Prefazione

Nuove prospettive e rinnovamento dello sguardo

per i credenti nella lotta contro la mafia

di Serafino Parisi, biblista

 

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Nella Nota Pastorale sulla ’ndrangheta dal titolo Testimoniare la verità del Vangelo pubblicata il 25 dicembre 2014, la Conferenza Episcopale Calabra ha dato degli orientamenti per affrontare il fenomeno mafioso con la forza dell’annuncio e con l’impegno di contribuire alla costruzione di un contesto umano e sociale culturalmente e moralmente elevato. Questa preoccupazione pastorale nasce, a mio modo di vedere, dalla consapevolezza che la pars construens della “parola profetica”, per sua natura polisemica, sembri contraddire o comunque stridere, a volte, con le esigenze immediate della esplicita, e peraltro condivisibile, parola di condanna, la pars destruens. È nel nucleo incandescente della “profezia” che si trova il vero nodo della questione che ci interessa da vicino e che, tradotta in termini concreti, ci fa chiedere: può la Chiesa escludere il mafioso dall’annuncio del Vangelo? È evidente che l’intera comunità ecclesiale, come del resto ogni singola persona, deve prendere le distanze da tutti i metodi, le manifestazioni, gli atteggiamenti, la mentalità e le altre diavolerie mafiose, deve stigmatizzare tutto questo, ma – al tempo stesso – deve dire ai mafiosi (che di fatto si sono posti in una “struttura di peccato” e al di fuori della comunione con Dio e con la stessa Chiesa) che anche per loro, come per tutti, c’è la possibilità della conversione.

Detto grosso modo, qui sta la “differenza” (intesa come peculiarità dei rispettivi ambiti di competenza e come specificità delle relative finalità e della precipua missione) tra l’azione dello Stato e quella della Chiesa. Devo tuttavia confessare che, mentre io stesso dico “lo Stato”, penso quasi esclusivamente alla sua facies repressiva. D’altra parte so che è lo stesso Stato quello che è chiamato a dare ai cittadini, fin dalla loro tenera età, una presenza di sé sotto l’aspetto educativo, culturale, relazionale e sociale. D’altra parte lo Stato deve pure reprimere, ma anche educare o rieducare. L’azione repressiva, tuttavia, presenta delle criticità forse “ineluttabili”, giacché la repressione, talvolta, lascia alcuni spazi liberi inesorabilmente destinati a essere occupati da altri spregiudicati disposti, per raggiungere lo scopo, a sfoderare tutta la loro potenza mortifera. Il rischio, allora, è quello di favorire una riproduzione – in un territorio divenuto “terra di nessuno” – del seme infetto, a dispetto dell’intento reale riconducibile alla volontà di eliminare le sottoculture favorendo l’interruzione della riproduzione “genetica” della mafiosità nei posteri. Nondimeno, anche la rieducazione non sempre riesce a portare i frutti sperati: basti solo pensare che a volte il carcere diventa per alcuni reclusi una “università del crimine”. Allora il processo deve includere contemporaneamente la repressione e la rieducazione, promuovendo un’opera di “ri-fertilizzazione” umana, culturale e sociale della terra, quasi a voler dire – ad esempio – che l’affidamento dei beni confiscati ai mafiosi deve essere considerato come una parte o un momento del progetto di “ri-fertilizzazione” orientato al riscatto di una collettività – o meglio, di una porzione di essa – da una paura paralizzante e da una mentalità disumana e disumanizzante; in tal caso la ri-fertilizzazione può essere compresa nei termini di un processo di “ri-umanizzazione”.

Proprio all’interno di questa situazione che si presenta come un’aporia – che tuttavia descrive il difficile dinamismo della crescita umana e sociale, come pure di quella personale e comunitaria – la Chiesa ha e sente il dovere d’intervenire. A tale proposito va però detto – senza il benché minimo intento assolutorio – che la Chiesa, pur con alcuni limiti sistemici comuni a tutte le grosse “organizzazioni” – siano esse politiche, sociali, militari e, dunque, anche religiose –, deve sentirsi non screditata, ma legittimata (fatta salva la missione che le è propria che non solo l’autorizza, ma la “obbliga”) ad agire per il bene integrale dell’uomo come Istituzione fra le altre Istituzioni. Si può aggiungere che il contributo della Chiesa è anche quello di indicare il rischio del riduzionismo meramente repressivo, unitamente alla segnalazione del bisogno di inquadrare la lotta al fenomeno mafioso, per quello che esso è stato fin dall’inizio, come un’azione coordinata e connessa nell’ambito sociale, morale ed educativo contro questo male che inquina l’intera società, giungendo addirittura – come apprendiamo dalla cronaca –a intaccare anche alcuni apparati delle Istituzioni e dello Stato. Paradossalmente, non basterebbe la sola repressione dell’individuo e della sua singolarità criminale, se non venisse sconfitto materialmente e idealmente quel demone organizzato e destrutturante che produce l’associazione criminale, infetta e malvagia, che sta alla base delle organizzazioni mafiose. Occorre dunque spostare il focus dal dato meramente quantitativo delle operazioni antimafia – certamente necessarie – a quello qualitativo che deve promuovere una palingenesi sistemica degli ambiti e delle “ecologie territoriali” in cui ancora permane anacronisticamente il retaggio delinquenziale e deviante del passato che va radicalmente purificato in tutti gli ambiti, compreso – per noi – quello religioso. Il punto di forza per scardinare questo sistema curandone, al tempo stesso, le ferite da esso prodotto, è quello rigenerativo di tipo culturale.

All’interno del processo educativo la Chiesa, come dirò tra breve, ha il preciso “compito dell’orientamento” che non coincide con la condanna o con la denuncia (eppure questi interventi non sono esclusi dalla sua azione), né tantomeno con la repressione (che altri operano) o con il mero ostracismo (che, pur sembrando la via politicamente più corretta, non sempre è quella evangelicamente più appropriata). Con questo non si vuol dire di tollerare il male, anzi – e lo preciserò tra poco – si richiede ai Christifideles “laici e non”, che costituiscono la comunità ecclesiale, di essere talmente forti da prendere chiara, inequivocabile posizione contro il male mafioso. Ciò ha per conseguenza una precisa e decisa  comprensione del reale contesto di condanna totale al male, in quanto peccato e peccato immane, pur nel tentativo di recupero di chi lo commette, sulla linea del detto di Gesù  di “non opporsi al malvagio”, nella formulazione paradossale e provocatorio di Mt 5,39.

L’alto compito missionario della Chiesa – che non può omologarsi alle esigenze contingenti e non può livellarsi alle pretese comuni (fossero anche quelle della maggioranza) – è più ampio e profondo rispetto a quello “volgarmente” richiesto di una mera educazione all’osservanza delle leggi. La “educazione alla legalità”, pubblicizzata e sovvenzionata da molto tempo, senza volerla sminuire, è solo una parte di un processo educativo molto più ampio, quello cioè di “mentalizzare” l’uomo alle esigenze della “Giustizia”, nozione che per il Vangelo – lampada per i passi dei credenti – non coincide con il legalismo parossistico degli scribi e dei farisei, ma con una “giustizia sovrabbondante” (cfr. Mt 5,20) che ha, pur nel rispetto del più piccolo dei precetti, una radice (ossia l’interpretazione gesuana del rapporto con la legge e la ri-presentazione della fede come relazione personale con Dio in Gesù Cristo) e una finalità, un orientamento: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (cfr. Mt 5,48).

Siamo così collocati nel vortice di una concordia discors tra azione dello Stato e missione della Chiesa. Questo paradosso ci stimola, dunque, a leggerne in profondità le ragioni e le implicazioni, senza cedere a volgari e strumentali riduzionismi. Su tale questione, nella Nota Pastorale sulla ’ndrangheta, al n. 15, i Vescovi calabresi – mentre ribadiscono il rispetto e la stima della Chiesa per le varie espressioni delle istituzioni dello Stato – fra l’altro scrivono: «la Chiesa non è la magistratura e non è la polizia; neppure un tribunale civile, chiamato a distribuire patenti di mafiosità. La Chiesa è madre; e come tale “accompagna” sempre l’uomo, per aiutarlo sia a riconoscere i propri errori nell’alveo della giustizia; e a convertirsi; sia a impedire che si smarrisca. La stessa scomunica, quando è comminata, è monito per un possibile ravvedimento, nell’ottica della misericordia, finalizzata alla guarigione interiore e alla riparazione.

Allora è necessario che la Chiesa sia se stessa, anche quando difende la verità del Vangelo di fronte al terribile fenomeno mafioso. Essa possiede per Grazia la forza rinnovatrice per l’uomo e per la storia. Svolgendo quella specifica missione che il Signore le ha affidato, invita continuamente ogni creatura a immergersi nel Corpo di Cristo, da cui può rinascere a vita nuova, risorgendo perfino dai delitti più efferati». E al n. 16 la Nota prosegue dicendo: «La Chiesa è chiamata a offrire la Parola forte del Vangelo e segni concreti che mettano in luce da quale parte stiano i credenti in Gesù Cristo, che rivela il Padre ed offre la grazia dello Spirito Santo. Non c’è – e non ci può essere – commistione tra una fede professata e una vita disorientata dall’appartenenza ad organizzazioni criminali. Alla chiarezza di tale annuncio dobbiamo accompagnare quanto Gesù ci ha insegnato a proposito dell’accoglienza del peccatore e di chi cammina in una vita tenebrosa; e viene dallo Spirito chiamato alla conversione. Senza un cambiamento concreto, pubblico, senza una vera e propria presa di distanza dalla vita vissuta nel male, non si può parlare di vero pentimento e di vera conversione; sono questi i segni indispensabili per un reinserimento “pieno” del peccatore nella comunità e per un percorso di ricostruzione interiore».

Anche la scomunica, dunque, nella logica della Chiesa, è un monito e un appello alla conversione. Di fatto, lo stresso papa Francesco nella Visita Pastorale a Cassano allo Jonio (21 giugno 2014), mentre pronunciava nell’Omelia della Santa Messa sulla spianata dell’area Insud le parole di scomunica dei mafiosi, indicava un orizzonte possibile di speranza, dicendo: «La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre più spendersi perché il bene possa prevalere». C’è, a ben vedere, una complementarietà tra l’anatema pronunciato da Giovanni Paolo II nella valle dei templi il 9 maggio 1993 e quello di papa Francesco: mentre ad Agrigento l’urlo di San Giovanni Paolo («Convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio») è risultato detonante, quello di papa Francesco, proprio perché è stato un discorso “sul campo” – ossia dentro quella landa desolata della piana di Sibari (la terra dell’omicidio del piccolo Cocò e dell’uccisione a sprangate di padre Lazzaro Longobardi) – ha avviato un processo di ri-fertilizzazione riecheggiando, di fatto, come un grido di speranza.

Tutti questi interventi – anche quelli quotidiani, diuturni e certamente meno eclatanti – scaturiscono, per mandato divino, da una passione della Chiesa per l’uomo. Pur tra tanti limiti umani la Chiesa sa di poter incidere nel vissuto della nostra gente tracciando nella nostra terra un solco di speranza, dando il proprio contributo – in quanto “esperta in umanità” (cfr. Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio) – a edificare la città “santa”, la Gerusalemme celeste (cfr. Ap 21), la sposa, adorna di pietre preziose, la città sperata e splendente, quella città che diviene “tenda di Dio con gli uomini”, che – non solo si contrappone – ma che prende il posto di Babilonia, la prostituta, la città delle relazioni false, della confusione delle lingue, degli intrighi, delle prevaricazioni, dei soprusi, dei poteri effimeri e delle false aspirazioni dell’uomo (cfr. Ap 18). In questo modo si realizza il compito originario dell’uomo: cioè di costruire la città. Quando in Gn 2,15 Dio dà all’uomo la custodia del giardino, gli assegna un compito culturale, un’opera di civilizzazione. Ora, la città da costruire viene dall’alto, volendo dire che deve essere edificata su indicazioni progettuali divine: i canoni stilistici, architettonici e relazionali non sono terreni, ma vengono da Dio stesso. È una città inserita in una creazione rinnovata nella quale il mare, il nemico primordiale dell’uomo, non c’è più. Si tratta di una città a misura d’uomo e di una tenda a misura di Dio. Immagino così la creazione nuova («cieli nuovi e terra nuova» di Ap 21,1): come una terra “bonificata” che porta con sé la traccia evidente di Dio; quella terra nella quale e dalla quale prende forma l’uomo nuovo e vero, perché fatto della stessa “pasta” di Dio, a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26-27).

 

Per indicare in modo concreto il tipo d’intervento che la Chiesa può dare all’interno del processo della edificazione della città nuova, propongo in primo piano tre icone bibliche che – mentre segnalano la necessità di un cambio di mentalità, anche nell’interpretazione e nella “cura” del fenomeno mafioso – illustrano tre fasi dell’unico lavoro educativo: 2Re 5; Es 14 e Mt 5,38-42 (compreso nel contesto più ampio di 5, 17-48).

 

2Re5: ri-fertilizzazione

Quando parlo di ri-fertilizzazione penso, in concreto, a un brano biblico che può indicare a noi credenti una modalità per dare il nostro contributo alla preparazione di un terreno fertile dentro il quale inserire e far crescere il seme buono dell’uomo rinnovato, mondato definitivamente dalla lebbra del peccato che rende mostruoso l’aspetto, infettiva la presenza e impossibile ogni forma di convivenza sociale. Propongo, dunque, la lettura “semplice” di un testo molto suggestivo, quello di Naaman il Siro di 2Re 5. Il brano si inserisce in un contesto fortemente caratterizzato dall’indicazione delle esigenze della monolatria. Di fatto, Elia era già intervenuto per dimostrare e far sapere che in Israele c’era un solo Dio (1Re 18,36; cfr. pure 2Re 5,15) e che la fede in Lui poteva soddisfare tutte quelle aspettative che molti israeliti avevano posto nei Baal, le divinità autoctone della fertilità. Nello stesso contesto – con alcune narrazioni didattiche e dimostrative (cfr. 1Re 17,8-16; 2Re 4,38-41.42-44; 6,24-7,20) – viene detto che attraverso il profeta che serve il Signore, l’unico Dio della terra d’Israele, anche i più poveri possono ricevere il loro cibo e sperimentare il dono della vicinanza e della sollecitudine di Dio.

Dentro questa ambientazione dalle molteplici sfaccettature viene narrata la guarigione dalla lebbra di uno straniero, Naaman, capo dell’esercito del re di Aram che in quel momento era in guerra con Israele. Dopo una protesta iniziale di Naaman e una lode alla sua terra lontana, nel testo si legge:

«Egli allora scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola dell'uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato. Tornò con tutto il seguito dall'uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: “Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”. Quello disse: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò”. L'altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naaman disse: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”» (2Re 5,14-17).

Fra i vari temi presenti in questa narrazione (il monoteismo, la conversione, il ringraziamento e l’impegno per il futuro), mi piace sottolineare il gesto conclusivo di Naaman che mi fa pensare all’opera che compie abitualmente un agricoltore quando prende della terra buona per rendere fertile un terreno arido e infecondo. Naaman porta con sé un po’ di terra d’Israele (la terra che “contiene” il Signore, cfr. Dt 12,5) perché – bonificata la terra del suo paese d’origine – possa onorare il Signore, l’unico Dio, su quella terra “rinnovata”. Questo è un messaggio di speranza: qualsiasi terra potrà essere resa buona dalla “terra di Dio”. Fra l’altro, da questa opera di ri-fertilizzazione e di ri-umanizzazione non è escluso il servizio dei credenti, come dimostra in 2Re 5 l’azione del profeta Eliseo.

 

Es 14: orientamento

Un altro compito della Chiesa è quello dell’orientamento. La Chiesa deve orientare le comunità. Orientare significa impostare tutta l’azione in modo diverso da quello che svolgono (dirlo è superfluo!) i mass media. La domanda centrale è la seguente: dove va la comunità? Verso quale meta indirizzarla? Queste domande riportano alla mia mente il testo di Es 14. È senza dubbio il testo biblico più espressivo sul tema della liberazione che è presentata dagli stessi interventi di Dio (cfr. 14,1-4a; 14,15-18; 14,26) come un orientamento verso il futuro. Fra l’altro, è il testo che indica l’Esodo, il passaggio dalla schiavitù alla libertà, come evento fondatore del popolo di Israele. All’interno di una narrazione presentata come un’epopea, vengono descritti i legami di necessità (non certo di libertà) fra il faraone e i suoi schiavi e viene indicata la matrice di ogni schiavitù: la paura. Qui Mosè è costretto a constatare che il faraone aveva fatto davvero bene la sua parte: gli schiavi avevano imparato a parlare lo stesso linguaggio del loro oppressore. In 14,11b si trova, sulla bocca degli schiavi, la stessa espressione che in 14,5 avevano usato gli egiziani. Si era innescato il meccanismo perverso per mezzo del quale gli schiavi preferiscono rimanere schiavi, perché non possono fare a meno del loro padrone. Ma anche i padroni non possono rinunciare ai loro schiavi. Gli schiavi sono necessari al padrone e anche il padrone agli schiavi. Questo legame di necessità reciproca ha il “vantaggio” della de-responsabilizzazione: tutto si fa senza libertà, senza consapevolezza, senza prospettiva, ma solo nella paura. In questa sconfitta si trova il dramma causato da un’opera sistematica e subdola di mentalizzazione alla schiavitù: lo schiavo, per non pagare il prezzo della propria liberazione, preferisce baciare le catene e restare nel bunker asfissiante delle momentanee e grame certezze. Mentre il prezzo è quello dell’affrancamento dalla paura e della presa in carico del proprio futuro. In tal senso in Es 14 Mosè suggerisce una possibilità: non bisogna più guardare al passato (cfr. 14,10-12), ma orientare il proprio sguardo al futuro (cfr. 14,13). In un bel commento a questo testo J. L. Ska dice che è la visione di Mosè a salvare gli Israeliti perché egli vede più di loro, in quanto il suo sguardo penetrante gli permette di scrutare i segreti di Dio e della storia.

Volendo attualizzare questo passaggio bisogna dire con forza che la Chiesa non può perdere questo sguardo, anzi deve testimoniare che il cammino, quello che sembra il più improbabile e il più difficile, è invece quello più sicuro. Con questa certezza si può andare oltre il mare, passando attraverso di esso. Ecco perché nel cammino della liberazione è necessaria la vittoria sulla paura e sulla rassegnazione. Il prezzo è l’impegno dei credenti, in forza della loro fede nel Signore che salva, per la trasformazione della storia. In Es 14 c’è la narrazione di un passaggio: da schiavi a liberi. Dentro questo racconto Dio stesso si rivela come colui che vuole con l’uomo, con il credente, un rapporto basato sulla libertà: non vuole minimamente sostituirsi ad un tiranno, proprio perché la fede in Lui libera da ogni oppressione fondata sulla paura della morte. Sono amare e vere le parole conclusive del commento di J. L. Ska al testo: «[…] la tirannia può esistere solo dove la gente ha la mentalità di schiavo o finché mantiene questa mentalità. Non serve a niente liberarsi da un tiranno se non cambia contemporaneamente la mentalità. Un popolo schiavo si cercherà un altro tiranno» (cfr. J. L. Ska, Le passage de la mer. Étude de la construction, du style et de la symbolique d’Ex 14,1-31, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1997).

 

Mt 5,38-42: lo stile educativo

L’educazione ad una nuova mentalità è un fattore indispensabile nel processo di affrancamento e di crescita di un popolo. Unitamente ai contenuti assume un certo rilievo anche lo stile con cui si educa. L’indicazione la recupero da un testo “strano e paradossale” contenuto nel Discorso della montagna, in Mt, 5 là dove – nel famoso passo delle antitesi (Mt 5,17-48) – compare la revoca della legge del taglione (cfr. Es 21,23-25; Lv 24,19-20; Dt 19,21) attraverso la sua sostituzione con l’invito a “non opporsi a chi è malvagio” (cfr. Mt 5, 38-39a). Ho già scritto altrove (cfr. S. Parisi, «Mt 5,17-48 giustizia superiore e fede estroversa. La morale sociale da “un punto di vista” della Scrittura», Vivarium II n. s. [1994] 45-62) e ribadisco che, fra tutte le antitesi, questa ha il record della razionalizzazione: è stata attaccata per il fatto di presentarsi come lontana da ogni concretezza, di essere iperbolica e dannosa alla civiltà perché pretende, nel dettato del testo, di annullare l’ordine giuridico ed elevare a principio morale l’assenza assoluta del diritto e della difesa. Da una corretta e non tendenziosa lettura dei versetti emerge, invece, che non è attuando alla lettera le esemplificazioni proposte nei vv. 39b-42 che si pratica questo insegnamento, ma cogliendone lo spirito. L’espressione di Gesù di non resistere al malvagio, negativa nella sua forma, esprime un atteggiamento positivo: viene richiesta non una sudditanza all’oppressore e al malvagio, ma una sorta di dominio di sé che si pone di fronte, e non contro, il cattivo dandogli la possibilità di riflettere sui suoi errori; questo atteggiamento è, paradossalmente, infinitamente superiore al falso “eroismo” della prontezza a difendersi e richiede più “forza” della ritorsione e della vendetta. Non a caso l’antitesi che segue propone di amare e pregare anche per i nemici, prendendo come modello e fondamento lo stesso amore che il Padre ha per ogni uomo, buono o cattivo che sia, giusto o ingiusto.

In conclusione si possono legare, in un unico percorso, i tre aspetti dell’opera di promozione umana e culturale che la Chiesa è chiamata a svolgere per il bene integrale dell’uomo. Partendo proprio dalla ri-fertilizzazione che si attua esportando il modello alternativo al genio del male, cioè recuperando, reintegrando, risocializzando e, dunque, colmando quel vulnus causato dalla piaga della mafia. Questo processo comprende anche la ri-umanizzazione che si realizza andando da un percorso di esclusione (o di autoesclusione) ad un percorso di socializzazione, di reintegrazione che interessi la famiglia, la comunità, il territorio all’interno di una progettualità “statale” che preveda una lunga durata di tale iter, a differenza di quello repressivo che è sempre di breve durata. In tal senso la Chiesa deve orientare alla conoscenza e alla socialità. In questo modo si rompe lo schema della mafia, sostituendo la fede liberante alla superstizione vincolante di cui sono intrisi i riti mafiosi, lavorando perché la conoscenza prenda il posto dell’ignoranza, e avviando un insieme di progetti aggregativi là dove vige la strategia della individualizzazione, perché – a ben vedere – quello della mafia non è un processo aggregativo, ma disgregativo e mentre si serve di una parvenza di socializzazione e di coesione, di fatto attiva un’abnorme distorsione della personalità che si radicalizza e, addirittura, si assolutizza nell’egoismo e nell’egocentrismo. Per quanto dipende dal cristiano, le strutture della società dovranno tendere sempre più a creare le condizioni di rivalutazione delle forme aggregative attraverso nuovi strumenti, nuovi stili e nuovi contenuti e a determinare ulteriori possibilità di rapporti sociali che rispecchino quel rispetto, lealtà, fedeltà, sincerità e quell’amore senza limiti fra gli uomini, che Gesù ha indicato nella sua pro-esistenza, dandone alta testimonianza col dono della sua vita.

A fronte di ciò, l’auspicio è che il Corso «Chiesa e lotta alla ndrangheta» attivato dai Vescovi calabresi per i seminaristi, pubblicato nel volume che avete fra le mani, dia un contributo al superamento di pregiudizi e forme statiche di rappresentazione del fenomeno che, per forza di cose, rischiano di apparire obsolete giacché necessitano di continue verifiche e aggiornamenti, contribuendo a riaprire la problematica della ricerca, dell’analisi e dell’approfondimento facendo fare alla nostra lettura un salto di qualità adeguato alla sfida del tempo, e tutto ciò al fine di contribuire a migliorare l’azione di singoli soggetti (siano essi privati, pubblici, sociali, religiosi) che intervengono e vogliono essere impegnati nella lotta alla mafia.

Questa è la consapevolezza che ci muove: la Chiesa ha un immenso patrimonio umano, sapienziale, relazionale e sociale che vuole continuare a mettere a disposizione di ogni Istituzione, centrale e di prossimità, perché è certamente utile a determinare la svolta e la sconfitta definitiva non di un mero crimine, ma di un intero fenomeno che assilla e condiziona da più secoli l’intero Paese.