizionali a quelli imposti dalla cultura mediatica. Recentemente, parlando della crisi della famiglia, è stato notato che «quello che in Italia è avvenuto in cinquant’anni, in Calabria sta avvenendo in quindici anni». E poiché, proprio per il suo ruolo pressoché esclusivo, la famiglia, nel Meridione, «ha costituito e continua a costituire uno dei luoghi fondamentali dove si producono normative valoriali» [41], si può facilmente comprendere quali effetti ciò abbia prodotto a livello etico.

Anche da un punto di vista lavorativo, nel Sud lo spostamento al terziario, normale come esito di una fase di alta industrializzazione, ormai pervenuta ad una mentalità imprenditoriale-efficientista, ha visto come protagonisti ceti da poco tempo inurbati e protesi, più che ad assicurare una rete efficiente di servizi, a cercare sicurezza all'interno delle strutture pubbliche, a cui hanno potuto accedere non sulla base di effettive competenze, ma di un clientelismo a cui li predisponeva la loro mentalità arcaico-feudale.

Analogamente, la crisi dello Stato - che altrove è stato il punto d’arrivo di un lungo itinerario di esperienza politica e amministrativa – nel Sud è stata vissuta da una società che ha sempre avvertito le istituzioni pubbliche come realtà estranee da cui difendersi.

 Già da un punto di vista sociologico si può leggere, insomma, la storia del Mezzogiorno come quella di un immenso “corto-circuito” tra arcaismo e post-modernità, che ha reso particolarmente violenti e incontrollabili, nel Sud, processi comuni ad altri ambienti d'Italia e forse d'Europa.

Tutto ciò ha avuto dei precisi riscontri sul piano culturale. Qui ne individuiamo tre, che ci appaiono particolarmente significativi. Il primo è l’irrompere del “sacro”[42] post-moderno, che va a potenziare le tendenze più ambigue della religiosità popolare, indebolendo quelle autenticamente evangeliche presenti in essa. Il secondo è la crisi del senso della storia come progresso lineare - sulla scia della visione nietzcheana dell’eterno ritorno e di un divenire senza direzione -, che si sovrappone e dà forza alle tentazioni fatalistiche e immobilistiche del Mezzogiorno. Il terzo riguarda il declino dell’idea di comunità e di bene comune, in nome dell’individualismo dilagante nella società contemporanea, che si incontra con l’inclinazione delle gente del Sud a privilegiare un “privato allargato” (la famiglia, il clan) rispetto a una più ampia dimensione comunitaria.

E’ nel modo in cui la pastorale ordinaria ha affrontato finora queste sfide che, senza misconoscere gli aspetti positivi, dobbiamo cercare quello che “non ha funzionato”.

 

 

La sfida pastorale

 

 

La pastorale tra religiosità sacrale e “religione dei valori”

 

Non c’è dubbio che una distorta sacralità si annidi nelle pieghe della religiosità popolare, esprimendone gli aspetti deteriori. «Qui siamo davvero al “cuore” della concezione mafiosa del divino» [43]. Su questa religiosità bisogna dunque operare, pastoralmente. E senza dubbio lo si è fatto, in una certa misura. Solo che una certa insistenza sulle celebrazioni liturgiche e paraliturgiche, a scapito di una sistematica evangelizzazione – che andrebbe protratta ben oltre i confini del catechismo per la prima comunione e per la cresima -, ha finito a volte per lasciare campo a certe deformazioni della religione del popolo. A proposito di quest’ultima, notava lucidamente il Card. Pappalardo: «La Chiesa in varie epoche ha cercato di orientarla verso una fede convinta, una pratica sacramentale autentica e una vita morale animata dalla carità, ma tale azione non è stata forse mai sostenuta da una forte pastorale dell'annunzio» [44].

Dopo molti anni, troviamo un’analoga diagnosi nelle parole dei vescovi della Calabria: «Possiamo affermare che lo stravolgimento subito dalle devozioni e dalle pratiche di culto della Chiesa ha portato, a volte, alcune belle forme di pietà popolare a diventare autentiche manifestazioni di idolatria, mascherata di religiosità» (Conferenza Episcopale Calabra, Testimoniare la verità del Vangelo, cit., n.13).

In questo modo, un certo fatalismo, travestito da rassegnazione cristiana, un senso della protezione da parte del santo, che prescinde dal rapporto a Cristo e diventa emblema della protezione che il mafioso può esercitare, un particolarismo religioso che, trasferito sul piano civile,  dissolve l’idea del bene comune in nome degli interessi della propria “famiglia”, hanno finito per trovare spazio all’interno delle stesse comunità cristiane. Né in altro modo si spiegherebbe, del resto, la pervasività di questi atteggiamenti perversi in ambienti, come quelli dell’Italia meridionale, dove la presenza della Chiesa è capillare e influente.

Da questo punto di vista, come notavano i vescovi italiani nel recente documento Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, «il primo, insostituibile apporto che le Chiese nel Sud hanno da offrire alla società civile» è costituito dalle «risorse spirituali, morali e culturali che germogliano da un rinnovato annuncio del vangelo e dall’esperienza cristiana» (n.14). «Non un apporto di tipo sociologico, dunque, o genericamente etico, ma in linea con la logica del Vangelo. La società meridionale non ha bisogno di un ente assistenziale in più, o di un supporto alla lotta contro la mafia che venga in soccorso alle istituzioni politiche, esercitando una funzione di supplenza.  Non si tratta, perciò, di assumere, come fanno alcuni presbiteri e laici, modelli profani di linguaggio, mutuati dai “valori comuni” della morale corrente, quale si esprime nella cultura “laica”, o più banalmente nei mass-media. Si tratta di imparare  a dire, in maniera argomentata, le “ragioni” cristiane dell’impegno per la promozione umana e per un rifiuto radicale della mafia» [45].

Non serve, insomma, una “religione dei valori”, in cui il Vangelo sia ridotto a codice di “buona educazione” civile, sterilizzandolo della sua carica salvifica globale. È il rischio che corrono quei presbiteri che, in buona fede, concentrano tutta la loro azione pastorale sul tema della legalità. Ma è anche una reazione a  certa pastorale che continua ad annunziare il messaggio cristiano in  modo da tradirne la carica profondamente rinnovatrice della vita reale, a livello si individuale che sociale.

A questa pastorale disincarnata e atemporale, incapace di incidere sulla religiosità popolare purificando quanto vi è in essa di estraneo al Vangelo,  si riferiscono i vescovi italiani quando, nel documento del 2010 sul Mezzogiorno,  scrivono che la situazione del Sud in generale «sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile e spinga a una conoscenza più approfondita dell’insegnamento sociale della Chiesa» (Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, n.16).

 

Perché la nostra fede sia credibile

 

In tal senso, il problema della mafia non riguarda solo i cristiani in quanto cittadini, ma la loro stessa identità di credenti. Di questo, Giovanni Paolo II aveva mostrato di essere consapevole già nel corso della visita ad limina  del 1991, quando, parlando ai vescovi siciliani, osservava che il fenomeno mafioso «rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della Chiesa, giacché mina dall'interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano» [46]. 

Questa consapevolezza, da parte del Papa, della rilevanza teologico-pastorale del problema della mafia appare chiaramente anche nei discorsi fatti durante la visita in Sicilia del 1993. Per es. a Mazara del Vallo, nell'incontro in cattedrale con i sacerdoti e i religiosi: «Il vostro ministero - ha riconosciuto il Papa - non è certo facile: esso a volte si trova a dover contrastare una mentalità mafiosa, ispiratrice di atteggiamenti che rappresentano sfide per la vostra attività pastorale» [47].

Su questa linea si pongono anche le parole piene di commossa solidarietà che, durante la stessa visita, Giovanni Paolo II ha pronunziato ad Agrigento, improvvisando, alla fine della celebrazione eucaristica. Riferendosi al tempio della Concordia, che stava sullo sfondo, ha detto: «Ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico, e sia concordia in questa vostra terra. Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime, che sia concordia (...). Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita (...) non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Vita, Via, Verità e Vita» [48].

L'appello riguarda innanzi tutto i credenti. Contro la cultura della mafia, bisogna che essi sappiano «porre il lievito evangelico nell'intimo della vita e della cultura, perché l'accoglienza del Vangelo plasmi i sentimenti e orienti i comportamenti. E' facile, infatti, specialmente nelle regioni di antica tradizione cristiana, che la fede si riduca ad una superficiale verniciatura, incapace di incidere in profondità nella vita. E così si spiega il deplorevole e diffuso fenomeno di una pratica religiosa poco illuminata, che convive con atteggiamenti scarsamente evangelici» [49].

A questo punto si comprende il senso della parole usate dai vescovi quando scrivono, a proposito del Meridione: «Si deve riconoscere che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia. Tanti sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile. La testimonianza di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta o nella resistenza alla malavita organizzata rischia così di rimanere un esempio isolato» [50].

Quello che si chiede alle comunità cristiane siciliane, come a quelle del Sud in generale, non è, evidentemente, di sostituirsi  alle istituzioni civili preposte alla pubblica sicurezza, ma un rinnovamento pastorale che tragga dal Vangelo le sue logiche conseguenze, impegnando i cristiani a vivere la loro vita privata e pubblica in modo coerente. Dai presbiteri, perciò, non si esige che diventino supporto esterno di assistenti sociali, polizia e magistratura, ma che testimonino e trasmettano ai loro fedeli l’infinito amore di Cristo e la sua forza trasformatrice non in formule astratte  e disincarnate, ma “traducendo”  le esigenze di questo amore nelle concrete situazioni storiche in cui si trovano ad operare. «La Chiesa non è la magistratura e non è la polizia; neppure un tribunale civile, chiamato a distribuire patenti di mafiosità. La Chiesa è madre; e come tale “accompagna” sempre l’uomo, per aiutarlo sia a riconoscere i propri erro- ri nell’alveo della giustizia; e a convertirsi; sia a impedire che si smarrisca. La stessa scomunica, quando è comminata, è monito per un possibile ravvedimento, nell’ottica della misericordia, finalizzata alla guarigione interiore e alla riparazione. Allora è necessario che la Chiesa sia se stessa, anche quando difende la verità del Vangelo di fronte al terribile fenomeno mafioso» (Conferenza Episcopale Calabra, Testimoniare la verità del Vangelo, cit., n.15).

Neppure si chiedono atti eroici. I gesti eclatanti sono, per loro natura, riservati a particolari circostanze e sono, di solito, compiuti da pochi. E' l'intera comunità cristiana, invece, che deve cambiare il suo stile di pensiero, di vita e di annuncio. Questo poi dovrà tradursi, notano i vescovi della Calabria,  in un adeguato impegno civile e politico dei credenti: «Al potere mafioso, che seduce ancora singoli e istituzioni, dobbiamo opporre quel tanto auspicato e nuovo senso critico per discernere i valori evangelici e “l’impegno dei cristiani nella polis - come espressione della carità e dell’amore che il credente vive in Cristo”, senza disertare la politica, anche se casi di corruzione spingerebbero a cedere alla tentazione di farsi da parte» (Conferenza Episcopale Calabra, Testimoniare la verità del Vangelo, cit., n.11).

Quello che conta è mantenere aperta la prospettiva essenzialmente cristiana della speranza. È ciò che si propongono i pastori delle Chiese calabresi nella loro pastorale: «Vogliamo infondere coraggio; e vogliamo, soprattutto, rilanciare la fiducia nelle grandi capacità dei calabresi, credenti e persone di buona volontà, troppo spesso vanificate dalla indifferenza, dalle omissioni, dalla mancanza di impegno e dalla rassegnata indulgenza di molti. L’atavico fatalismo, che si ritrova in alcune nostre realtà, ha finito talvolta per travolgere ogni esperienza, facendo della sterile attesa la cifra essenziale dell’esistenza: il contrario, cioè, dell’autodeterminazione e della responsabilità, dell’impegno attivo e del rinnovamento» (Testimoniare la verità del Vangelo, cit., n.22). Alla fine, tutto si riassume nella grande promessa di Gesù che la verità ci renderà liberi.

 

 

 



[1] G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, a c. di M. Padovani, Rizzoli, Milano 1991, p.97.

[2] A. Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa nostra, Laterza, Roma-Bari 2010, p.46.

[3] Cit. ivi, p.51.

[4] Ivi, p.53.

[5] Ivi, p.54.

[6] F. Armao, Il sistema mafia. Dall'economia del mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp.74-75.

[7] P. Martino, Per la storia della 'Ndranghita, Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche, Università «La Sapienza», Roma 1988, p.63.

[8] S. Boemi, L'atteggiarsi delle associazioni mafiose sulla base delle esperienze processuali acquisite: la 'Ndrangheta, p.3. (Relazione del dott. Salvatore Boemi, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, in connessione con l’audizione del 23 febbraio 1999 presso la Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari).

[9] Cfr. A. Nicaso, Alle origini della 'ndrangheta, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993.

[10] V. Ceruso, Le sacrestie di Cosa Nostra. Inchiesta su preti e mafiosi, Newton Compton, Roma 2007, pp.26-27.

[11] P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 70 e 144.

[12] Cit. ivi, p.71.

[13] P. Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano 1992, p.153.

[14] G. Lo Verso – G. Lo Coco, I collaboratori di giustizia. Chi sono oggi, chi erano come mafiosi, in AaVv., La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, Franco Angeli, Milano 2006,  p.123.

[15] F. M. Stabile, Uno storico della Chiesa, in A. Cavadi (a cura di), Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia, EDB, Bologna 1994, vol. II, p.100.

[16] E. Chiavacci, La mafia alla luce della parola di Dio, in A. Cavadi (a cura di), Il Vangelo e la lupara, cit., vol. I, p.149.

[17] F. M. Stabile, in A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, p.174.

[18] A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, cit., p.93.

[19] C. Naro, Le difficoltà del discorso ecclesiale sulla mafia, in Chiesa nissena in cammino, inserto de «La voce di Campofranco», ottobre 1992, p.73.

[20] Ivi, p.57.

[21] F. Stabile Coscienza ecclesiale e fenomeno mafioso, in AA.VV., Mafia, politica, affari. Rapporto 1992, Edizioni La Zisa, Palermo 1992, ora in A. Cavadi (a cura di), Il Vangelo e la lupara, cit., p.17.

[22]  Cfr. «Giornale di Sicilia» del 22 novembre 1993.

[23] G. G. Loschiavo, Nel regno della mafia, in «Rivista Processi», 5, gennaio 1955, cit. in P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 59-60.

[24] F. Renda, Profilo storico: Chiesa e società n Sicilia dall’Unità al Concilio Vaticano II, in F. Flores d’Arcais (a cura di), La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, pres. di G. De Rosa, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1994, vol. I., p.112.

[25] Cfr. D. Mogavero, «Giornale di Sicilia» del 9 giugno 1989.

[26] P. Fantozzi, in Conferenza Episcopale Calabra (CEC), Cristo nostra speranza in Calabria. Testimoni di corresponsabilità per servire questa terra su strade di liberazione. Atti della Settimana sociale delle Chiese di Calabria (Lido degli Aranci-Bivona) Vibo Valentia Marina 3-5 marzo 2006, Vibo Valentia 2007, pp.64-65.

[27] T. Pirritano, ivi, p.26.

[28] P. Fantozzi, ivi, p.66.

[29] ivi, p.67.

[30] G. Savagnone, La Chiesa di fronte alla mafia, pres. del Card. S. Pappalardo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, p.138.

[31] Ivi, pp.138-139.

[32] A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, cit., p. 128.

[33] Ivi, p.129.

     [34] Ivi, p.131.

[35] Ivi, p.132

[36] Conferenza Episcopale Siciliana, Finché non sorga come stella la sua giustizia (1996), n.8, pp.22-23.

[37] G. Tomasi  di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1993, p.161.

[38] Ivi, p.41.

[39] P. Scoppola, La “nuova cristianità” perduta, Studium, Roma 1986, pp.142-144.

[40] B. Sorge, La  presenza dei religiosi in Sicilia: segno, testimonianza e profezia, in Conferenza Episcopale Siciliana, Una presenza per servire. Il ministero presbiterale nella Sicilia verso il terzo millennio. Atti del secondo Convegno delle Chiese di Sicilia, Acireale, 3-7 aprile 1989, Palermo 1989, p.131.

[41] P. Fantozzi, in CEC, Cristo nostra speranza, cit., p.65.

[42] Evidentemente c’è un senso del termine che è pienamente positivo e che è molto diverso da quello che qui utilizziamo. Abbiamo voluto implicitamente suggerirlo mettendo sempre “sacro”, nel senso deteriore che qui ha, tra virgolette.

[43] A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, cit., p.129.

[44] S. Pappalardo, in Una presenza per servire. Le Chiese di Sicilia a vent’anni dal Concilio verso il duemila. Atti del primo Convegno delle Chiese di Sicilia, Acireale, 25 febbraio-1 marzo 1985, Palermo 1985, p. 49.

[45] G. Savagnone, Per un Paese solidale. Chiesa Italiana e Mezzogiorno. Un documento per il bene comune del Paese, Relazione tenuta alla 46° Settimana sociale, Reggio Calabria, 14-17 ottobre 2010.

[46] Cfr. «Giornale di Sicilia» del 23 novembre 1991.

[47] Cfr. «Agrigento: nuove ipotesi». Rivista bimestrale della provincia regionale, n.3, maggio-giugno 1993, p.12.

[48] Ivi, p.27.

[49] Ivi, p.24.

[50] Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa Italiana e Mezzogiorno, n.9.