Prof.  ENZO  CICONTE

 

 

<<<<<<  Quadro d'Insieme del Seminario 

 

Questo scritto, in forma di appunti è stato utilizzato per la lezione ai seminaristi della Calabria

 

Mantiene volutamente la forma di appunti “aperti” nel senso che in alcune parti il testo è più dettagliato, in altre invece c’è solo una frase, un’indicazione, un concetto  che sono stati spiegati più diffusamente in forma orale nel corso della lezione.

Per queste ragioni il testo a volte può sembrare disordinato e con un andamento non del tutto lineare. È stato pensato per fare una lezione, non per essere pubblicato in forma organica.

Lo scritto sintetizza e aggiorna gli argomenti trattati dall’autore nelle sue numerose pubblicazioni.

 

 

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Appunti di Storia della ‘ndrangheta

 

Enzo Ciconte

 

Partiamo da una domanda: Perché prima del 1992 non era stato scritto un libro di storia sulla ‘ndrangheta? In quell’anno viene pubblicato da Laterza ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi,  con prefazione di Nicola Tranfaglia. Prima di quel mio libro solo giornalisti come Sharo Gambino e Luigi Malafarina avevano scritto di ‘ndrangheta.

La risposta è semplice: perché la ‘ndrangheta era stata sottovalutata. Sottovalutata perché nata in Calabria, una regione marginale e poco conosciuta. «Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione. La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile». Così parlava Corrado Alvaro nel 1930 in una conferenza al Lyceum di Firenze.

Cercava di spiegare ai suoi interlocutori i misteri della sua terra, del suo Aspromonte, di San Luca suo paese natale, e del ruolo che ha avuto nella sua infanzia e nella religiosità reggina il santuario della madonna di Polsi, luogo magico, incantato, incastonato com’è tra valloni e dirupi d’una splendida montagna.  «Questo culto nacque in modo del tutto favoloso. C’è di mezzo un re, il conte Ruggiero, una caccia, levrieri, un miracolo». Tutti ingredienti, insomma, per costruire il mistero, il fascino, l’attrazione religiosa e popolare.

Il calabrese nel corso del tempo è stato raffigurato come un montanaro taciturno, chiuso, rozzo, selvaggio come uomo fiero, tenace, violento, sempre pronto agli scoppi d’ira e alle ribellioni, a farsi brigante per una causa giusta ma anche per un nonnulla. È un’immagine forte che si radicò nel tempo grazie a diversi fattori.

Questa immagine si rafforzò ancor più ad inizio Ottocento quando i francesi invasero la Calabria e furono combattuti, frenati nello slancio militare e costretti sulla difensiva – loro, i vincitori di tutti gli eserciti! – da contadini, montanari, pastori, cafoni, tamarri, boscaioli, bifolchi, plebei male armati e senza esercito regolare che gli uomini di Napoleone presero a chiamare briganti in mancanza d’altra definizione più appropriata. Un ufficiale francese scrisse: l’Europa finisce a Napoli. La Calabria, la Sicilia, tutto il resto appartiene all’Africa.

            I calabresi non affrontarono mai in campo aperto le truppe francesi. Non erano esperti di operazioni militari, ma intuivano che non avrebbero avuto alcuna possibilità di successo. Scelsero una via diversa, quella degli agguati, delle imboscate, degli attacchi con piccole bande; una tecnica che in seguito sarebbe stata definita guerriglia. E ciò mise in subbuglio le truppe francesi che certo non ebbero motivi di avere un buon ricordo di quei guerriglieri e perciò li definirono con gli aggettivi più negativi.

I viaggiatori che avessero avuto intenzione di arrivare in Sicilia erano consigliati di raggiungere l’isola per via mare. Una fama terribile circondava i calabresi, tale da far tremare le vene e i polsi per chi avesse voluto intraprendere il viaggio per quelle strade tanto sconosciute quanto male frequentate. Il filosofo e scrittore francese Ernest Renan, a metà Ottocento, indirizzò alla sorella una lettera nella quale scolpì queste parole: «Si può considerare Salerno come l’ultimo confine della civiltà verso il Sud».

È certo una singolare coincidenza – o una suggestione? – ma un secolo dopo, quando si pose mano alla costruzione dell’Autostrada del Sole che rappresentò il volano principale per lo sviluppo dell’industria automobilistica italiana, il primo tratto realizzato fu quello da Milano a Salerno quasi che, perfino alla metà del Novecento, la civiltà fosse ancora ferma in quella città. Il completamento del rimanente tratto tra Salerno e Reggio Calabria avvenne molto tempo dopo.

 

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Per lo studio delle moderne associazioni criminali occorrerà sapere analizzare un documento inusuale, ma  prezioso: il silenzio o, meglio ancora, i silenzi. Sembra un paradosso, ma non lo è: il silenzio è un originale documento storico; bisogna saperlo ascoltare perché  ci può dire molte cose. Sono importanti i silenzi e sono importanti i linguaggi.

 

Che si possono suddividere in due tipi:

 

linguaggio parlato              linguaggio silenzioso

 

C’è una parola che più di ogni altra è significativa, e questa parola è omertà che è sinonimo di silenzio.

Ma la storia non è mai un fatto pietrificato. L’omertà ne è la dimostrazione. Oggi l’omertà è anche un fatto del Nord. Dunque, non appartiene al Dna dei calabresi o dei meridionali come pure s’è detto e s’è pensato per un lungo periodo. È un fatto storico.

Non c’è un solo silenzio, ci sono vari tipi di silenzio. C’è il silenzio dell’associato che non parla proprio perché è legato all’organizzazione. C’è il silenzio della vittima o delle persone terrorizzate. C’è il silenzio che nasce da una convinta adesione alle ragioni dei gruppi mafiosi. C’è, a volte, il silenzio inquietante quando capita che qualche esponente delle forze dell’ordine o della magistratura si sia lasciato corrompere.

C’è il silenzio dei testimoni in un processo. Quando un testimone ritratta, la pubblica accusa perde un’arma efficace contro l’imputato che può essere assolto. Lo storico invece proprio dal condizionamento del testimone può ricavare la convinzione che esiste la mafia e che ha portato ad uno stravolgimento della giustizia.

Giudice e storico possono così pervenire a giudizi persino opposti pur trattandosi dello stesso imputato e delle medesime circostanze perché i criteri di valutazione sono diversi.

Infatti, se dovessimo basarci solo sulle pronunce giudiziarie dovremmo ricavarne la conclusione che la mafia non sia esistita almeno per molti decenni perché numerosissimi imputati venivano sistematicamente assolti per insufficienza di prova.

È interessante notare che molti di costoro, assolti in nome del popolo italiano, venivano ammazzati in nome del popolo mafioso. È un fatto che deve fare riflettere e che ci dice molte cose sul funzionamento della giustizia e sulla difficoltà di reperire le prove  che è durato a lungo e che dura ancora ai nostri giorni.

C’è poi il silenzio di quando si diceva: la mafia non esiste. Lo si diceva in Sicilia e nel Mezzogiorno. Lo si disse per molto, troppo tempo. Ma ad un certo punto lo stesso ritornello risuonò al Centro e al Nord Italia dove si diceva: Qui la mafia non può allignare perché la mafia nasce in zone arretrate ed è un prodotto della miseria.

C’è poi il silenzio della Chiesa che è durato a lungo, troppo a lungo. Poi venne il tempo della parola.

C’è il silenzio delle donne e sulle donne. Si diceva: Le donne non fanno parte della mafia. La mafia è composta solo di uomini d’onore. Anche l’antimafia è un fatto di uomini. Dunque, è tutto uno scontro tra uomini. Non era vero. Le donne hanno sempre avuto un ruolo e l’averlo negato ha indubbiamente avvantaggiato i mafiosi perché le loro donne non sono state toccate dalle investigazioni. Tutto cambiò quando nella magistratura entrarono le donne che furono portatrici di un altro punto di vista.

 

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Il baccagghiu è il linguaggio gergale dei malandrini e dei mafiosi, il linguaggio criptico nelle carceri. Veniva usato perché gli ‘sbirri’, le guardie non dovevano capire quello che si comunicavano i carcerati.

Luigi Settembrini scrisse: «noi formammo una lingua di convenzione che neppure il diavolo poteva intendere» e da allora diventò il linguaggio dei detenuti i quali presero «a parlarla con una facilità mirabile». Questa informazione è importante perché conferma la convergenza che vi fu nelle carceri borboniche tra tutti coloro che i Borbone considerava criminali: i  politici e i delinquenti comuni (assassini, rapinatori, banditi, briganti stupratori ecc).

Il carcere è l’Università dei mafiosi, una vera e propria scuola di perfezionamento e di specializzazione, la fucina che sfornava nuovi affiliati.

Nelle celle molti giovani erano diventati malandrini dopo aver ricevuto il battesimo rituale che costituiva la porta d’ingresso per essere considerati formalmente dei mafiosi. L’affiliazione fatta in carcere era riconosciuta dagli affiliati che erano rimasti all’esterno.

Una prammatica del 27 settembre 1573 firmata dal Cardinale Granvela descriveva la situazione particolare delle carceri e parlava “delle molte estorsioni dai carcerati, creandosi l’un l’altro priori in dette carceri, facendosi pagare l’olio per le lampade e facendosi dare altri illeciti pagamenti, facendo essi da padroni in dette carceri”.

La richiesta estorsiva nelle carceri era tale che perfino al detenuto appena giunto in galera veniva fatto pagare un obolo che serviva – come gli veniva detto – per pagare l’olio per la lampada della Madonna. In realtà era la richiesta di pizzo.

E’ notevole il fatto che anche nelle associazioni spagnole si facesse pagare l’olio per la lampada della Madonna.

 

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Ci sono anche i linguaggi (silenziosi) dei mafiosi: gli omicidi Il valore simbolico degli omicidi: terrore, paura, omertà. Silenzio.

Il linguaggio degli omicidi Cosa ci dicono? Ricerca del consenso, perché le modalità di esecuzione facevano intendere che riguardavano solo chi tra gli associati avesse commesso delle mancanze e non altri. Esempio di omicidi di tipo mafioso che erano da tutti compresi:

 

Incaprettamento

 

Sasso in bocca

 

Danaro sul petto

 

Era un linguaggio chiaro che parlava a tutti, senza bisogno che nessuno pronunciasse una parola. Non c’era bisogno di dire nulla perché la simbologia spiegava tutto.

 

C’è anche il linguaggio mafioso per eccellenza: la parola, non lo scritto.

Perché avveniva? Innanzitutto perché c’era molto analfabetismo e poi perché c’erano pericoli che lo scritto finisse nelle mani dei carabinieri e costituisse una prova.

Ad esempio, chi era in possesso dei codici doveva impararli a memoria e trasmetterli oralmente in una infinita catena che non doveva lasciare alcuna traccia scritta.

Ma i codici ad un certo punto furono copiati. La loro copiatura è la prova che nelle organizzazioni mafiose non erano tutti analfabeti, ma che c’erano persone che sapevano leggere e scrivere. Chi è analfabeta ha necessità di imparare a memoria un testo, chi sa leggere e scrivere non ne ha bisogno perché lo scritto sostituisce la memoria.

Ci sono altri linguaggi silenziosi (e visibili), gli sfregi. Spesso erano fatti con il coltello oppure con il rasoio. Il volto ne risultava deturpato per sempre, in modo irrimediabile; lo sfregiato portava su di sé il segno della mancanza nei confronti della mafia.

Era una ferita permanente e indelebile, e rappresentava un linguaggio chiaro che si estrinsecava senza spendere una sola parola.

Nel campo dei linguaggi mafiosi non bisogna sottovalutare i segni esteriori: Camuffo al collo, camuffo di seta e un garofano rosso all’occhiello, fazzoletto rosso al collo, capelli alla maffiosa, capelli a farfalla, cappello alla sgherra, coppola alla menefotto (Strati).

Perché si usavano questi linguaggi esteriori? Perché c’era un bisogno di riconoscersi e di farsi conoscere. Il linguaggio del corpo. I segni esteriori dei mafiosi: i tatuaggi. Il modo migliore per mostrarsi era tatuarsi.

Questi segni esteriori fecero la loro comparsa in un’epoca in cui per questi mafiosi sembrava essere prevalente esporre la loro appartenenza, farsi riconoscere, manifestare una distanza dal resto della popolazione, dichiarare, seppure per via indiretta e simbolica, che essi facevano parte di una élite, quasi ci fosse l’esigenza o la necessità di far conoscere un prodotto poco noto che occorreva pubblicizzare.

 

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I mafiosi hanno avvertito il bisogno di inventarsi un passato. È una questione cruciale per cercare di definire una propria identità sulla base della quale cercare di costruire il consenso che è elemento essenziale  e centrale della loro sopravivenza. Per questo motivo è importante la narrazione della discendenza. Hanno avuto bisogno di inventare degli avi, di manipolare a loro piacimento il passato per costruirlo a loro piacimento.

C’è chi sostiene che ci sia una filiazione delle varie mafie dal brigantaggio. Ci sono rapporti tra briganti e mafie? No. E allora perché è circolata, e circola ancora oggi, l’idea che i mafiosi siano gli eredi, i figli legittimi dei briganti? La spiegazione risiede nel fatto che i briganti avevano una larga popolarità tra le masse e tra i giovani. E dirsi eredi dei briganti significava per i mafiosi crearsi delle simpatie popolari. I briganti sono stati presenti in zone dove non c’era alcuna organizzazione mafiosa; e dunque i rapporti che alcuni ritengono esistenti non sono storicamente fondati. Sono una pura invenzione.

Perché è importante il tentativo di costruirsi un passato? Perché non si può dire a un giovane: formiamo un’organizzazione che rapina, ammazza, commette altri reati e basta. Nessuno seguirebbe chi facesse una proposta del genere. E allora hanno bisogno di affermare che loro sono i migliori e che sono destinati a guidare gli altri, che lo vogliano o no. I mafiosi – secondo la loro concezione – fanno parte di un’élite e propongono ai giovani un progetto per il futuro, non la semplice commissione di reati di sangue.

Per queste ragioni sono importanti le favole, le leggende, i miti. Ha senso parlare di miti e di favole perché fornisce ai mafiosi un’ideologia, uno scudo protettivo.

Per la Calabria è importante la favola dei cavalieri spagnoli: Osso, Mastrosso e Carcagnosso che facevano parte della Garduna e che rimasero 29 anni, 11 mesi, 29 giorni nelle grotte dell’isola Favignana e quando riemersero alla luce del sole avevano in mano le tavole delle leggi mafiose.

Secondo la vulgata mafiosa, Osso rappresenta Gesù Cristo, Mastrosso San Michele Arcangelo e Carcagnosso San Pietro che starebbe sopra un cavallo bianco davanti alla porta della Società.

Altre fonti attribuiscono la protezione di San Giorgo a Osso, quella della Madonna a Mastrosso, mentre san Michele Arcangelo o l’Arcangelo Gabriele sarebbero a protezione di Carcagnosso.

 

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Un ruolo importante nella ‘ndrangheta – e inizialmente anche nelle altre mafie – è rivestito dalle affiliazioni e dai codici. I codici di affiliazione, per quanto possa essere sorprendente non erano l’uno la fotocopia dell’altro. E d’altra parte non furono del tutto un’improvvisazione; ci fu un lavoro di rielaborazione. Ad esempio, che sui rituali calabresi ci sia stata un’influenza massonica è più di una ipotesi.

Molti hanno confinato rituali e codici nel ghetto delle espressioni folkloristiche della ricca tradizione meridionale o li hanno relegati nella categoria dell’arcaicità. Erano letture sbagliate e riduttive. La lettura di quelle carte, però, rivestono una grande importanza e i precetti in esse contenuti non rimasero invischiati nelle nebbie della formazione delle moderne organizzazioni mafiose. Valicarono i secoli arrivando fino ai nostri giorni.

Giovanni Falcone disse: «Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorriderne, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla come una vera e propria presa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi».

Il rito dell’affiliazione serviva anche per presentare ufficialmente il nuovo arrivato agli altri soci e per fare in modo che egli conoscesse gli altri. Era un rito collettivo che coinvolgeva più persone. Erano in molti ad essere in fila in attesa lla chiamata davanti ai “saggi compagni”, ma l’affiliazione rimaneva pur sempre un fatto individuale perché il giovane compariva da solo davanti agli altri uomini d’onore riuniti a “cerchio formato”, come voleva l’antica tradizione, mentre gli altri giovani attendeva fuori che arrivasse il loro turno.

L’uso prolungato dei codici e dei rituali non è una meccanica ripetizione di parole e di formule che con il passare del tempo hanno perso il loro significato originario.

Ma non era la comprensione quello che contava, era la musicalità, il mistero che si racchiudeva in quelle parole incomprensibili, l’ascolto di parole nuove, mai udite prima. Per avere un’idea basti ricordare cosa fosse la messa celebrata in latino e come le parole pronunciate dal celebrante fossero incomprensibili a coloro che non avevano studiato le lingue morte che di solito erano la grande maggioranza dei fedeli.

La ripetitività aveva la funzione di ribadire la validità di un apparato concettuale capace di trasmettere cultura, valori, stili e concezioni di vita che legavano tra di loro gli associati.

La comparsa dei rituali nell’Ottocento era la conferma che i rituali era il segno di una criminalità in trasformazione perché voleva dire che c’erano aggregazioni stabili e permanenti che superavano la vecchia criminalità dei banditi e dei briganti che era solo occasionale. I codici sono il segno migliore, inequivocabile, che la vecchia criminalità si trasformava in qualcosa di profondamente nuovo e diverso.

La vecchia criminalità che esisteva prima del sorgere delle strutture mafiose non aveva il problema dei codici perché non si poneva l’obiettivo di sopravvivere agli atti criminali compiuti.

Chi usava i codici, invece, lo faceva perché voleva perpetuare un modo di agire mafioso.

Di conseguenza, il periodo precedente può essere considerato come preistoria delle formazioni mafiose.

I codici erano la prova migliore della modernità di organizzazioni mafiose che rompevano gli schemi della criminalità del passato introducendo innovazioni di lunghissimo periodo che sono arrivate sino a noi e che, ancora oggi, sopravvivono, in particolare nella ’ndrangheta che li ha praticati e continua a farne uso non solo in Calabria, ma anche nei luoghi dove ci sono insediamenti mafiosi calabresi come in molte regioni del Centro-nord Italia e all’estero.

 

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Nella ’ndrangheta, più che nelle altre organizzazioni mafiose, hanno importanza le forme rituali che scandiscono

la vita dell’organizzazione sin da quello iniziale dell’affiliazione.

Si entra nella ’ndrangheta attraverso il rito del battesimo il cui termine scimmiotta il battesimo cattolico. Un rito vero e proprio, che ha un’enorme importanza per il giovane che si accinge per la prima volta a varcare quella invisibile soglia che lo trasformerà in un picciotto al servizio esclusivo e definitivo, fino alla morte, della ’ndrina.

Secondo le antiche tradizioni, e quando possibile, il battesimo si fa a “cerchio formato” con il giovane posto al centro di un cerchio composto dagli ‘ndranghetisti.

Nella ’ndrangheta si battezzano i neonati nella culla. Chi ha questo ‘privilegio’? In particolare i figli dei capibastone. Naturalmente non è un battesimo vero e proprio. Questo arriverà se e quando il giovane si mostrerà degno di far parte della ‘ndrangheta.

Omo con due battesimi: uno alla fonte battesimale, con rito cattolico e benedetto del parroco, uno con rito mafioso benedetto dal capobastone.

Battesimo. Il termine è religioso, è cattolico. Qui c’è la grande ambiguità dei mafiosi: il rapporto con la religione, con la fede cattolica. Potevano chiamare in mille altri modi il rito d’ingresso. Invece hanno scelto battesimo.

La religione cattolica è indubbiamente la religione del popolo, e ciò spiega questo ossessivo ricorso alla simbologia e alla terminologia cattolica, il prendere a prestito e a testimoni delle loro nefandezze e dei loro rituali i santi della chiesa cattolica o i santuari come accade per quello della Madonna di Polsi in provincia di Reggio Calabria.

Il mafioso non cerca di contrapporsi al sentire popolare, anzi cerca di aderirvi pienamente; qui sta una delle ragioni che portano il mafioso ad essere conservatore.

Il rito del battesimo è una festa, come lo sono le feste di compleanno, quelle dell’onomastico, del battesimo, della prima comunione o del matrimonio. Un modo come un altro per stare insieme, per festeggiare, per riconoscersi, per affermare e riaffermare gerarchie e supremazie.

L’attesa del rito suscita emozioni, apprensione. Il giovane candidato a diventare ’ndranghetista è pieno d’emozioni contrastanti. È un giorno memorabile, che rimane scolpito nella memoria. Lo hanno detto molti collaboratori di giustizia calabresi, lo hanno ben rappresentato nei loro scritti Saverio Strati e don Luca Asprea.

Serafino Castagna, un giovane di Presinaci, frazione di Rombiolo in provincia di Vibo Valentia, durante la sua lunga carcerazione scrisse un memoriale: «Ricordo, come fosse oggi, il Lunedì Santo del 1941, precisamente il 7 di aprile quando il capo ’ndrina mi nominò picciotto».

È un ricordo vivo difficile da cancellare; si ricorda tutto di quel momento, a cominciare dal giorno. Ma l’interesse del suo ricordo è nel fatto che per il suo battesimo si fosse scelta una data particolare, che ancora una volta si mescolasse il sacro con il profano; un intreccio frequente, inestricabile.

Gli ’ndranghetisti, racconta Serafino Castagna, si sedettero a cerchio, a capo scoperto, tranne il mastro di giornata che aveva il diritto di tenere il berretto. Era in quel cerchio che il giovane doveva entrare per ricevere il suo battesimo. La descrizione è quella dell’affiliazione “a cerchio formato” per usare la terminologia gergale come s’è già detto. Ma prima del battesimo c’è la cerimonia della decontaminazione del locale dalle presenze esterne.

 

«Io lo battezzo come lo hanno battezzato i nostri tre cavalieri di Spagna…i nostri tre cavalieri che dalla Spagna sono partiti… se loro hanno battezzato con ferri e catene, con ferri e catene lo battezzo io… se loro hanno battezzato con carceri scuri e carceri penali, con carceri scuri e carceri

penali lo battezzo io».

Può sembrare incredibile, ma quasi le stesse parole venivano ascoltate in Intercettazione in un bar di Singen, 20 dicembre 2009.

È un atto di alta valenza simbolica perché testimonia l’alterità degli ’ndranghetisti rispetto ai comuni mortali. Il capo ’ndrina recitò una delle tante formule in uso nella ’ndrangheta: «A nome della società organizzata e fidelizzata battezzo questo locale per come lo battezzarono i nostri antenati Osso, Mastrosso e Carcagnosso che lo battezzarono con ferri e catene. Io lo battezzo con la mia fede e lunga favella. Se fino a questo momento lo conoscevo per un locale oscuro, da questo momento lo riconosco per un locale sacro, santo e inviolabile in cui si può formare e sformare questo onorato corpo di società».

Fatto ciò, si passava alla cerimonia vera e propria e per tre volte il capo chiedeva il consenso dei presenti all’ammissione del giovane “all’onorata società”. Le formule non sempre sono le stesse, a volte variano e in alcune ’ndrine è prevista la cerimonia dell’incisione del dito del giovane aspirante e del versamento del sangue.

Io insisto moto sull’importanza di questi rituali e sul valore del battesimo perché avvengono in età adulta e coinvolgono giovani che scelgono consapevolmente di essere ‘pungiuti’.

Per quante variazioni ci possano essere, quello che non muta è il fatto che per diventare ’ndranghetista ci sia bisogno del rituale, del battesimo formale. Non c’è altra strada che questa per chi voglia diventare uomo d’onore. Tutti gli altri che non partecipano ai riti ne restano esclusi, inesorabilmente.

Quello che non muta mai è il sentimento del giovane picciotto. «Mi sentii caldo di commozione quando capii di essere diventato membro della società» disse Serafino Castagna.

Il battesimo portava a una profonda trasformazione del giovane il quale, da quel momento in poi, acquisiva una collocazione dentro la ’ndrina, era conosciuto e rispettato; era un “uomo di rispetto”, un “uomo d’onore”.

 

 

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Le incertezze sul nome e il problema delle origini. Contrariamente a mafia e camorra i cui nomi non mutarono mai, la ‘ndrangheta ha avuto varie denominazioni:

 

Maffia

Camorra

Fibbia

Famiglia Montalbano

Picciotteria    

 

La ’ndrangheta è stata la grande sconosciuta. A che epoca risalgono le prime tracce? Stabilire la nascita di un’organizzazione mafiosa è affare complicato.

Ancora più complicata è la ricerca delle origini della ’ndrangheta perché i segni sono davvero scarsi. Le prime tracce ufficiali si trovano al momento dell’Unità a Reggio Calabria. Il prefetto della città scrisse che i camorristi «infestavano in deplorevole modo questa città» tra giugno e luglio del 1861. Un mese dopo il ministro Ubaldino Peruzzi scrisse a Bettino Ricasoli, il «barone di ferro» che fu il primo presidente del consiglio italiano dopo la morte di Cavour, di un «fenomeno camorristico».

Il termine era camorristi perché ancora non c’era una definizione precisa per designare i mafiosi calabresi.

Sul finire del decennio, per la precisione nel 1869, furono annullate le elezioni del consiglio comunale di Reggio Calabria perché c’era stata una «utilizzazione politica di elementi mafiosi nella lotta amministrativa».

Presenze importanti, dunque, sono opportunamente segnalate sin dal primo decennio unitario. Ma come si erano formate? E quando? Da quanto tempo? Da dove traevano origine?

Seppure molti non siano convinti di una antica nascita della ‘ndrangheta relegandola ad epoca più recente, personalmente sono convinto che le radici che poi avrebbero germogliato rigogliosamente erano presenti nelle varie turbolenze che attraversavano il Regno di Napoli e poi delle Due Sicilie nella sua fase declinante.

Sul finire del Settecento Giuseppe Maria Galanti aveva notato a Monteleone, un centro economicamente molto importante all’epoca, degli uomini che lui definì spanzati,  “gente oziosa” abituata a commettere «ogni sorta di bricconeria, con un manifesto disprezzo per la giustizia, la quale è inefficace a punirli».

Molti di loro erano attivissimi nei commerci più remunerativi del momento – quelli della seta o dell’olio – e vi svolgevano la funzione dei mediatori facendo ricorso alla violenza quando si fosse resa necessaria.

Non avevano nessuna autorità pubblica, avevano però la disponibilità della violenza. E ciò permetteva loro di stabilire i prezzi, che era questione quanto mai delicata e di potere.

I decenni che accompagnarono il declino del Regno dei Borbone avevano messo in luce che il crimine era premiato e con il crimine si poteva fare fortuna. Perché non mettersi insieme e sfruttare questa contingenza?  In quante località i più intraprendenti e spregiudicati, i più emarginati e senza futuro pensarono che questa fosse una strada da percorrere? Fu un fatto che investì non solo i ceti popolari e subalterni, ma spezzoni significativi delle classi dominanti che si servivano di questi uomini per le lotte politiche nei comuni e per indebolire o sconfiggere un concorrente economico.

Quello che accadde nei decenni precedenti il crollo del Regno delle Due Sicilie spiega perché nelle tre regioni si manifestarono subito raggruppamenti mafiosi che avevano alcune caratteristiche in comune:

 

 

Quella dei mafiosi è «violenza strategica, non sempre brutale, basata sull’accorto bilanciamento del suo uso e della sua minaccia» perché la violenza nella mafia ha un valore programmatico e strategico, non è occasionale devianza. Qui sta la novità introdotta nel mondo variegato del crimine di città e di campagna.

Il delitto è parte essenziale di un governo degli interessi di un territorio, obbedisce a una strategia di controllo e di esercizio del potere, non è animalesca dimostrazione di coraggio e baldanza.

Mafia è un potere a carattere privato parallelo a quello ufficiale: parallelo, non alternativo. Essa non è un esercito che occupa un territorio con le armi, anche se ha a sua disposizione migliaia di affiliati che le sanno usare in modo efficace.

A metà dell’Ottocento la ’ndrangheta non era attiva in tutta la regione, ma solo nella sua parte meridionale ed era confinata in aree ben definite della provincia reggina e in comuni importanti come Nicastro, l’odierna Lamezia Terme, e Monteleone, l’odierna Vibo Valentia.

Questa proiezione è avvenuta con morti ammazzati a centinaia e a migliaia che però non furono compresi in tutta la loro portata.

Se i capi della camorra e quelli della mafia, siciliana ed americana, sono stati molto famosi tutto ciò non è accaduto per la ’ndrangheta, se non in parte e solo in relazione ad efferati fatti di sangue.

E ciò non perché la ’ndrangheta non abbia avuto capi di un certo prestigio e carisma – come Mommo Piromalli di Gioia Tauro, Domenico Tripodo di Sambatello, Paolo De Stefano di Reggio Calabria, Antonio Macrì di Siderno, Giuseppe Nirta di San Luca, per ricordarne solo alcuni – ma per il fatto che questi furono sempre descritti come capi di un’organizzazione giudicata una sorta di filiazione della mafia siciliana, folkloristica, truce, a tratti selvaggia, molto violenta, sanguinaria ed arretrata come avrebbe dimostrato l’attività dei sequestri di persona che ad uno sguardo superficiale richiamava quella dei briganti dell’Ottocento.

Sin dai primi anni del suo apparire, la ’ndrangheta manifestava una delle sue principali caratteristiche: l’invisibilità, il suo voler passare inosservata.

Qualche storico – anche calabrese – si è lasciato sfuggire il vero fattore di modernizzazione dei poteri criminali di quel periodo cruciale e del loro rapporto con altri poteri come quello politico.

La ragione di tale incomprensione – è bene insistere su tale concetto – sta nel fatto che la ’ndrangheta era considerata un fenomeno legato a una società povera, arretrata, marginale, contadina, espressione di un mondo in declino che ricordava i briganti, i figli di una Calabria ribelle che rimaneva un passo indietro rispetto alle grandi correnti della storia, di una Calabria disperata, sempre sconfitta e relegata ai margini, senza peso politico.

Insomma, l’idea prevalente era che ci fosse una criminalità pietrificata, niente di interessante rispetto alle altre mafie. Al fondo di tutto, una criminalità stracciona, senza futuro, popolata da pezzenti. Così pensavano gli intellettuali, compresi molti calabresi. Nulla di stimolante, secondo loro; e perciò non era stata studiata.

Il paradosso è che gli unici ad accorgesi della ‘ndrangheta erano i tribunali dove venivano condannati gli uomini della ’ndrangheta, ma ciò non pesava sulla società.

Sin dall’aurora del nuovo Stato centinaia e centinaia di imputati per associazione a delinquere, omicidio, furti, sfregi e tanti altri reati popolavano le aule dei tribunali, cominciavano ad essere processati e in gran parte condannati per associazione a delinquere come recitava il codice penale allora vigente.

Per fare solo degli esempi: nel 1892 furono rinviate a giudizio 219 persone provenienti in gran parte da Palmi, Melicuccà, Sinopoli, Arena, Polistena, Rosarno, Bellantoni; nel 1896 un centinaio di persone, imputate degli stessi reati, furono processate in tre distinti processi, due a Reggio Calabria e uno a Castrovillari; nel 1900 presso il tribunale di Palmi si videro sfilare 500 uomini e giovanotti coinvolti in un’unica inchiesta; un anno dopo furono 317 i denunciati, molti originari di Radicena, l’odierna Taurianova, altri dei comuni vicini.

 

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Gli uomini delle ‘ndrine furono avvantaggiati dalle immagini errate che furono date della ‘ndrangheta. La prima immagine era legata all’Aspromonte e all’idea d’una criminalità stracciona.

Queste immagini tralasciano di prendere in considerazione le presenze mafiose nei centri urbani e nelle zone ricche della regione.

C’erano ’ndranghetisti nelle città più grandi, a cominciare da Reggio Calabria, Nicastro, Vibo Valentia, e un’apparizione fugace, ai primi anni del Novecento, era stata fatta persino a Catanzaro e a Cosenza dove gli affiliati furono processati a centinaia e condannati.

Un altro aspetto caratterizzava lo sviluppo della ’ndrangheta negli anni a cavallo dell’unità d’Italia, ed era quello legato ad una presenza nelle zone economiche più dinamiche e progredite del tempo.

La mafia calabrese si presentava come una formazione interclassista.

Leopoldo Franchetti, a metà degli anni settanta scriveva così: «sento dire che non pochi grossi proprietari, residenti nelle grandi città, sono per così dire esclusi dai loro fondi da una specie di maffia di persone di condizione media che tengono quei fondi a fitto». Il fatto era notevole e come tale lo registrava Franchetti.

Franchetti aggiungeva che i rappresentanti di questa «classe di grandissimi proprietari» avevano «una piccola forza armata ai loro ordini». I guardiani di questi proprietari sono «persone pregiudicate colla polizia», hanno un potere enorme dal momento che i proprietari «non potrebbero congedare anche volendolo» perché, «essendo armate e non avendo idee sulla morale e la giustizia più chiare del rimanente della popolazione, se non hanno commesso un delitto, non hanno nessuna ragione per non commetterlo trovandosi nel caso di farlo».

Il viluppo è evidente, ed è ben descritto; così pure il reciproco condizionamento che ad un certo punto divenne inestricabile e vantaggioso per entrambi i contraenti.

Quegli spunti di Franchetti furono lasciati cadere, come se fossero aspetti marginali e non furono approfonditi a cominciare dai contemporanei.

Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ’ndrangheta, è che essa non era un’organizzazione di straccioni e di povera gente – perché se così fosse stata non sarebbe sopravvissuta arrivando fino ai nostri giorni – ma una struttura molto più complessa e dinamica formata da diversi ceti sociali, alti e bassi, e nel contempo era in diretta relazione con vari ceti sociali diversamente collocati nella scala sociale con una spiccata vocazione verso la punta della piramide.

Già negli anni venti del Novecento, i giudici del Tribunale di Palmi mettevano in luce questi aspetti. Essi scrivevano che l’organizzazione è nata «in seno alle classi meno abbienti» ma «vegeta con l’acquiescenza della classi più facoltose che spesso se ne servono per i loro fini di predominio personale e di custodia dei loro latifondi e conta sullo amor del quieto vivere della maggior parte ».

Scrivevano anche dello «sfruttamento su larga scala ed in tutti i modi delle classi meno elevate, mentre si rispettano i Signori». E i signori – i ’gnuri come venivano chiamati nel dialetto locale con una vaga inflessione di disprezzo popolaresco – rispettavano gli ’ndranghetisti, anzi facevano di più.

Quello che succedeva tra Palmi e Gioia Tauro era lo specchio dei mutamenti intervenuti. Il sindaco di Palmi affidava la custodia dei propri magazzini di olio a uno di loro, i soci del Circolo dei signori di Palmi avevano accolto nelle loro fila il principale imputato, accusato di essere il promotore dell’associazione a delinquere; e ciò mentre Santo Scidone, mitico capo della “malavita” locale, veniva omaggiato in varie forme quando si recava a Gioia Tauro attraversando la via principale che percorreva in due ore viste le manifestazioni di deferenza e di rispetto che riceveva lungo il percorso impedendogli un passo più spedito. Un consenso di massa, come si vede.

Questo reciproco rapporto tra classe dirigente e criminalità mafiosa avrebbe avuto delle conseguenze ben precise. La classe dirigente manteneva la propria funzione dominante mentre la ’ndrangheta acquisiva un potere sociale e un riconoscimento pubblico che la legittimavano agli occhi della popolazione; di più: realizzava la sua ambizione che era quella di diventare una componente delle élite. E in alcune realtà ciò fu un fatto reale.

Il fatto è che la ’ndrangheta copriva uno spazio che nessun altro – né lo Stato né la Chiesa – riusciva a coprire, dava risposte che altri non era in grado di dare. «Io pozzu mettiri paci puru nt’e famigghi, ’u sai? Io arrivu duv’a leggi non arriva» [Io riesco a mettere pace nelle famiglie lo sai? Io sono in grado di arrivare là dove la legge non è in grado di arrivare]. Con queste parole uno ’ndranghetista spiegava al giornalista Sharo Gambino l’antica funzione del capobastone.

Era una funzione di potere, perché la ’ndrangheta gestiva ed esercitava potere. Il capobastone svolgeva funzioni di giudice di pace, di mediazione tra i conflitti, interveniva nelle liti familiari o nelle controversie di carattere economico. Riusciva a far sposare una donna in difficoltà, o a far cessare una corte insistente e non voluta che poteva mettere a repentaglio l’onorabilità della ragazza corteggiata.

La figura di difensore dell’onore delle fanciulle offese era funzionale anche alla costruzione ideologica di tutte le organizzazioni mafiose. Erano episodi realmente accaduti che contribuivano ad accrescere il potere ed il rispetto verso gli ’ndranghetisti che erano riusciti a risolvere un problema altrimenti difficilmente risolvibile. Tali episodi passavano di bocca in bocca.

 

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La ‘ndrangheta alla perenne ricerca del consenso. In molti comuni aspro montani prese i caratteri di una struttura di potere alternativo a quello ufficiale, ebbe la connotazione di una rivalsa nei confronti del dominio secolare di classi feudali e di signorotti locali incolti e arroganti, prepotenti e insensibili che avevano scarnificato la povera gente; in queste località assunse il ruolo di un potere di governo sui diseredati.

La storia plurisecolare della ’ndrangheta è stata caratterizzata dall’adesione ad un accentuato antistatalismo che affondava le sue radici in una critica allo Stato italiano che era considerato lontano ed ostile, nato per di più da un’unificazione più subita che voluta.

L’ostilità e la diffidenza verso lo Stato fa parte del ‘codice genetico’ della mafia calabrese. Ma anche in questa occasione si mostra ancora una volta l’ambiguità mafiosa perché queste rappresentazioni erano una copertura ideologica che nascondevano il fatto che la ’ndrangheta si sviluppava grazie ad una certa presenza dello Stato che nelle sue articolazioni e nei suoi rappresentanti periferici e a volte anche centrali era complice – non assente! – era connivente e colluso perché l’uno supportava l’altra. D’altra parte gli esponenti politici che erano aiutati dal sostegno e dal voto della ’ndrangheta avevano un rapporto di dipendenza dal Governo centrale soprattutto man mano che lo Stato accentuava la sua presenza nell’economia regionale.

Corrado Alvaro disse che la ’ndrangheta «nei bassi ranghi rappresentava la rivalsa di una misera condizione». E tanti erano convinti che ciò fosse possibile a meno di non fare gli emigranti ed andare in terre molto lontane. In tanti hanno pensato che diventare ’ndranghetisti potesse dare prestigio, autorevolezza, dignità, onore e, perché no? anche soldi per assicurarsi agiatezza se non ricchezza.

 

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Il cuore pulsante della ‘ndrangheta è la struttura familiare. Il mafioso è sempre figlio del suo tempo e della sua terra. E il mafioso calabrese ha costruito le proprie fortune con i materiali che si trovava a portata di mano, a cominciare dalla cultura della famiglia. Non ha inventato nulla, ha solo utilizzato e strumentalizzato ai suoi fini il deposito culturale calabrese.

All’interno di una precisa concezione della famiglia, la «Calabria è uno dei paesi che ha in maggior grado il senso della gerarchia, il senso paterno, patriarcale». Su questa base culturale, sullo zoccolo duro di un’antica concezione che si tramanda da generazioni la ’ndrangheta ha fondato la sua struttura organizzativa. La famiglia naturale è il cuore pulsante della famiglia mafiosa.

All’interno di essa c’è una precisa gerarchia di comando che era già connaturata alla famiglia patriarcale. È il patriarca la guida di tutto il parentado, è il capobastone il capo assoluto della famiglia mafiosa.

C’è un’assoluta continuità tra le due figure. Il figlio-affiliato che già doveva obbedienza al padre-patriarca trasferirà questa obbedienza al padre-capobastone senza avvertire contraddizione alcuna.

Ancora fino a pochi decenni fa non era infrequente trovare figli, per non parlare delle figlie, che in segno di rispetto davano del voi al padre.  In quel “voi” c’era tutta la distanza tra padre e figlio e tutta la sottomissione del secondo al primo. Si potrà obiettare che quel tipo di famiglia ottocentesca o d’inizio Novecento non esiste più perché è profondamente cambiata.

Ed è una obiezione giusta. Oggi tutto ciò è solo il ricordo del passato ed il rapporto tra padre e figlio non è più quello d’un tempo. Ma è altrettanto vero che tutto ciò non ha indotto la ’ndrangheta a modificare la struttura di fondo della composizione familiare. La ’ndrina ha avuto la capacità di assorbire i mutamenti della famiglia calabrese.

 

 

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Al centro di ogni famiglia c’è la donna. Che ruolo hanno le donne nella ’ndrangheta? I rituali tacciono sulle donne. La loro presenza non è prevista, ma non è neanche  esclusa esplicitamente.

Per lungo tempo si è dato credito alla favola che per le donne fosse interdetto l’universo mafioso perché non era possibile la loro presenza in organizzazioni di uomini d’onore, composte da soli maschi.

Questa convinzione era figlia di un pensiero che riteneva che lo scontro fosse solo tra uomini, da una parte e dall’altra della barricata, da parte dello Stato e da parte della ’ndrangheta.

La ’ndrangheta è, tra l’altro, l’organizzazione mafiosa che prevede il grado di “sorella d’umiltà”, che è il più alto grado che può essere conferito ad una donna.

Seppure negato, le donne hanno sempre avuto un ruolo nelle strutture familiari della ‘ndrangheta. Ad esempio, le donne dell’Ottocento erano vestite da uomini e come i loro uomini, ed insieme ad essi, commettevano reati.

La cultura del mafioso poggia e fa leva sopra questa cultura certo non a caso; il dato di fondo è che la sua è una cultura essenzialmente maschilista.

A chi appartengono le donne? Esse, secondo questa concezione, appartengono all’uomo e solo a lui, ed è lui che rivendica la proprietà sopra le proprie donne: madre, figlia, moglie, sorella.

Sono donne che la natura – madre, sorella, figlia – o le convenzioni sociali – il patto sottoscritto con il matrimonio – gli hanno concesso. Queste sono, quasi fosse un diritto naturale, esclusiva proprietà dell’uomo.

Compito preminente dell’uomo è, dunque, quello di difendere queste proprietà. Una simile concezione presente nelle classi elevate aveva un solido sostegno anche nelle classi subalterne perché in una società contadina contraddistinta da una miseria estrema l’uomo nasceva senza proprietà e senza diritti.

L’unico diritto che il contadino o il lavoratore della terra poteva rivendicare ed esercitare, e l’unica proprietà che poteva esibire erano quelli ricadenti sulle proprie donne. In questo quadro l’onore era l’unità di misura per valutare una persona, una famiglia.

Il concetto dell’onore ruota attorno alla donna che è in grado, con il suo comportamento, di conferire o di togliere onore a un uomo, a un’intera famiglia. La donna è debole e dunque va sorvegliata, controllata, protetta. Qui sta la contraddizione profonda nella concezione dell’onore: nel fondare tutto l’onore della famiglia su un soggetto, la donna, che è ritenuta talmente fragile e debole e infida da dover essere continuamente sorvegliata e protetta. Non tutti gli uomini sono uomini d’onore perché uomini d’onore non si nasce, si diventa.

In ogni caso le donne hanno aumentato sempre di più il peso all’interno delle diverse ‘ndrine. I motivi di ciò sono tanti: il ruolo della donna nella società è cambiato e questi cambiamenti inevitabilmente si sono riflessi nella famiglie mafiose; le ‘ndrine sono sempre di più imprese economiche e le donne hanno una spiccata tendenza per la gestione dell’economia familiare; gli uomini sono in carcere e le donne le sostituiscono o fanno da portaordini.

 

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Troviamo tra i mafiosi un gran numero di giovani e giovanissimi. Perché? Perché le organizzazioni mafiose non si presentavano come una semplice organizzazione a delinquere.

Esse volevano apparire come una associazione di uomini d’onore, come una struttura in grado di offrire protezione, assistenza, rispetto. Si presentavano come una struttura d’élite della quale non tutti potevano far parte.Potevano farne parte solo alcuni, non tutti; la selezione implicava una scelta. Ciò aveva un’importanza enorme.

Erano esclusi tutti gli uomini in divisa – poliziotti, carabinieri, vigili urbani e del fuoco, guardie carcerarie, guardie campestri, militari, magistrati – compresi i preti, e tutti coloro che avevano macchie d’onore in famiglia e non vi avevano posto riparo.

 

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Le ‘ndrine sono strutture rigidamente gerarchizzate; ovviamente non sono organizzazioni democratiche, e non poteva essere certo diversamente. All’apice, al vertice, c’è il capo; nella ‘ndrangheta viene chiamato capobastone.

Interessanti erano anche le raffigurazioni come quella immaginifica della ‘ndrangheta che era rappresentata dal cosiddetto albero della scienza.

 

L’albero della scienza è rappresentato come una grande quercia alla cui base è collocato il capobastone;

 

Il picciotto è il giovane mafioso, quello che entra a far parte dell’organizzazione subito dopo essere stato battezzato con il rito di ingresso. Camorrista è il grado superiore e a sua volta è composto da più figure come camorrista di sgarro, gli sgarristi, di giornata ecc.

A volte il passaggio da un grado ad un altro veniva ripetuto, quasi si volesse rinsaldare il legame con un nuovo giuramento e ricordare al mafioso  le nuove responsabilità che si assumeva davanti a tutti i componenti della società mafiosa.

Per passare da picciotto a camorrista era prevista la ‘tirata del sangue’, una sorta di scherma nel corso della  quale il picciotto doveva dare prova di bravura e di valentìa colpendo il camorrista.

 

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Non bisogna commettere l’errore di pensare che i mafiosi sono solo assassini, criminali e violenti.  Il crimine e la violenza sono uno strumento, un mezzo per ottenere essenzialmente due cose: denaro e potere. I mafiosi gestiscono potere, esercitano potere.

Il potere presuppone la ricerca continua e faticosa del consenso, oppure la scorciatoia della violenza, del terrore, dell’annichilimento dell’avversario: il ricorso all’omicidio, all’intimidazione permanente, alle stragi o al condizionamento della democrazia quando si arriva al controllo del voto.

Il mafioso predilige la prima modalità, non la seconda: ma, non lo si dimentichi mai, entrambe – consenso e violenza omicida – sono connaturate alla natura del mafioso.

Non è infrequente, allora, trovare il capomafia siciliano, il caposocietà campano o il capobastone calabrese impegnato

·         a far da “giudice di pace”,

·         a dirimere controversie a vantaggio di chi si rivolge a lui chiedendo un suo intervento,

·         a intervenire in difesa dell’onore della donna imponendo un matrimonio riparatore.

 

E ancora, vediamo i mafiosi

·         restituire, dietro compenso, la roba rubata – furti di animali nelle campagne

·         imporre le guardiania ai proprietari terrieri

 

In tal modo si esercitava un controllo sociale di vaste dimensioni. Era un potere visibile nel senso che tutti conoscevano il mafioso cui occorreva rivolgersi.  Ma nel contempo era un potere invisibile perché non riconosciuto ufficialmente, perché, per quanto fosse ostentato pubblicamente, esso veniva tenacemente negato nelle aule dei tribunali.

Un potere che si può definire opaco; visibile e nel contempo invisibile. Il mafioso, acquisiti posizione economica e prestigio cercava una legittimazione, un riconoscimento sociale, un’integrazione con i ceti localmente dominanti.

Cercava una cooptazione nell’élite locale, cioè un potere ufficialmente riconosciuto. Voleva far parte delle élites locali; e capitò, in molte occasioni, che vi riuscisse.

 

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C’è da chiedersi: com’è stato possibile che una organizzazione basata sulla ‘ndrina, cioè su una struttura apparentemente primitiva e fragile il cui fondamento è sempre stato la famiglia di sangue, abbia potuto valicare i confini regionali impiantandosi  stabilmente al nord Italia e all’estero e ad entrare da protagonista nel grande traffico degli stupefacenti e delle armi?

Il perno di tutto, anzi il vero e proprio segreto è essenzialmente nella struttura familiare del capobastone.

La struttura organizzativa della ‘ndrangheta ha delle caratteristiche particolari che la rendono diversa dalla mafia e dalla camorra.

Essa poggia sulla cosca, o ‘ndrina, che è radicata in un determinato territorio, o ‘locale’ come viene definito, cioè in un paese, in un villaggio o in un quartiere cittadino.

Per un lunghissimo periodo storico ogni ‘ndrina è stata autonoma dalle altre ‘ndrine. Autonoma e gelosa della propria autonomia.

Capitava, volte, che si mettessero d’accordo per gestire insieme affari complessi che richiedevano il concorso di più cosche. Durante il periodo del contrabbando delle sigarette ci furono sicuramente accordi tra più cosche; così come intese furono stabilite per partite di droga di una certa dimensione o per sequestri di persona particolarmente complicati come quelle effettuati al nord e i cui ostaggi furono custoditi e liberati in Calabria. Quando si effettuarono i lavori per il quinto centro siderurgico a Gioia Tauro ci fu l’accordo tra le cosche più importanti della provincia di Reggio voluto dalla potente cosca dei Piromalli.

Una simile struttura è sempre apparsa come un modello arcaico, primordiale, legato alle origini rurali della ‘ndrangheta.

Tale modello organizzativo fu da molti considerato primitivo, e per di più confermava l’opinione che la mafia calabrese fosse un’organizzazione secondaria, con una struttura debole rispetto al panorama offerto dalla moderna criminalità mafiosa. Il confronto con Cosa Nostra si risolveva a tutto svantaggio dei mafiosi calabresi. La struttura di tipo familiare ha impedito, per un lungo periodo, che la ‘ndrangheta fosse investita in pieno dal ciclone del pentitismo.

Uno ‘ndranghetista sa bene che collaborare con la giustizia significa denunciare affiliati che spesso sono suoi consanguinei o suoi parenti acquisiti; il che, naturalmente, costituisce una remora, un freno potente.

Si può denunciare un associato correndo il rischio di essere ammazzato, ma quando questo è il padre o il fratello o il figlio o il cognato o lo zio o il cugino è tutt’altra cosa. Uno ‘ndranghetista che parla deve coinvolgere, quasi sempre propri parenti.

Uno degli esempi più clamorosi è quello di Antonio Zagari, uno ‘ndranghetista originario di San Ferdinando di Rosarno che ha deciso di collaborare con la giustizia. Egli ha sottolineato i “problemi di ordine morale e psicologico spesso assai più pesanti dei timori di vendette e ritorsioni”.

Con le dichiarazioni rese ai magistrati, Zagari ha contribuito alla condanna del padre che era il “capo di società” del ‘locale’ di Varese.

Che gli ostacoli di ordine psicologico da superare fossero tanti è lo stesso Zagari a confessarlo ai magistrati di Milano:  “Per me, accusare mio fratello Enzo, anche se morto, fu come distruggere la sua immagine e il suo ricordo agli occhi di mia madre la quale pur sapendo che i propri figli non erano certo dei cherubini, non poteva minimamente immaginare che fossero spietati assassini. E ciò - sia consentito anche ad una persona come me che nella propria vita ha calpestato praticamente tutti i valori umani e sociali - non è certo una cosa che si può fare e accettare a cuor leggero”.

I collaboratori di giustizia (i cosiddetti pentiti) rompono un antico precetto che recita così:

 

            Davanti alla gran curti non si parra

            pochi paroli e cull’occhiuzzi ‘nterra

            l’omu chi parra assai sempre la sgarra!

            Culla sua stessa lingua s’assutterra

 

La struttura di tipo familiare ha delle conseguenze anche nelle forme di reclutamento. Nella mafia siciliana le norme sono rigide. I pentiti hanno raccontato come i vecchi mafiosi seguissero con attenzione le ‘imprese’ dei giovanotti al fine di individuare i potenziali mafiosi. Leonardo Messina sin da ragazzo fu “tenuto sotto osservazione”.

In Calabria le forme di reclutamento sono in parte diverse. Antonio Zagari ha precisato che “i figli maschi degli uomini d’onore calabresi, già alla nascita, vengono considerati, per diritto, giovani d’onore”. In particolare, “quando la moglie di uno ‘ndranghetista di grado elevato mette al mondo un figlio maschio, quest’ultimo viene battezzato nelle fasce”.

Spesso questa iniziazione avviene addirittura il giorno del battesimo, quando il bambino, dopo la cerimonia religiosa, viene preso in braccio da un affiliato, che funge quasi da padrino, e che dice alcune parole di augurio. Il bambino viene poi baciato da tutti gli affiliati presenti, e da quel momento è ‘mezzo dentro e mezzo fuori’”. E’ un modo molto simbolico e nel contempo molto efficace, di mettere “un’ipoteca sul futuro del bimbo”.

Uomo con due battesimi. Solo gli ‘ndranghetisti hanno due battesimi.

In Calabria, in ogni caso, un giovane per diventare affiliato vero e proprio dovrà comunque aspettare almeno l’età di 14 anni che è l’età minima per poter entrare nella ‘ndrangheta. Come a dire: giovani d’onore si nasce, ‘ndranghetisti lo si diventa.

Anche a livello di gerarchia di comando funziona quasi sempre un meccanismo familiare, il che segna un’altra differenza rispetto a quanto avviene in Cosa Nostra.

 

La famiglia naturale del capobastone costituisce, dunque, la struttura portante della cosca, funziona come elemento di attrazione e di aggregazione di altre famiglie, mafiose e non mafiose. 

Il matrimonio costituisce lo strumento essenziale per allargare l’influenza e la potenza della cosca originaria. E’ una ‘politica matrimoniale’ o, meglio, una ‘strategia matrimoniale’ che viene praticata abitualmente.

L’espansione della ‘ndrina è spesso segnata da matrimoni incrociati e, a volte, da legami anch’essi solidi come i comparaggi.

C’è una ricerca frenetica di alleanze, di intese matrimoniali che segnano momenti di passaggio delle organizzazioni mafiose.

Ci sono spesso i matrimoni ‘dinastici’. I matrimoni combinati erano frequenti non solo in Calabria, ma in Italia ed in Europa; c’erano matrimoni d’interesse tra le case regnanti o tra la nobiltà o i grossi proprietari terrieri o i grandi borghesi titolari di immense fortune economiche. Fino ad epoca moderna, quando la base del matrimonio diventò l’amore e non più l’interesse economico, i matrimoni avevano queste caratteristiche.

I matrimoni servono anche a cooptare elementi incensurati che possono tornare utili alle cosche quando, ad esempio, si devono assumere lavori pubblici interdetti ai componenti della famiglia dominante già esposti sul piano giudiziario. Fitto interscambio matrimoniale.

Famiglie numerose. Non a caso. Anche qui una scelta che poggiava su un fondamento concreto. Una cosca con molti uomini è una cosca potente militarmente, in grado di competere nei conflitti armati sempre frequenti - e sempre all’ordine del giorno - fra le cosche spesso in contrapposizione fra di loro.

Più maschi significa maggiore forza d’urto, più potere, maggiore capacità di utilizzare uomini con i quali operare sul terreno dei grandi traffici illegali.

Zagari: “E’ la nascita di figli maschi che consente di avere materiale umano con cui sostituire e rimpiazzare le inevitabili perdite e continuare la perpetuazione della vendetta che, a prescindere dalle faide, è tra le regole pilastro della malavita calabrese. Un elevato numero di figli maschi, o comunque di uomini legati tra loro da vincoli di parentela, permette di avere maggiore voce in capitolo nell’ambiente criminale”.

E’ la logica dei grandi numeri che sembra essere introiettata nel sistema di vita e nei moduli operativi delle cosche calabresi.

I matrimoni, peraltro, avvengono spesso con donne appartenenti a famiglie i cui esponenti maschi sono numerosi. La girandola dei matrimoni ha, con tutta evidenza, un altro scopo ben preciso, e molto concreto: preservare il patrimonio accumulato, costruire una barriera a difesa dell’asse ereditario.

In questa ricerca ossessiva, frenetica, di matrimoni incrociati c’è la ossificazione di una cultura e di un modus operandi dei classici matrimoni di interesse tanto praticati lungamente dalla nobiltà e dalla borghesia calabrese e meridionale.

Insisto su un concetto: La ‘ndrangheta copia da altri soggetti. Non inventa nulla. Non ha nulla di originale. E’ noto che l’unione familiare si configurò per un lungo periodo storico come un rapporto voluto e deciso da due capifamiglia proprio per unire le due famiglie.

Non era un rapporto tra due individui. Era una scelta tra famiglie e non tra persone. Il matrimonio garantiva il patrimonio e ciò era tanto più importante quando c’era da preservare fortune economiche di rilevanti dimensioni.

Nella Calabria ottocentesca era molto diffuso l’uso nobiliare del maggiorascato che consentiva al solo primogenito di prendere moglie imponendo il celibato agli altri membri maschi della famiglia per non disperdere il patrimonio. La stessa pratica, a volte, era seguita dai piccoli proprietari.

Per una lunga fase storica le strategie economiche rimarranno determinanti nei matrimoni; contavano la posizione e la funzione economica dei nuovi nuclei familiari e non i sentimenti degli sposi.

Il patto tra famiglie – o, per dirla diversamente, il “matrimonio tra padri”, da loro voluto o deciso – è un modello per certi verso sicuramente arcaico che la ‘ndrangheta ha saputo rendere attuale e moderno, oltre che funzionale ai suoi interessi.

D’altra parte, per spiegare questa lunga permanenza del modello familiare della ‘ndrangheta occorre ricordare che il ruolo della famiglia è fondamentale come strumento di propagazione e perpetuazione di idee, sentimenti, culture. E ciò è tanto più importante per la ‘ndrangheta che ha sempre custodito gelosamente la propria cultura ed ideologia mafiosa nel corso di un lungo periodo storico.

La strategia matrimoniale della ‘ndrangheta non si limita alla sola Calabria, ma si estende anche alle cosche operanti al Nord Italia. Addirittura si esporta all’estero la pratica dei matrimoni incrociati come tecnica di allargamento e di rafforzamento delle alleanze della cosca originaria. I matrimoni cementano nuove alleanze, ma, a volte, rappresentano la rottura di quelle di più antica data. Alcuni matrimoni, invece, hanno l’effetto di creare sospetti o sono intesi come vere e proprie minacce come successe con il matrimonio di Antonino Imerti con Giuseppa Condello che fu visto con sospetto dai De Stefano.

I matrimoni svolgono, a volte, un’altra importante funzione, che è quella di tentare una composizione dei dissidi o quella di sancire la pace dopo una guerra sanguinosa.

La donna che ruolo svolgeva? sicuramente un ruolo centrale; ma, in parte subalterno. Essa, a ben vedere, non possedeva alcuna facoltà di scelta e veniva considerata come una merce di scambio.

I matrimoni potevano chiudere una faida.

Si determinava la riproduzione, anzi, la perpetuazione dei matrimoni di interesse che tanta parte hanno avuto nella storia della formazione delle élites aristocratiche e borghesi della società italiana.

L’élite mafiosa ripercorreva, a ritroso nel tempo, questi antichi – e ormai in gran parte desueti – sentieri. In questi casi la donna di ‘ndrangheta rappresentava la vittima sacrificale di situazioni e di realtà che sfuggivano al suo controllo e al suo dominio. A prevalere erano il maschilismo e una concezione rigidamente patriarcale che nella ‘ndrangheta avevano un’origine antica.

Eppure, nonostante la rigida concezione maschilista, le donne sono andate assumendo via via un protagonismo diverso rispetto al passato.

 

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Il trapasso dal regime liberale a quello fascista non impedì alla ’ndrangheta di agire e di operare lungo tutto il ventennio che attraversò consolidando ed espandendo la sua forza e trovando il modo di far parte delle élites locali e di esercitare forme di ottima convivenza con il potere locale fascistizzato.

Nei suoi «ricordi d’infanzia» Corrado Alvaro annota «il reclutamento di gente di piccola condizione, nei ranghi secondari. Tra gente piuttosto abbiente e disinteressata, nei dirigenti. Tra gente modesta nei piccoli paesi, in modo da nascondere responsabili più grossi, diventando bersaglio della polizia».

E aggiungeva che in pieno fascismo «nessuno in paese li considerava gente da evitare, e non tanto per timore, quanto perché formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente» dal momento che «il potere occulto, creato dalla violenza, conquista il potere ufficiale e finanziario».

Fascismo e ’ndrangheta lungo il ventennio trovarono il modo di convivere con tranquillità.

Le differenze con la realtà siciliana: mentre in Sicilia si dispiegava la repressione cieca dl prefetto di Ferro Cesare Mori la cui azione fu interrotta quando cominciò a mettere sotto accusa alcuni deputati fascisti collusi e complici della mafia, in Calabria con Giuseppe Delfino, un originale maresciallo dei carabinieri di Platì, si inaugurò una stagione di accordi e di compromessi.

 

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Alla caduta del fascismo la ’ndrangheta conquista una notorietà nazionale in seguito ad alcuni episodi che la proiettarono nella cronaca nazionale:

 

L’arrivo del giovane Marzano ebbe l’effetto di accelerare la repressione e la ricerca dei latitanti più prestigiosi e più pericolosi del momento. I paesi dell’Aspromonte. Tutta l’attenzione nazionale s’appuntò sull’Aspromonte e su una criminalità descritta come arretrata, miserabile, legata a riti ancestrali e concentrata su quella splendida montagna calabrese.

La vicenda Marzano mise in luce un aspetto inedito della ’ndrangheta che la differenziava dalle altre mafie: c’erano uomini che erano nello stesso tempo ’ndranghetisti e comunisti, una doppia militanza.

L’origine della doppia militanza aveva radici ben piantate nel periodo fascista quando, avendo il regime sciolto partiti e sindacati, la ’ndrangheta aveva rappresentato una forma di opposizione; dentro di essa convivevano sinceri antifascisti, lavoratori e persone di vario ceto sociale che avevano motivi di dissenso locale; e tutti convivevano con gli ’ndranghetisti senza farsene un problema.

La ’ndrangheta all’epoca era circondata da un alone romantico e i mafiosi erano rappresentati come ribelli, irriducibili contro i prepotenti e gli oppressori, capaci di lavare macchie d’onore e di ingiustizia. Molti giovani, insofferenti per la loro condizione, pensarono d’aver trovato la via del loro riscatto e di un futuro migliore aggregandosi agli uomini d’onore.

Poi ci furono gli anni del confino quando comunisti e ’ndranghetisti furono relegati assieme nelle carceri e nelle isole.

 

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L’ascesa della ‘Ndrangheta si perfezionò con la metà degli anni sessanta, e precisamente con l’avvio dei lavori per l’autostrada del sole nel tratto che collega Salerno a Reggio Calabria. Costruire l’Autostrada del sole significò superare un ritardo storico e unire la Calabria al resto dell’Italia. Ebbe un effetto positivo su molti aspetti della società calabrese.

Vi fu, però, anche un risvolto negativo. E infatti le grandi imprese del Nord vincitrici degli appalti contattarono i capibastone e con loro strinsero dei veri e propri accordi; in particolare stabilirono il pagamento della mazzetta in cambio della protezione dei cantieri, l’assunzione degli ‘ndranghetisti come guardiani, l’inserimento di ditte mafiose nei subappalti, la fornitura di materiale inerte e il trasporto dello stesso.

Si venne a costruire in quel periodo un vero e proprio modello di relazioni tra l’impresa del Nord e la ‘ndrangheta. Tutti i contraenti strinsero un patto di non belligeranza.

Quel modello sarà seguito negli anni successivi. Lo vedremo in funzione nella costruzione – mai avvenuta – del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro; nei lavori per la strada di collegamento tra lo Jonio e il Tirreno, nei lavori aeroportuali e d’industrializzazione a Lamezia terme; nella centrale a carbone dell’ENEL a Gioia Tauro, negli appalti per la base NATO a Crotone; nei lavori per l’ampliamento dell’Autostrada del sole.

Per tutte queste opere, anche in quelle che non furono realizzate, i lavori furono avviati e la ‘ndrangheta trovò sempre il modo di inserirsi e di lucrare grandi somme di denaro. La questione del ricavato economico era molto importante, ma ebbe il suo peso anche la possibilità di trarre prestigio perché lavoravano a fianco di grandi imprese nazionali.

            L’espansione dell’intervento economico dello Stato nel Mezzogiorno durerà lungo tutti gli anni settanta. In Calabria – dal cosiddetto pacchetto Colombo in poi – l’erogazione dei fondi statali è stata notevole, ma la sua concreta gestione è sfuggita al controllo dello Stato. Lo Stato ha iniziato a finanziare la ‘Ndrangheta e, seppure in via indiretta, contribuì alla sua crescita e alla sua potenza. Lo Stato ha erogato il denaro, ma la gestione dello stesso non è stata più, in larga parte, nelle sue mani.

 

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Gli anni sessanta e settanta sono il periodo ‘magico’ delle ‘ndrine perché si sprovincializzarono e si mossero in tutti i continenti alla ricerca di nuovi affari. La ‘ndrangheta non sarebbe più rimasta rinchiusa negli angusti territori d’origine.

Una svolta epocale, non c’è dubbio, che avrebbe proiettato la mafia calabrese in terre lontane e poco conosciute. La ’ndrangheta, con i collegamenti transnazionali intessuti nel corso dei decenni passati, ha funzionato come un’enorme calamita, attirando con la sua affidabilità criminale sia i mercanti di droga, sia coloro che vendevano armi o esplosivi. La droga, dapprima l’eroina e in seguito la cocaina, rappresentò l’affare più lucroso di tutta la storia della criminalità organizzata.

 

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I sequestri di persona sono uno dei reati più odiosi perché sono tenute prigioniere delle persone che sono private della libertà personale per un tempo interminabile, per settimane, per mesi, per anni.

Ciò determinava due effetti:

 

 

Era un rovesciamento cinico ed odioso della verità che induceva nella vittima dubbi, tormenti, domande inquietanti ed angosciate.

 

 

Cesare Casella rimase prigioniero 743 giorni, Carlo Celadon ancora di più, 831 giorni; un record ineguagliato.

Nella fase di avvio della lunga stagione dei sequestri, questi sono stati considerati come un problema inerente la sola Sardegna; dunque, non come una questione nazionale.

L’idea prevalente era che fossero reati residuali, una sorta di lascito del passato, di una eredità che l’Italia rurale consegnava all’Italia moderna.

La memoria storica riandava ai tempi dei sequestri durante il periodo del brigantaggio meridionale o a quello dell’antico e mai domato banditismo sardo.

I sequestri di persona sono stati davvero tanti.

Nel periodo che va dall’1 gennaio 1969 al 20 ottobre 1995 sono stati consumati in Italia 667 sequestri di persona a scopo di estorsione. A questi dati occorre aggiungere quelli avvenuti prima del 1969 e quelli con finalità diverse dall’estorsione, come i sequestri di persona i cui autori erano appartenenti a formazioni terroristiche di estrema sinistra e di estrema destra. 

Solo in quattro regioni non ci sono stati casi di sequestri di persona a scopo di estorsione: Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Molise, Basilicata. Per le altre regioni le cifre relative alle persone sequestrate sono le seguenti:

 

 

Lombardia  155

Piemonte 39

Toscana 26

Umbria 5

Calabria 128

Veneto 35

Puglia 21

Abruzzo 3

Sardegna 106

Campania 27

Emilia Romagna 17

Trentino 2

Lazio 64

Sicilia 27

Liguria 10

Marche 1

 

Ci furono anni molto duri, con decine di ostaggi nelle mani dei sequestratori:

 

Ogni sequestro ha una propria particolarità, è diverso da tutti gli altri.

 

Eppure, nonostante le tante diversità, è possibile raggruppare l’insieme dei sequestri italiani in quattro filoni fondamentali:

 

Sequestri di persona caratterizzavano la criminalità sarda. Le differenze con quelli della ‘ndrangheta

La mafia siciliana e la ‘Ndrangheta calabrese sono state le organizzazioni mafiose che di più si sono impegnate nel campo dei sequestri di persona.

La presenza della mafia siciliana in questo settore delle attività criminali è durata lo spazio di un mattino ed è stata diversa da quella della ‘Ndrangheta.

L’esportazione al Centro e al Nord dei sequestri è in gran parte opera dei mafiosi siciliani e calabresi.

Gli anni settanta provocheranno un autentico sconvolgimento nella geografia dei sequestri. I mafiosi siciliani, però, abbandonarono ben presto quell’attività lasciando il campo libero che da quel momento in poi sarà occupato quasi esclusivamente dai soli ‘ndranghetisti.

In Calabria la fase più intensa ebbe inizio a partire dagli anni settanta e da quel momento in poi il sequestro divenne parte di una attività della ‘Ndrangheta che, con il passare del tempo, si andò via via affinando fino ad assumere caratteristiche di una vera e propria industria in grado di mobilitare varie centinaia di uomini.

La permanenza degli ostaggi nelle mani dei rapitori ha avuto una scansione molto varia. Accanto alle lunghe, estenuanti prigionie, ci fu un numero abbastanza elevato di casi che durarono poche ore.

Su 101 sequestri calcolati nel periodo 1963-1984 bel 17 ebbero una durata oscillante tra un’ora e le ventiquattro ore. Erano sequestri apparentemente anomali, ma in realtà rispondevano ad una precisa strategia.

·         Rappresentavano l’estrema pressione sulla vittima per costringerla a pagare una tangente, una cifra relativamente bassa il cui pagamento veniva contrattato direttamente con l’interessato nelle poche ore di forzata custodia nelle mani dei rapitori.

 

·         In alcuni casi tali brevi carcerazioni avevano un obiettivo che andava ben al di là del pagamento in denaro del riscatto. La posta in gioco era altra: l’abbandono di un appalto, l’uscita da una trattativa per l’acquisto di un terreno.

 

In particolari occasioni il sequestro di persona sembra aver avuto una valenza più generale per la strategia della ‘Ndrangheta. Come ha detto il capo della polizia Vincenzo Parisi alla Commissione antimafia, ha funzionato come un “delitto esca”. Il particolare allarme sociale suscitato da alcuni rapimenti ha indotto le forze di polizia a concentrare tutte le energie nei luoghi attorno a determinati paesi che fanno da corona all’Aspromonte dove tradizionalmente venivano custoditi gli ostaggi.

Ciò sguarniva altre zone della Calabria, prevalentemente quelle costiere, dove era possibile operare in modo del tutto indisturbato; fu così che sulle coste calabresi furono sbarcate ingenti quantitativi di droga o rilevanti carichi di armi.

Non tutti i capibastone della ‘Ndrangheta erano d’accordo a fare sequestri di persona. Un uomo di notevole prestigio come Antonio Macrì di Siderno e un altro come Paolo De Stefano erano contrari.

Il contrasto tra capibastone verteva attorno all’opportunità e all’utilità di sequestrare donne e bambini. Sono stati molti i bambini calabresi e non calabresi ad essere rapiti. Forse questo è uno dei motivi che spiega l’opposizione di alcuni capibastone. L’intraprendenza delle nuove leve, il sostegno di altri capibastone della vecchia guardia, il miraggio di accumulare denaro rapidamente e senza eccessive difficoltà spazzarono via le resistenze di quanti si opponevano a quella nuova forma di criminalità.

Gli anni settanta registrarono un boom dei sequestri i cui autori non erano solo ‘ndranghetisti della provincia di Reggio Calabria, ma anche quelli della provincia di Catanzaro, in modo particolare della zona di Lamezia Terme.

I sequestri di persona funzionarono come una sorta di accumulazione primitiva del capitale mafioso. Servirono per finanziare varie attività della ‘Ndrangheta. I proventi dei riscatti furono impiegati per acquistare autocarri, camion, ruspe, pale meccaniche, strutture per impiantare società nel settore dell’edilizia privata per poter partecipare agli appalti pubblici, piccoli o grandi che fossero, a cominciare dai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro. Infine, i soldi servirono per acquistare droga.

Il trasferimento degli ostaggi nelle zone della Locride e in particolare nell’area dell’Aspromonte dipendeva da una serie di considerazioni. C’era un problema di consenso: una parte dei soldi finiva nella mani di chi custodiva gli ostaggi che, oltre ai latitanti, erano pastori e gente del luogo, spesso dei giovani.

Nel corso degli anni continuarono ad operare ancora altre ‘ndrine, ma sempre di più i responsabili dei sequestri di persona furono individuati negli ‘ndranghetisti appartenenti alle ‘ndrine di Platì, San Luca ed Africo le quali raggiunsero un notevole grado di efficienza e di specializzazione.

Tenere per lungo tempo degli ostaggi in quelle zone senza che lo Stato fosse in grado di liberarli conferiva prestigio alle organizzazioni, dava un senso di potenza, di sfida, creava una sorta di extraterritorialità. In quelle zone a comandare non era lo Stato, ma un potere diverso, alternativo.

Si potrebbe parlare di un problema di immagine, della necessità che aveva la ‘Ndrangheta di comunicare l’idea dell’inviolabilità del proprio territorio nei confronti dello Stato che appariva impotente.

Nonostante l’enorme clamore suscitato in tutta Italia da Angela Casella venuta in Calabria a reclamare la liberazione di suo figlio Cesare e nonostante lo spettacolare dispiegamento delle forze antisequestro, il territorio dove erano custoditi gli ostaggi continuava a rimanere sotto il controllo di quelle ‘ndrine. Casella fu liberato solo quando fu pagato il riscatto.

Il sequestro di persona mostra l’evoluzione della ‘Ndrangheta e la sua capacità di adattarsi, di muoversi e di creare nuove attività criminali in ambienti, come le regioni del Centro e del Nord Italia, e, soprattutto, di inserirsi in meccanismi, come quelli del riciclaggio e del reimpiego del denaro, che certo non facevano parte del bagaglio culturale o di esperienza del pastore o del contadino calabrese

Questi erano sicuramente in grado di custodire un ostaggio e di garantire che non scappasse, ma non potevano certo organizzare tecniche sofisticate per riciclare il denaro. Per fare ciò era necessario un livello superiore di intervento. Allarme sociale e insicurezza personale hanno accompagnato la lunga stagione dei sequestri di persona. Ad essere insicure erano prima di tutto le potenziali vittime che appartenevano a determinate categorie sociali, al Sud come al Nord.

 

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Gli avvenimenti che si sviluppano tra il 1969 e il 1970 sono molto importanti perché segnano un tentativo di stabilire un organico rapporto politico tra elementi dell’estrema destra fascista o eversiva con Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta.

 

In questo periodo ci sono tre fatti importanti:

  1. la riunione della ‘ndrangheta sul pianoro del Montalto, nel cuore dell’Aspromonte;
  2. il tentativo di golpe del principe Junio Valerio Borghese, già comandante militare durante la Repubblica di Salò, in particolare comandante della Decima Mas;
  3. moti di Reggio Calabria che avevano come parola d’ordine: boia chi molla per Reggio Capoluogo.

 

Il 26 ottobre 1969 sulla radura del Montalto si riunirono 130 ‘ndranghetisti che, a cerchio formato come voleva una antica consuetudine, ascoltavano Giuseppe Zappia, vecchio capobastone di San Martino di Taurianova, che presiedeva la riunione il quale, ad un certo punto, disse: “qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta: si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va”.

Per antica tradizione, la riunione annuale della ‘ndrangheta si svolgeva durante la festa della Madonna di Polsi ai primi di settembre. Perché, invece, quell’anno si tenne a ottobre inoltrato?

Cosa si proponevano di fare gli ‘ndranghetisti in quella riunione? Gli obiettivi secondo alcuni erano:

 

 

Non tutti erano stati d’accordo a convocare quella riunione; certo non lo era stato Mico Tripodo il cui potere a Reggio Calabria era insidiato dalla potente famiglia di Paolo De Stefano. Era una lotta per il potere nella città dello stretto, ma non era il classico conflitto che si verificava tra uomini di mafia in tutte le regioni dove c’erano strutture mafiose. Era uno scontro interno che aveva natura schiettamente politica perché in quel periodo era messa in discussione la collocazione politica della ‘ndrangheta dell’intera provincia di Reggio Calabria in relazione a fatti nazionali e a fatti locali di valenza nazionale.

La riunione fu interrotta e quindi non si arrivò ad alcuna determinazione circa l’auspicio di unificare le varie ‘ndrine. Ad intervenire sul Montalto c’erano pochi poliziotti e pochi carabinieri, e dunque molti dei partecipanti non furono né identificati né catturati.

Il questore Santillo si giustificò dicendo che non era stato possibile garantire più personale perché il giorno precedente i poliziotti erano stati impegnati in un servizio d’ordine pubblico a Reggio Calabria dove aveva parlato il principe Borghese; si temevano incidenti perché il suo comizio era stato prima autorizzato e poi vietato.

Il riferimento a Borghese ci introduce alla questione vera di quella riunione perché, a quanto è stato possibile accertare, quella riunione fu convocata proprio quel giorno – in concomitanza con il comizio del principe nero. A spingere in quella direzione erano i De Stefano di Reggio Calabria, i Nirta di San Luca, i Piromalli di Gioia Tauro.

 Famiglie sicuramente importanti che però, in quel periodo, non rappresentavano la maggioranza della ‘ndrangheta che era rappresentata da altre famiglie, altrettanto importanti, le quali erano convinte che non fosse opportuno – anzi, non fosse nel loro interesse – staccarsi dai fruttuosi rapporti che avevano con i partiti di governo, in modo particolare con settori significativi della DC.

Chi si opponeva a quella svolta pensò bene di impedirla facendo fallire la riunione. Il modo per farla fallire fu il ricorso al classico, ed antico, sistema della soffiata. Santillo fu informato della riunione e forse sottovalutò la portata e l’importanza di quell’evento oppure fu informato troppo tardi e non ebbe il tempo di chiedere rinforzi al di  fuori della Calabria.

Comunque non ignorò l’avvertimento e mandò uomini che furono in grado di non far concludere quel raduno anche se non individuarono e tanto meno arrestarono tutti i partecipanti – mafiosi e non mafiosi.

 

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Tra l’estate e l’inverno del 1970 due fatti importanti riproposero il problema della collocazione della ‘Ndrangheta: i moti di Reggio Calabria e il tentato golpe del principe Borghese.

Durante i moti di Reggio Calabria il dato di novità assoluta era la partecipazione di uomini della ‘ndrangheta ai moti che furono egemonizzati dal MSI che certo non nascondeva la sua filiazione dal passato regime fascista.

Il tentativo che fu fatto fu quello di schierare l’intera ‘ndrangheta su questo versante, tentativo che ebbe come protagonisti i De Stefano anche in funzione antitripodiana nel senso che loro speravano di rafforzarsi a danno del vecchio Tripodo. I De Stefano erano gli uomini che avevano una coerente visione ideologica del problema.

A riprova di ciò vi è quanto accadde nell’ottobre del 1978. Franco Freda, un veneto che apparteneva alla galassia neofascista che si collocava all’estrema destra rispetto al MSI, imputato a Catanzaro per la strage di piazza Fontana, decise nell’ottobre del 1978, di darsi latitante. La sua latitanza finì dieci mesi dopo, nell’agosto del 1979, in Costarica.

Dove era stato in quel periodo? Dove aveva trascorso la sua latitanza? Era stato nelle mani di Filippo Barreca, ‘ndranghetista appartenente alla famiglia De Stefano. Barreca lo custodì e lo aiutò ad espatriare; poi informò la polizia di quanto era accaduto e fornì le indicazioni per catturarlo.

Nel comitato d’azione per Reggio Capoluogo accanto ad uomini della destra vi erano uomini della ‘ndrangheta. Politici di destra e ‘ndrangheta erano a braccetto, anche se non è dato di sapere se gli uomini politici fossero consapevoli dell’appartenenza mafiosa degli altri componenti del comitato.

Nella sera del 7 e 8 dicembre 1970 si fece il tentativo di golpe da parte di Valerio Borghese che fallì all’ultimo momento, proprio mentre il meccanismo era già avviato perché chi doveva fornire una copertura politica si tirò indietro costringendo lo stesso Borghese ad una brusca retromarcia. Si concludeva così, in maniera ingloriosa, l’operazione che il gergo era stata definita Tora-Tora.

Il tentativo di Borghese si inquadrava nella stagione della strategia della tensione inaugurata a Milano il 12 dicembre 1969 con la strage di piazza Fontana quando una bomba collocata nella Banca nazionale dell’agricoltura provocò la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88.

Contemporaneamente a Roma scoppiavano una bomba a via Veneto provocando 16 feriti e un’altra all’altare della patria.

Questo è il quadro generale, ma a guardar meglio si scopre che al progetto erano state interessate le organizzazioni mafiose della ‘ndrangheta e di Cosa nostra.

Vincenzo Vinciguerra, giovane responsabile di Ordine nuovo del Friuli, reo confesso e condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, raccontò la sua verità sul golpe Borghese: “Quando fu tentato il golpe Borghese, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, un gruppo di uomini, circa 1.500 calabresi, venne mobilitato, armato e tenuto a disposizione per raggiungere determinati obbiettivi che poi vennero abbandonati a seguito di un contrordine. I 1.500 furono ‘convocati’ da uno o due boss della ‘ndrangheta. Preferisco non dire da chi furono attivati”.

Anche Cosa nostra fu attivata per partecipare al golpe, ne hanno parlato Tommaso Buscetta e Antonino Calderone i quali dissero che fu la massoneria a chiedere la presenza della mafia siciliana.

Cosa Nostra negoziò la sua partecipazione ottenendo in cambio la promessa che sarebbero stati rivisti i processi a carico di Luciano Liggio, Natale Rimi e Totò Riina. Ma la trattativa non andò in porto anche perché i mafiosi furono subito sospettosi dal momento che la loro partecipazione doveva avvenire con una sorta di inquadramento militare: dovevano essere riconoscibili da un bracciale di riconoscimento al braccio.

La vicenda del golpe mise in rilievo la diversità di comportamento tra Cosa nostra e la ‘Ndrangheta.

Cosa nostra era disposta ad aderire in cambio di una contropartita, la sua era una partecipazione mercenaria, venale. Non risulta che la ‘Ndrangheta abbia richiesto qualcosa in cambio. La partecipazione della ‘ndrangheta era ideologica perché l’intreccio tra eversione golpista e mondo della ‘ndrangheta era organico, addirittura concentrato nelle stesse persone fisiche.

Fallito il golpe Borghese e conclusosi il periodo dei Boia chi molla, la ‘ndrangheta rientrò nell’alveo governativo ritessendo i rapporti, che non aveva perso, con settori del potere politico dell’area di governo.

 

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Le guerre entro le varie organizzazioni mafiose: una grande ristrutturazione armata. Gli anni settanta sono un periodo di grande interesse perché in quegli anni si verificarono mutamenti profondi dentro tutte le grandi organizzazioni mafiose. Questo è un periodo contrassegnato dal fenomeno del terrorismo che si prolungherà fino a poco oltre la metà degli anni ottanta.

Il terrorismo italiano ha avuto due matrici, una di sinistra e una di destra. Entrambi hanno rappresentato un pericolo molto serio per la democrazia italiana. Del primo, quello rosso, è nota la storia nei suoi passaggi fondamentali; del secondo, quello nero, sappiamo di meno perché rimangono ancora molti lati oscuri.

Il terrorismo ha funzionato come una sorta di calamita dell’opinione pubblica perché ha attirato l’attenzione di tutti distogliendola dai fatti di mafia che pure erano, come vedremo, molti importanti. In questo quadro, la mafia era un problema secondario, anzi lo erano tutte le manifestazioni mafiose.

A metà degli anni settanta si verificò la grande ristrutturazione armata della ‘ndrangheta.

Il 24 novembre 1974. Roof Garden di Reggio Calabria. Due killer entrarono in azione e spararono contro Giovanni e Giorgio De Stefano.

Il primo morì, il secondo rimase ferito. Questi troverà la morte tre anni dopo, nel settembre 1977, ad Acqua del Gallo in territorio di S. Stefano d’Aspromonte. E’ l’esplosione dello scontro tra i De Stefano e i Tripodo.

Il 20 gennaio del 1975 morì a Siderno Antonio Macrì, nell’agosto del 1976 Mico Tripodo venne ucciso nel carcere di Poggioreale da due camorristi cutoliani.

Tra il ’74 e il ’77 ci furono 233 omicidi, alla fine del decennio i morti saranno più di 1.000. La guerra di ‘ndrangheta si concluse con la vittoria di Paolo De Stefano e del suo sistema di alleanze. La guerra non è lo scoppio dell’irrazionalità o della cieca violenza omicida, ma risponde a precise logiche di potere, economiche e di espansione territoriale.

Tra il 1974 e il 1975 ci furono una serie di lavori importanti: il quinto centro siderurgico e il raddoppio della linea ferrata Reggio – Villa San Giovanni.

Promossa, con grande abilità e lungimiranza mafiosa, dai Piromalli si volse una riunione alla quale parteciparono le famiglie più influenti della provincia di Reggio Calabria. Per la città di Reggio Calabria parteciparono Mico Tripodo e i fratelli Paolo e Giorgio De Stefano.

 

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Massoneria. A metà degli anni settanta si verificò l’incontro tra la massoneria e le organizzazioni mafiose di Cosa nostra e della ‘ndrangheta. La massoneria che entra in contatto con la mafia è convenzionalmente definita massoneria deviata. La massoneria è un’associazione a carattere iniziatico le cui origini, secondo gli stessi massoni, risalgono ai templari, ai crociati, ai pitagorici, all’epoca piena di misteri dell’antichità classica. E’ strutturata come un insieme di cellule, dette Logge, ed è guidata da un governo elettivo al cui vertice c’è il Gran Maestro.

La storia della massoneria è lunga e complessa; attraversa alcuni secoli e varie epoche storiche con alterne vicende, da quelle nobili (Risorgimento) a quelle meno nobili legate alle attività di un massone come Michele Sindona o di un uomo come Licio Gelli inventore della P 2 che era una loggia segreta e riservata, che fu sciolta dopo che la Commissione parlamentare appositamente istituita accertò che le sue erano finalità criminali, illegali e persino antidemocratiche.

La P2 è stato il più organico tentativo di condizionare e di modificare l’assetto democratico italiano oltre che di creare una nuova classe dirigente.

Che ci siano stati rapporti tra mafia e P2 è un dato storicamente accertato, anche se ancora oggi manca una completa ed esauriente ricostruzione storica. Sciolta la P2, sono rimasti in attività gli iscritti alla P2, i piduisti, e ancora oggi essi sono presenti in alcuni partiti e nelle istituzioni.

Non è la storia della massoneria che ci interessa, quanto il rapporto che si stabilì tra alcune logge massoniche e strutture mafiose di Cosa nostra e della ‘ndrangheta. C’è un dato che è interessante: il periodo – metà degli anni settanta – che vide l’ingresso in massoneria di uomini di Cosa nostra e di uomini della ‘ndrangheta. E’ una coincidenza temporale o è una scelta compiuta a livello nazionale da massoni deviati? Michele Greco manifestò il suo dissenso con un argomento di grande interesse; disse che “chi aveva giurato in Cosa nostra non era corretto che giurasse alla massoneria”.

Né, a quanto pare, Michele Greco era disposto a prestare un giuramento fittizio quale è quello che i mafiosi usano fare durante il rito massonico.

 

Due modi diversi di concepire Cosa nostra:

 

La stessa divisione si determinò nella ‘ndrangheta negli identici termini che abbiamo visto tra Bontate e Greco. La guerra esplosa in quel periodo nella ‘ndrangheta non a caso eliminò proprio quei capibastone che erano contrari all’ingresso nella massoneria. Anche se non fu mai detto in maniera esplicita, probabilmente questa particolare eliminazione faceva parte degli obiettivi di chi aveva scatenato la guerra.

Anche sul versante massonico si registrarono dissensi ed opposizioni come quella dell’avvocato generale dello Stato Francesco Ferlaino che, essendo un massone com’ebbe a dire il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro, si opponeva alla degenerazione della massoneria in una struttura mafiosa e criminale; questa presa di posizione è stata la causa della sua morte nel 1975 a Lamezia Terme. L’omicidio è rimasto un caso irrisolto e non furono trovati gli assassini né furono accertate la sua appartenenza alla massoneria o le cause di quella eliminazione.

Cosa nostra e ‘ndrangheta, nonostante il parere contrario di autorevoli e prestigiosi mafiosi, decisero di entrare nelle logge massoniche. Ma la loro decisione ebbe modalità ed esiti diversi. Cosa nostra decise di far partecipare solo due membri di ogni famiglia, la ‘ndrangheta decise la partecipazione degli ‘ndranghetisti senza fissare un tetto al numero dei partecipanti.

Nella ‘ndrangheta, inoltre, tale decisione ebbe conseguenze sul pianto organizzativo.

Si decise di dar vita alla Santa, cioè ad una struttura riservata che prevedeva nuove regole, nuovi gradi, – trequartino, vangelo, associazione – e quindi nuovi capi e nuove gerarchie.

La Santa veniva formata in nome di Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe La Marmora; tutti erano massoni e gli ultimi due erano generali. Al posto dei vecchi cavalieri spagnoli o di santi e madonne furono scelti uomini che erano tutti massoni, e gli ultimi due addirittura erano generali.

Osso, Mastrosso e Carcagnosso non uscirono di scena, ma furono costretti a convivere con i nuovi arrivati.

Gli appartenenti si definivano santisti e non erano più vincolati al massimo segreto come un tempo, ma potevano tradire i picciotti di grado inferiore pur di salvare la struttura segreta della Santa. Probabilmente questo era un modo per legalizzare la pratica dei confidenti che caratterizzava i capibastone calabresi.

Dunque, una struttura nella struttura, uno strumento dì élite nelle mani una élite di capi che governava la ‘ndrangheta allargando, con nuovi gradi e nuove gerarchie, l’area delle persone interessate e coinvolte. Una specie di ceto intermedio con funzioni dirigenti e di primo piano. I santisti erano autorizzati a far parte delle logge massoniche venendo così in contatto con figure sociali la cui frequentazione era prima proibita.

I mafiosi decisero di far parte delle logge massoniche perché in questo modo potevano avere rapporti con magistrati, forze dell’ordine, imprenditori, banchieri, finanzieri, professionisti vari che era impossibile frequentare alla luce del sole. Ciò era invece possibile nel segreto e nella riservatezza di una loggia.

 

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La lunga stagione dei rapporti con la Chiesa.

Fino a un paio di decenni fa gli studiosi avevano evitato di affrontare il problema delle relazioni intercorse tra le organizzazioni mafiose e la Chiesa, forse per la complessità dell’impresa o forse perché la storia dei rapporti tra mafia e Chiesa è rimasta per lungo tempo poco studiata.

Considerando il lungo periodo, dalle origini a oggi, si potrebbe dividere tali rapporti in tre fasi:

il tempo dell’indifferenza o dell’ignoranza,

il tempo del silenzio,

il tempo della parola.

 

Se la caratteristica delle prime due fasi era stata la pluridecennale convivenza o, la «coabitazione senza conflitti» con la mafia, la terza fase appare improntata a una rottura e a una messa in discussione della condotta precedente, anche se forme di coabitazione non sono del tutto scomparse, anzi riemergono nei luoghi più impensati.

Preti e laici del Concilio sottolineavano la necessità di una Chiesa profetica in grado di superare la prassi del passato, di guardare oltre la quotidianità e la contingenza.

Il rapporto tra la mafia siciliana e la Chiesa è stato il tema dominante, quello più analizzato. Il rapporto è sicuramente antico e duraturo se perfino prima dell’unità un documento di parte borbonica indicava «in preti e frati, veri e propri uomini di mafia».

Dobbiamo abituarci a trovare di frequente un’evidente contraddizione che investirà in pieno i mafiosi, ma della quale non pare si siano mai eccessivamente curati: i rituali, come sappiamo, vietavano la partecipazione formale a qualsiasi organizzazione mafiosa degli uomini in abito talare. Eppure, nonostante questo divieto formale, un numero imprecisato di appartenenti al clero ha partecipato alla vita e alle attività di strutture mafiose, qualcuno è stato ritualmente affiliato e qualche altro ha addirittura dato vita a una cosca mafiosa.

Dobbiamo abituarci anche a osservare come ci sia stata sempre una frequente strumentalizzazione della religione cattolica e dei suoi simboli.

Madonna di Polsi nel comune di San Luca è l’esempio più clamoroso. La riunione della ’ndrangheta durante la festa di Polsi era una “antica consuetudine” che i capibastone hanno sempre voluto tenere in vita per dare agli associati il senso di una tradizione da seguire e da rispettare.

Polsi è la “mamma” della ’ndrangheta, il luogo che appartiene al suo mito più eccelso e ha attirato l’attenzione degli studiosi.

Giuseppe Alongi era un poliziotto e scrisse sui camorristi: “Il sentimento religioso è generale tra loro, ma superstizioso, sfarzoso nel culto. I vecchi conservavano i pregiudizi di miracoli, spiriti buoni e mali, iettature, elemosine per guadagnarsi impunità, ecc., portano costantemente in dosso scapolari ed immagini sacre, specialmente della Madonna del Carmine”.

Il dato più interessante è che diverse fonti ottocentesche segnalavano «la presenza di sacerdoti in associazioni di stampo mafioso» e nel contempo – ecco una indubbia particolarità – «la forma religiosa che spesso assumevano le associazioni a delinquere». Secondo Giuseppe Alongi, in Sicilia perfino le «confraternite religiose non sono nel più dei casi che veri e proprii gruppi di maffia cointeressata».

C’era dell’esagerazione, non c’è dubbio; ma non era tutto inventato.

Il rapporto con la religione mostra la grande ambiguità dei mafiosi, la straordinaria promiscuità tra termini religiosi e termini mafiosi. 

Ci sono molte spiegazioni che danno conto di questa particolare promiscuità. Una è legata al fatto che il mafioso di norma ha sempre cercato di non contrapporsi al sentire popolare, anzi ha fatto di tutto per aderirvi pienamente.

La religione cattolica è indubbiamente la religione del popolo, e ciò spiega questo ossessivo ricorso alla simbologia e alla terminologia cattolica, il prendere a prestito e a testimoni delle loro nefandezze e dei loro rituali i santi della Chiesa cattolica o i santuari come accade agli ’ndranghetisti per quello della Madonna di Polsi o ai camorristi per quello della Madonna di Montevergine.

La «compromissione tra religiosi e mafiosi» è un dato di fatto.

Il problema è di capire come mai ebbe una così lunga durata. È nella concreta vicenda storica che troviamo risposta al problema.

Dobbiamo partire da una domanda fondamentale. Come era formato il clero a metà Ottocento. Chi erano i preti? Chi si faceva sacerdote? 

Strategie familiari di diversificazione delle opportunità di mobilità sociale imponevano di avviare uno o più figli alla carriera ecclesiastica.

La storia della Chiesa è piena di figli cadetti che erano invogliati a prendere i voti per non intaccare il patrimonio familiare oppure di ragazzi turbolenti indirizzati verso il seminario perché vi avrebbero trovato rigore e disciplina.

Erano, però, i figli di povera gente a essere sospinti su quella strada perché era un percorso che avrebbe assicurato loro un futuro sicuro e molto dignitoso, e avrebbe permesso di dare un aiuto agli altri familiari che avrebbero acquistato prestigio e autorevolezza nell’ambito del loro paese d’origine.

Capitava anche che nelle famiglie un altro componente diventasse mafioso. L’intreccio parentale, familiare, condizionava i comportamenti, molto di più di quanto non si immagini, del basso clero che era la figura più delicata, quella più esposta.

Uno di questi fu Agostino Coppola che si fece prete per volontà del padre Salvatore, “vecchio capomafia di Partinico”, imparentato con il boss Frank “tre dita” Coppola. Don Agostino Coppola era noto per avere unito in matrimonio Salvatore Riina, detto Totò, con Ninetta Bagarella quando il capomafia di Corleone era latitante. Nei primi anni Settanta fu coinvolto, assieme a Luciano Leggio, meglio noto come Liggio, in alcuni sequestri di persona che si erano consumati a Vigevano e a Torino e condannato a 14 anni di reclusione.

C’era poi il caso di Calogero Vizzini, capomafia di Villalba, che aveva due fratelli preti, uno zio parroco e altri due zii vescovi.

Paolo Pezzino ha indicato le radici della compromissione tra religiosi e mafia nel ruolo storico svolto dalla Chiesa, in particolare nel fatto che “come istituzione” ha dato sempre voce ai “valori più tradizionali della società” e ha individuato l’importanza di quella subcultura che ha giustificato il rifiuto dell’autorità statale e che in Sicilia ha nutrito lo straordinario sviluppo della violenza. Chiesa e mafia risultavano alleate nella conservazione politica e sociale.

Poi ci fu una questione molto importante che prese piede all’indomani dell’Unità. La Chiesa pensò di avere dei nemici ideologici: liberalismo e comunismo.

Per una fase storica, che durò per tutto il periodo liberale e si concluse con i patti lateranensi del 1929 la Chiesa si sentì estranea allo Stato e da esso emarginata. 

La percezione della pericolosità del fenomeno mafioso era nei primi decenni unitari molto debole, per non dire inesistente.  Nessuno tra i religiosi si poneva il problema se esistesse o meno una contraddizione tra l’appartenenza mafiosa e l’essere prete.

Il prete era figlio del suo tempo e della sua terra, e ne viveva in pieno tutte le contraddizioni, compresa quella della difficoltà a denunciare apertamente collusioni e interessi locali molto potenti.

Il mafioso rispettava il prete, ma era pronto a rivoltarglisi contro se solo avesse messo in pericolo i suoi interessi. Perciò c’era un «clima di paura per le possibili rappresaglie contro il prete o i suoi familiari» e, in ogni caso, «rendeva comunque compromesso il prete se la violenza veniva proprio dalla sua famiglia». Ma, più in generale, alcuni preti manifestavano i segni della loro deferenza nei confronti dei capimafia locali.

La Chiesa difendeva i suoi interessi materiali che non erano toccati dai mafiosi, interessi che, anzi, erano da questi rispettati e protetti.  Mafia e Chiesa erano presenti nello stesso territorio; due poteri, l’uno di fronte all’altro. La mafia non era contro la Chiesa e «anche la Chiesa non aveva alcun interesse a mettersi contro la mafia».

Eppure, non tutti i preti si comportavano allo stesso modo perché, come ha osservato Umberto Santino, nonostante la “lunga convivenza con la mafia”, per alcuni preti è provato “un impegno antimafioso” sin dai primi anni del Novecento.

Tra di  loro è da annoverare un giovane prete originario di Caltagirone, Luigi Sturzo, che scrisse un dramma teatrale dal titolo molto esplicito: La mafia. Scrisse anche su un giornale locale un commento sull’andamento del processo contro l’onorevole Palizzolo dai toni diametralmente opposti a quelli usati dai sicilianisti. Non sono pochi i casi di preti non acquiescenti, e fanno parte degli innumerevoli esempi che testimoniano come la Chiesa non sia mai stata un monolite, ma un organismo molto complesso, pieno di contraddizioni a volte inspiegabili, a volte drammatiche.

Tra coloro che non volevano sentire parlare di mafia vi era il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, d’origini mantovane. Non volle parlarne neanche dopo quello che era accaduto con la strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 quando un’automobile imbottita di tritolo era saltata in aria provocando la morte di cinque carabinieri e di due militari.

 Dal Vaticano partì una missiva contenente la pressante preghiera «di vedere se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – di istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della cosiddetta mafia da quella religiosa e per conformare questa ad una più coerente osservanza dei princìpi cristiani».

La questione posta dalla segreteria di Stato vaticana era della massima importanza e andava ben al di là della deplorazione per i morti di Ciaculli; essa sollevava un problema più generale del rapporto tra mentalità mafiosa e mentalità religiosa. La segreteria di Stato avvertiva che c’era una contraddizione seria che avrebbe potuto compromettere la Chiesa. Si preoccupava, cercava di capire.

Il cardinale non si aspettava quella richiesta e, molto contrariato, diede una risposta piccata proprio sul punto più importante posto dal Vaticano. «Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa, messa in giro specialmente fuori dalla Sicilia dai socialcomunisti i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia».

Era proprio l’uso della parola mafia fatto nella missiva vaticana che non convinceva il cardinale il quale, nella sua risposta, aggiungeva una considerazione più generale proprio sulla mafia: «Un alto funzionario della polizia, ben addentro nelle segrete cose ed abilissimo, mi proponeva il dubbio: che cosa si dovesse intendere per mafia, e rispondeva egli stesso che trattasi di delinquenza comune e non di associazioni a largo raggio».

Non contento di quanto aveva scritto aggiunse, operando un evidente falso storico, che «in nessun caso è gente che frequenta la Chiesa. In tanti anni di sacro ministero non ho mai potuto rilevare la più piccola relazione del clero con i delinquenti».

In quella lettera pastorale distribuita la domenica della Palme del 1964 e diventata ben presto famosa per la polemica in essa contenuta contro una “congiura” i cui protagonisti prncipali erano il romanzo Il Gattopardo e il sociologo triestino Danilo Dolci accusati unitamente alla mafia di diffamare la Sicilia agli occhi del mondo c’era scritto: «Una propaganda spietata, mediante la stampa, la radio, la televisione ha finito per far credere in Italia e all’estero che di mafia è infetta largamente l’isola e che i siciliani, in generale, sono mafiosi, giungendo così a denigrare una parte cospicua della nostra patria».

Per comprendere il comportamento di una personalità complessa come quella di Ruffini che ha avuto un ruolo rilevante nella Chiesa siciliana per il suo magistero durato un lungo ventennio, dobbiamo collocare la sua azione dentro il contesto della Guerra Fredda, aspra e a tratti ruvida.

Ruffini fu espressione delle posizioni più intransigenti, più retrive e più dogmatiche nei confronti del comunismo che considerava il male assoluto e il nemico da distruggere. Partecipò attivamente al variegato blocco anticomunista che includeva l’apporto della mafia che il cardinale non sentiva in contraddizione con gli insegnamenti della Chiesa.

La sua era una convinzione netta: il compito dei cattolici era quello di intervenire attivamente nello scontro politico con tutte le conseguenze del caso. Il suo anticomunismo lo aveva portato ad auspicare la messa al bando del Pci. E nei confronti della dc il cardinale aveva cercato di ostacolare l’azione del segretario nazionale del partito Amintore Fanfani il quale aveva avviato il processo di secolarizzazione del partito.

Non era la sola chiesa siciliana del cardinale Ruffini a comportarsi in questo modo. Ad esempio era frequente che Calabria i latitanti si sposassero con i documenti a posto. Uno dei Barbaro, mentre era latitante si era sposato in Chiesa a Milano. Lo aveva potuto fare perché le pubblicazioni erano state affisse nel comune di Platì e il «compromesso di matrimonio» era stato fatto davanti all’ufficiale di stato civile. Nessuno ha pensato di informare le forze di polizia. Assessori del comune erano parenti degli sposi.

Non era certo il primo caso di matrimonio di un latitante con le carte in regola. Altri ve n’erano stati. Il più famoso fu quello di Saverio Mammoliti, don Saro, con Maria Caterina Nava che all’epoca aveva diciotto anni. Fu un «matrimonio di coscienza», scrissero i carabinieri, celebrato nella chiesa di Castellace di Oppido Mamertina il 23 agosto del 1976 quando don Saro era latitante.

E non fu neanche un matrimonio clandestino perché ci parteciparono in tanti, uno «stuolo di macchine», sotto la protezione di «sentinelle armate» che assicurarono la protezione degli sposi e degli invitati. La chiesetta dove fu celebrato il rito era a due passi dalla stazione dei carabinieri.

Caterina Condello, figlia del ben più noto Pasquale. Il suo matrimonio è stato allietato da una benedizione del Papa arrivata con un telegramma. Il fatto, che ha creato disagio in alcuni ambienti cattolici, è stato reso noto perché ne è stata data notizia durante la celebrazione in Chiesa.

 

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Il tempo della parola, tra prudenze e cautele.

Venne, però, anche il tempo della parola. Consumata, o quasi, la lunga stagione della convivenza e del silenzio, si cominciava e denunciare il male della mafia; ma non sempre la denuncia convinceva tutti.

Il punto di svolta arrivò con l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo in seguito all’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa del 3 settembre 1982.  Le parole pronunciate ebbero una grande risonanza «Dum Romae consolitur… Saguntum expugnatur, mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera Palermo».

Nel 1975 e nel 1980 dalla Calabria arrivarono varie prese di posizione della Conferenza episcopale che rompevano il muro del silenzio.

Conferenza episcopale della Calabria, L’episcopato calabrese contro la mafia, disonorante piaga della società, 1975; id., “Educare e formare le coscienze”, «Il Regno/Documenti», xxv, 1980, 412.

Nella primavera del 1981 don Italo Calabrò consegnò al vescovo di Reggio Calabria una nota dettagliata sulla ’ndrangheta di San Giovanni Sambatello, piccola frazione di Reggio Calabria che era stata dominata da Domenico Tripodo.

L’analisi sulla natura della mafia elaborato in quegli anni da parte della gerarchia non si discostava ancora dalla «tradizionale lettura che ne faceva l’episcopato degli anni ’50 e ’60». Non tutto, però, nonostante le apparenze, era uguale al passato. “La novità rilevante” stava nell’avere parlato «più spesso e con più incisività e preoccupazione della mafia».

L’atteggiamento della Chiesa nei confronti del fenomeno mafioso ha ricalcato quello generale della società. «Quando, infatti, la società civile negava a tale fenomeno la specificità criminale, anche la Chiesa faceva altrettanto, e proclamava che la mafia era inesistente e che si trattava di criminalità presente in Sicilia, allo stesso modo che in altre regioni d’Italia.

La Chiesa si uniformava a un andazzo che era presente nella società e nella rappresentazione che della mafia davano le autorità ufficiali e la stessa mafia. A volte questo atteggiamento poteva apparire un comodo alibi per non assumere posizione, per deresponsabilizzarsi.

Cominciavano a essere pronunciate parole molto forti nei confronti degli ’ndranghetisti. Il 2 agosto 1984 a Lazzaro, frazione marina di Motta San Giovanni, i festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie furono sospesi.

Don Italo Calabrò spiegò ai parrocchiani ch’era stato rapito Vincenzo Diano, un bambino di 10 anni. Nei confronti dei sequestratori disse: «io conosco la deformazione che in seno alla mafia è stata data proprio a questa parola “uomo”: i mafiosi si ritengono uomini, e addirittura – la parola diventa sacrilega – “uomini d’onore”. Se c’è qualcuno che non è un uomo è invece il mafioso, è se c’è qualcuno che non ha l’onore è il mafioso, i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore».

Gli anni Ottanta furono decisivi. Via via che il tempo passava si intensificarono le prese di distanza. Il decennio si era aperto con i corleonesi oramai avviati a percorrere fino in fondo la stagione dei delitti eccellenti e si concluse con il crollo del muro di Berlino, il disfacimento dell’Urss e del suo sistema di alleanze internazionale.

Il nemico ideologico comunista non esisteva più. La Chiesa si sentiva più libera. E d’altra parte non c’era più alcun alibi.

Tra il 1990 e il 1991 in Calabria si cominciavano ad avvertire segni molto chiari di una situazione che era mutata. Iniziò una vera e propria svolta operata dalla Chiesa calabrese «nel modo di rapportarsi al fenomeno mafioso».

Il segno del mutare dei tempi era dato dal fatto che Monsignor Antonio Ciliberti, vescovo di Locri, era costretto a girare con una scorta e un’auto blindata mentre altri preti erano oggetto di minacce, violenze, intimidazioni. Secondo «Famiglia cristiana» nei mesi a ridosso del 1990 erano stati “avvisati” cinque preti reggini, era stata bruciata l’auto ad altri tre e due sacerdoti erano stati minacciati telefonicamente.

 

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Da lì a poco il tradizionale partito di riferimento del mondo cattolico e della Chiesa, la Democrazia Cristiana, si sarebbe sciolto travolto dalle inchieste della magistratura su Tangentopoli. E anche ciò avrà il suo peso nel determinare il comportamento della Chiesa, visti i rapporti pluridecennali con la DC.

Alcuni fatti impressero un ulteriore salto nella consapevolezza del mondo cattolico del pericolo rappresentato dalla mafia

 

 

Nino Fasullo si chiedeva: «Come è potuto accadere che uomini di Chiesa, alcuni eminenti altri dignitosi sul piano spirituale, non abbiano avvertito la stridente contraddizione dell’essere mafiosi con le esigenze morali del Vangelo? Come è stato possibile convivere pacificamente, intendersi e collaborare con gli uomini di cosa nostra?».

Domanda: La religione dei mafiosi è quella della Chiesa?

I mafiosi si dichiarano religiosi. Non si conoscono mafiosi atei né anticlericali. Anzi, si può dire che con la Chiesa i mafiosi hanno avuto sempre rapporti piuttosto intensi e di collaborazione.

Basti pensare al servizio da essi reso, negli ultimi 40 anni, alla Chiesa nei confronti del comunismo “ateo e materialista”. E si sa con quali e quanti mezzi persuasivi si sono adoperati per difendere i diritti di Dio e della religione. Una storia tristissima».

Cataldo Naro, per parte sua, ammoniva a «essere un po’ più cauti nell’indicare nella tradizione del cattolicesimo siciliano – senza distinzioni, in maniera cronologicamente compatta (dall’età moderna a quella contemporanea) e in modo esaustivo – la radice del fenomeno mafioso o di comportamenti pubblici della Chiesa e della società nei confronti dell’organizzazione mafiosa».

Insomma, nel rapporto tra Chiesa e mafie si può dire che sia insorto un equivoco durato per oltre un secolo, fin quasi alle soglie dei giorni nostri, equivoco basato sull’assunto che la religione dei mafiosi sia la stessa dei comuni fedeli e delle autorità religiose.

Perché ci sia stata questa confusione e sia insorto questo equivoco interpretativo non è ancora del tutto chiaro e certo non è facile da spiegare per i rappresentanti della Chiesa mentre è più facilmente comprensibile per gli uomini di mafia che hanno utilizzato questa loro vicinanza con la Chiesa per accrescere il loro potere e il loro prestigio.

È difficile credere che la “religione” seguita e praticata dai mafiosi sia identica a quella seguita e praticata dai cattolici o sia aderente alla dottrina della Chiesa. L’ipotesi che si può avanzare è che tra le due religioni ci sia una comunanza solo di termini e non di sostanza.

La religione rielaborata dai mafiosi a loro uso e consumo consente a costoro di non rilevare alcuna contraddizione tra dichiararsi religiosi ed essere partecipi di una cosca mafiosa, tra il portare sul corpo simboli cattolici – catenine, croci, immagini sacre, santini – e l’essere degli spietati assassini.

Qualche mafioso andava a uccidere, e prima – prima, non dopo! – chiedeva perdono al suo Dio che lui immaginava essere lo stesso Dio di milioni di cattolici italiani. L’idea che il Dio dei mafiosi sia uguale al Dio dei cattolici non è molto convincente. La permanenza di un equivoco del genere pesa ancora sulla comprensione del fenomeno mafioso e sulla necessità di operare una separazione tra Chiesa e mafia.

 

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Nell’estate del 2014 era stato scoperto un inchino, cioè una fermata della statua della Madonna davanti casa del boss di Oppido Mamertina in segno di omaggio e di rispetto.

Le feste. L’incanto. Una religiosità pagana. Il potere di portare le statue. È una storia antica, calabrese, siciliana e campana dove la religiosità popolare si mescola e si confonde con autentico paganesimo.

Il fatto ha destato un enorme clamore mediatico perché avveniva dopo le dure parole di condanna della ’ndrangheta pronunciate il 21 giugno 2014 da papa Francesco nella spianata di Sibari:

«Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no!».

Parole nette, dal significato inequivocabile. Nessun papa si era spinto fino a dire: «questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no!».

Le parole del papa non furono pronunciate in un deserto. Prima attività e prese di posizione.

 

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Occorre studiare e ricostruire meglio la storia della chiesa calabrese nei confronti della ‘ndrangheta. Nessuno storico, né di parte cattolica né di parte laica, s’è cimentato in questa impresa. È un compito non facile e certo non di breve periodo. Occorre rovistare negli archivi, andare in determinati parrocchie e vedere cosa succedeva, ricostruire dal basso alcuni episodi. Penso di non sbagliarmi se affermo che alla fine troveremo accanto a forme di collusione molte delle sorprese positive.

Nel 2007, a Falerna, si è tenuto un interessante convegno, dal titolo “E’ cosa nostra”, organizzato dalla Caritas Calabria.

Nello stesso anno, un documento della Conferenza episcopale calabra (“Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”) ove si legge : “Le mafie, di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e l’avvenire della nostra Calabria. Noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana”.

 

CONFERENZA EPISCOPALE CALABRA – Testimoniare la verità del Vangelo, Nota pastorale sulla ‘ndrangheta 24 dicembre 2014

La ‘ndrangheta non ha nulla di cristiano. È altro dal cristianesimo, dalla Chiesa. Non è solo un’organizzazione criminale che, come tante altre, vuole realizzare i propri illeciti affari con mezzi altrettanto illeciti e illegali, ma - attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro - si pone come una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell’unico vero Dio. L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”.

Quelle citate sono solo alcuni tra i non pochi atti con cui la Chiesa ufficialmente mostra di voler cambiare strategie e posizionamento nei riguardi delle mafie.

Naturalmente non tutto è risolto. Un problema: la coerenza tra le enunciazioni e il comportamento concreto.

 

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Espansione delle mafie in Italia e all’estero. Negli ultimi decenni s’è verificato un mutamento di fondo nel fenomeno mafioso: oramai le mafie non sono più solo un problema del Mezzogiorno d’Italia,  ma sono un problema dell’Italia intera,  delle zone più ricche e più produttive del nostro paese.

Un tempo si poteva scrivere la storia delle mafie parlando del Sud. Adesso un racconto attendibile e scientifico delle mafie deve necessariamente avere un corposo capitolo sul Nord. Altrimenti non sarebbe un buon testo.

Insisto: le mafie da lungo tempo sono diventate un problema nazionale. Lo dimostra l’ingresso del capitale mafioso a Milano e in altre aree del Nord dove negli ultimi anni l’organizzazione più forte è diventata la ‘ndrangheta.

Lo dimostra il fatto che oramai sempre di più sono gli imprenditori nati e cresciuti al nord a finire negli elenchi delle ordinanze di custodia cautelare e in quelli dei condannati.

Oramai è noto quali siano stati i fattori che hanno portato le mafie al Nord. Tra questi possiamo annoverare il soggiorno obbligato e la mimetizzazione dei mafiosi avvenuta tra i lavoratori meridionali immigrati venuti al Nord a lavorare; fattori, entrambi, ritenuti tra i principali vettori di diffusione e di propagazione.

Il contrabbando delle sigarette estere e il traffico degli stupefacenti producono accordi ed alleanze tra mafia, camorra e ‘ndrangheta e portano i mafiosi al nord e all’estero.

Ma poi ci sono stati altri fattori: innanzitutto il denaro, gli affari. L’idea che la ricchezza del nord avrebbe fatto da barriera protettiva alle mafie nate in un sud miserabile ed arretrato s’è rivelata fallace e menzognera.

Altre idee si rivelarono sbagliate e per certi aspetti hanno preparato la catastrofe del sud e del nord.

Alla materialità dei fatti – soggiorno obbligato, emigrazione, contrabbando di sigarette e traffico di stupefacenti – dobbiamo aggiungere i molti stereotipi e luoghi comuni che hanno fatto da schermo o da scudo protettivo.

Questi sono stati una forza potente a vantaggio delle mafie.

Com’è noto, per lungo tempo s’è diffusa l’idea che la mafia non esistesse da nessuna parte, neanche in Sicilia. Se la mafia non esisteva in Sicilia o in Calabria perché mai avrebbe dovuto esistere ed operare in Calabria oppure al Nord? Insisto: Se la mafia non esisteva in Sicilia o in Calabria perché mai avrebbe dovuto esistere ed operare al Nord?

Successe al Nord quello che era successo al Sud.  C’era una convinta incredulità verso chi proclamava l’esistenza e l’operatività delle mafie; un’affermazione del genere appariva a tutti, o quasi a tutti, inverosimile.

C’era sicuramente la disinformazione nei confronti d’un fenomeno antico come quello mafioso che nel grosso pubblico era visto come un fenomeno delinquenziale e criminale che riguardava solo il Sud. I film e i resoconti giornalistici avevano trasmesso l’idea di una mafia arcaica, violenta e sanguinaria; l’immagine che rimase impressa era quella del mafioso con la coppola storta e la lupara a tracollo, sullo sfondo di fichi d’india; una mafia radicata solo ed esclusivamente nel Meridione.

Al Nord non fu facile far comprendere che la realtà stava cambiando giorno dopo giorno.  Secondo molti, la mafia non c’era. Lo dicevano giornalisti della carta stampata e della televisione, uomini politici – un’infinità! – imprenditori, bancari e banchieri; e poi sindaci, prefetti, uomini delle istituzioni. Un coro senza fine. Le parole erano diverse, i toni pure; ma la sostanza era la stessa. Tutti pronti a giurare che Milano e la Lombardia erano immuni da quei problemi. Così come lo erano il Lazio, la Liguria, il Piemonte, l’Emilia-Romagna.

Di fronte a chi cominciava a dire che la mafia si stava infiltrando anche nelle regioni del Centro-Nord, una parte consistente della popolazione del Nord reagì negando l’esistenza del problema.

Tra i tanti motivi che resero il Nord restio a prendere atto del cambiamento della realtà c’è stato un dato culturale: una certa interpretazione della nascita della mafia ha inoculato una serie di errori clamorosi e gravi. Secondo un’interpretazione, la nascita della mafia si verificò soltanto in zone arretrate, di povertà, di fame, di miseria, di desolazione, di abbandono e di degrado.

Qualcuno potrebbe credere che l’analisi errata delle origini sia un problema di interesse culturale che riguarda storici e studiosi in genere, argomento succoso per impegnative tesi di laurea.

Essa, invece, ha avuto una ricaduta interpretativa d’un certo peso. Chi era convinto della bontà di questa tesi la ha assolutizzata e ha pensato che organizzazioni mafiose che hanno avuto origine in località e zone così arretrate non potessero piantare radici altrove, e in particolare nelle realtà economicamente opulente e sviluppate del Nord.

Al nord per molto tempo, regnò la teoria dell’isola felice, cioè la bizzarra convinzione in base alla quale si sosteneva che esistevano delle zone del paese, appunto delle isole, tutte concentrate al Nord, dove la presenza mafiosa non c’era perché proprio l’esistenza di queste isole felici lo avrebbe impedito.

Questa idea circolava a piene mani e servì per rassicurare le popolazioni locali che furono indotte a non vedere e a non guardare  con attenzione i nuovi fenomeni che stavano maturando sul loro territorio. L’immagine del nord è stata sfregiata

Gran parte della politica del Nord s’è, per così dire, meridionalizzata prendendone solo gli aspetti più negativi – è questo è un fatto paradossale dato il peso predominante di un partito come la Lega – aggiungendo alla pratica della corruzione quella del rapporto con i mafiosi.

L’altro elemento di novità è il fatto che una parte notevole dell’imprenditoria edile lombarda è risultata collusa – non vittima! – con la ’ndrangheta, a differenza del passato. Adesso, sempre più di prima e ancora più spesso, molti imprenditori edili fanno affari con gli uomini d’onore; un mutamento qualitativo di non poco conto.

La responsabilità delle classi dirigenti del nord. L’entità della presenza e del radicamento della ’ndrangheta chiama in causa la responsabilità delle classi dirigenti settentrionali che hanno fatto finta di niente, hanno colpevolmente convissuto o hanno fatto circolare idee e luoghi comuni che hanno rassicurato le popolazioni ma non hanno fatto comprendere quanto stesse realmente accadendo.

I mafiosi non si sono affermati solo con la violenza e gli omicidi. Altri fattori li hanno agevolati e favoriti. Sono stati in molti a dire che la mafia era un problema criminale da affrontare con la repressione più dura. Ma la mafia, come si sa, non è solo un problema criminale.

È da tre generazioni che la ’ndrangheta è presente nei territori lombardi. E da lì non s’è mai mossa. Non è una meteora passeggera. S’è insediata, s’è radicata, s’è inserita nella società, s’è ramificata; non è più un corpo estraneo come poteva essere agli inizi.

È, a tutti gli effetti, parte della società milanese e lombarda dove è riuscita a riprodurre esattamente le situazioni esistenti in Calabria, a clonare le ’ndrine e il loro modo di muoversi sul territorio, compreso quello del rapporto con il mondo della politica.

I suoi uomini sono conosciuti, sono temuti, sono rispettati, riveriti a Milano e in Lombardia, regione che è stata colonizzata, così come accade in Calabria. Quando gli imprenditori ne hanno necessità sanno a chi rivolgersi.

Da questo punto di vista è esemplare la storia della Perego strade, una delle imprese edili più importanti della Lombardia, oramai fallita. Ivano Perego, imprenditore originario di Cantù, in provincia di Como, ha accettato che nella sua impresa entrassero capitali e uomini della ’ndrangheta. La Perego svolse per un certo periodo la funzione di «stazione appaltante della ’ndrangheta». Adesso è fallita e Perego è stato condannato.

Sembra non esserci più alcuna differenza tra nord e sud.  La ’ndrangheta ha unificato l’Italia. Un capolavoro che non è riuscito alla politica.

C’è una nuova generazione della ’ndrangheta che vive e lavora in Lombardia. I rampolli dell’ultima generazione, sono diversi da quelli che li hanno preceduti nei decenni appena trascorsi, scansano le carceri e gli atti giudiziari, evitano i traffici di droga o di armi, sono laureati, parlano le lingue, comprese quelle padane, hanno costituito imperi economici, sono imprenditori, proprietari di case, bar, ristoranti, pizzerie, imprese edili, di movimento terra, di facchinaggio; possiedono aziende, agenzie immobiliari, sono nel ramo dei rifiuti, nella grande distribuzione commerciale ed agroalimentare, nel settore del turismo e della sanità, e non disdegnano di interessarsi di quello che succede nei porti.

Molti di loro sono nati a Milano o nei comuni  lombardi, vestono abiti firmati, frequentano le università anche all’estero, i salotti giusti, gli uomini della buona società, della finanza, imprenditori, commercianti, notai, avvocati, commercialisti, bancari e banchieri. Non sembrano appartenere al mondo dei loro padri e tanto meno dei loro nonni. Eppure, sono il loro clone in termini di cultura, furbizia e determinazione mafiosa. Non sono migliori, sono diversi; non portano addosso fucili o pistole, ma armi più potenti e più insidiose – le chiavi d’accesso alle loro finanze – che ripongono in eleganti valigette 24 ore, debitamente firmate.

Hanno rapporti solidi e stabili con professionisti,  uomini della finanza, politici, imprenditori, con quelli che io m’ostino a chiamare uomini-cerniera perché hanno avuto l’abilità di mettere in contatto mondo criminale e mondo legale.

È questa la vera mutazione che sta avvenendo in Lombardia e in altre aree del Nord. È la più straordinaria e subdola attività di penetrazione di capitali e di uomini mafiosi che sia stata compiuta negli ultimi decenni perché sta modificando il panorama della cultura e degli interessi di segmenti significativi dell’imprenditoria e della politica, in Lombardia e altrove.

Nel corso degli ultimi decenni i mafiosi hanno acquistato immobili, case, appartamenti, attività commerciali. Hanno potuto farlo perché si sono avvalsi di uomini-cerniera, cioè di vari professionisti locali, i quali hanno avuto l’abilità di mettere in contatto mondo criminale e mondo legale legandoli indissolubilmente.

Si sono fatti aiutare da “intermediari finanziari” che pur non appartenendo alle associazioni di stampo mafioso erano disponibili a operare nel terreno infido e pericoloso del riciclaggio per conto dei raggruppamenti criminali nascondendosi dietro lo schermo costituito da società di comodo che di norma avevano sede nei ‘paradisi fiscali’.

Uomini-cerniera – tutti uomini del Nord ben introdotti negli ambienti economico-finanziari locali – in grado di fornire ai mafiosi dei servizi essenziali per il loro sviluppo economico e per lo schermo frapposto ad una possibile, eventuale e futura, individuazione dei capitali investiti ed occultati. Una sapienza criminale posta al servizio d’un disegno mafioso.

Questi uomini hanno conoscenze specifiche e preziose sul piano tecnico e professionale che mettono a servizio dei mafiosi ai quali forniscono indicazioni per effettuare l’attività di riciclaggio delle cospicue somme accumulate.

Questa non è la stagione dei killer o degli uomini capaci di organizzare ed eseguire stragi orrende; questa è l’ora di economisti, investitori, riciclatori, broker, uomini che conoscono gli anfratti della finanza; è il loro momento, sono loro l’ossatura della ‘ndrangheta del futuro.

In una parola: la ‘ndrangheta non è più quella d’un tempo, anche se alcune caratteristiche legate alla ritualità e alle forme di affiliazione sopravvivono e combattono con il futuro. Sono questi gli aspetti essenziali, e distorti!, che hanno caratterizzato la cosiddetta modernizzazione in Calabria e in altre parti del Mezzogiorno.

Se si guarda a quello che è accaduto nell’ultimo decennio si possono osservare forme di condizionamento del voto e rapporti tra mafia e politica che appaiono del tutto simili a quelli sviluppatisi nel Mezzogiorno nei decenni scorsi. C’è un’omologazione dei comportamenti al Nord e al Sud, un vero e proprio travaso di metodi mafiosi dal Sud, in modo particolare dalla Calabria al Nord.

La culla della ‘ndrangheta è la Calabria, ma al Nord gli ‘ndranghetisti hanno trovato un habitat molto accogliente che non li ha respinti e che anzi li ha accolti ben volentieri. È superfluo fare l’elenco delle regioni dove c’è una presenza mafiosa. Le mafie sono attive in tutte le regioni – nessuna esclusa – con insediamenti a macchia di leopardo. Non tutte le regioni sono colpite in egual misura e in alcune di esse la presenza è più forte, più antica e più radicata rispetto ad altre.

In queste realtà s’è determinata un’aggressione ai patrimoni, alle proprietà, agli immobili, alle imprese commerciali, edili, turistiche, di trasporto, di movimento terra, di rifiuti. I mafiosi hanno comprato ristoranti, pizzerie, alberghi, discoteche, supermercati, bar e in questi ultimi si sono intrufolati con le macchinette mangiasoldi.

Si può dire che non ci sia attività dove è possibile ricavare un guadagno, compresa quella legata al comparto della sanità, che possa dirsi al riparo da un’aggressione del capitale mafioso che circola in contanti e in quantità stratosferiche.

Ed è in periodi di crisi come quelli che stiamo attraversando che le organizzazioni mafiose sono avvantaggiate.

Ne sono convinti gli imprenditori lombardi i quali per il 57% ritengono che esse si avvantaggiano perché offrono facile credito e per il 35,7% perché offrono possibilità di commesse e di lavoro. Lavoro mafioso offerto e garantito al nord. La novità non è di poco conto; e non è neanche di quelle passeggere.

Bisogna liberare il campo da luoghi comuni, da stereotipi e da analisi vecchie e superate per cercare di comprendere i nuovi scenari entro i quali oggi operano i mafiosi calabresi.

Non è vero che le mafie sono nate solo in un sud miserabile e povero, e che solo lì avrebbero potuto prosperare.

Le mafie sono nate anche in zone relativamente ricche del sud e hanno dimostrato che possono diffondersi e addirittura sorgere anche altrove, in contesti molto diversi da quelli del passato e non necessariamente nel Meridione.

Infatti, a Roma e nel Veneto sono sorte due formidabili associazioni criminose e mafiose – la Banda della Magliana, Mafia capitale e la Mala del Brenta – che hanno saputo abilmente fondere elementi criminali locali e soggetti mafiosi, rapporti con uomini politici e delle istituzioni. Sono durate a lungo e hanno avuto, soprattutto la prima, un ruolo importante in alcuni momenti significativi della storia recente d’Italia.

Era un luogo comune l’idea che nell’era della globalizzazione la ’ndrangheta avesse abbandonato la vecchia pratica delle affiliazioni secondo i vecchi riti e avesse dismesso le riunioni annuali in territorio di Polsi. Fior di studiosi, intellettuali, esperti, giornalisti avevano scritto che tutto ciò era solo paccottiglia, forse valida un tempo, ma caduta oramai in disuso, un residuo d’un passato arcaico che non si decideva a passare.

Ed invece la ’ndrangheta conferma la sua forza e la sua capacità di grande organizzazione mafiosa proprio nel suo essere globale e antica, proiettata nel futuro ed ancorata nel suo eterno passato, capace di dialogare in inglese e col sorriso sulle labbra con manager in ogni parte del mondo, e in stretto dialetto calabrese o in grecanico con contadini e montanari dell’Aspromonte.

Ai primi di settembre 2009 – settembre 2009!!! – la ’ndrangheta s’è riunita a cerchio formato, come vuole l’antica modalità prevista nei rituali, al santuario di Polsi avendo al centro del cerchio la Madonna della montagna pietrificata ed immobile per l’orrenda scena che si stava svolgendo ai suoi piedi.

Non è un racconto di un collaboratore di giustizia, ma un filmato dei carabinieri che documenta la riunione e che possiamo vedere su Youtube. Quello che è avvenuto non è cosa marginale, perché gli inquirenti reggini hanno violato la sacralità della ’ndrangheta essendo riusciti a penetrare negli ambulacri più reconditi e nascosti.

Rituali, riti, la mitologia favolistica di Osso, Mastrosso, Carcagnosso e riunioni a Polsi, la venerazione della Madonna della montagna continuano a fare parte di un immaginario collettivo che plasma menti e coscienze degli aderenti, che ancora oggi attira come una calamita i giovani, che costituisce parte fondamentale dell’ideologia della ’ndrangheta.

 

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Dobbiamo chiederci se c’è una struttura di vertice. La riunione attorno alla Madonna della montagna del settembre 2009 aveva un’importanza molto particolare rispetto a quella degli anni precedenti. I capi locale si erano riuniti giorni prima ed avevano assunto decisioni importanti sulla struttura e sugli uomini da porre al comando.

La riunione aveva la funzione d’una presa d’atto, anzi di più: era il riconoscimento formale di Domenico Oppedisano come nuovo capo crimine. La scelta è caduta sopra una persona anziana, rispettata per i suoi trascorsi che lui stesso ricorda ai presenti: «eravamo più di mille persone quella notte nelle montagne».

Non dice quando sia avvenuto, non precisa l’anno, ricorda però che «mi hanno messo in mezzo Peppe Nirta e ’Ntoni Nirta e lì mi hanno dato la carica della Santa». Non sono ricordi o vanterie di un vecchio – non ha bisogno di essere accreditato – è solo un modo per ribadire a tutti, anche a coloro che volessero dimenticare, di che pasta è fatto e da dove proviene.

Oppedisano non è stato eletto capo dei capi della ’ndrangheta, rappresenta una figura di garanzia e di equilibrio forse perché la scelta di eleggere uno più giovane in questo momento storico non sarebbe stato possibile. I locali di ’ndrangheta hanno trovato un’intesa per eleggere un organismo di vertice in grado di dirimere controversie, chiudere o prevenire faide sanguinose, sciogliere nodi intricati che i contendenti non riescono a sciogliere da soli, rappresentare un punto di riferimento.

Secondo la richiesta di custodia cautelare firmata dal procuratore Pignatone e dal suo sostituto Giuseppe Lombardo, i raggruppamenti un tempo in guerra hanno trovato, per superiori esigenze ’ndranghetiste, il modo di andare d’accordo e di fare affari insieme.

I morti sono il passato, i soldi il futuro. Cosa debba fare esattamente la Provincia o il Crimine – così si chiama il nuovo organismo – non è del tutto chiaro.

È uno strumento di vertice, questo è un fatto certo. Alla Provincia ricorrono gli ’ndranghetisti quando non riescono a trovare una soluzione a livello più basso.

Non è stato facile arrivare a questo accordo. Per anni quest’obiettivo è stato inseguito ma non s’erano mai raggiunte se non concordanze parziali e insoddisfacenti.

Quello odierno è il punto di approdo di un lungo percorso, iniziato tanto tempo fa; la conclusione, almeno per ora, di un travaglio, l’equilibrio raggiunto tra diverse e contrapposte spinte tra le diverse zone della ’ndrangheta reggina – piana di Gioia Tauro, Jonica e città – che avrebbero potuto concludersi in guerre devastanti e dagli esiti imprevedibili. Il compito del nuovo organismo non è per niente facile perché gestire un universo mafioso complesso e globale come quello dei locali di ’ndrangheta è complicato per chiunque. Si tratta di coordinare i locali ovunque siano dislocati, in Calabria, nel centro-nord, nei Paesi europei e in quelli extraeuropei; un lavoro impegnativo anche perché la ’ndrangheta, nonostante tutti i mutamenti, ha tenuto fermo il punto principale: il bastone di comando continua a rimanere saldamente nelle mani dei reggini.

Un fatto sicuramente inedito, perché nessuna organizzazione mafiosa italiana ha mai avuto un problema paragonabile a questo, neanche Cosa nostra quando era al massimo del suo splendore.

È anche probabile che la necessità di dar vita ad un vertice nasca dalla dimensione assunta di grande multinazionale del crimine, delle sue trasformazioni e dal ruolo sempre più crescente di          protagonista di rilievo del narcotraffico proprio quando iniziava la difficoltà di Cosa nostra dopo le stragi del 1992-1993.

Comandano gli ’ndranghetisti che risiedono in Calabria, com’era emerso nell’inchiesta Crimine. In un’inchiesta milanese del mese di marzo 2011 questa tendenza viene ulteriormente confermata.

Per decidere sui dissidi emersi in merito alla spartizione degli appalti della Tnt gli ’ndranghetisti di Africo e di Reggio Calabria operanti in Lombardia scendono in Calabria e lì trovano un accordo soddisfacente per tutti.

Anche nell’inchiesta reggina denominata Crimine due risulta evidente come il comando si eserciti persino nei confronti delle articolazioni estere in Australia, Canada, Germania, Svizzera.

Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria Domenico Antonio Vallelonga, detto Tony, sindaco dal 1996 al 2005 della città australiana di Stirling che ha 200.000 abitanti, avrebbe discusso a Siderno con Giuseppe Commisso, detto u mastru, degli assetti della ’ndrangheta.

Vallelonga, che è stato arrestato, è originario di Nardodipace, piccolo comune di montagna in una zona di struggente bellezza a due passi da Serra San Bruno che in Trentino avrebbe fatto la ricchezza del paese e in Calabria invece è motivo e causa di emigrazione.

E Vallelonga fa parte di quella sterminata schiera di calabresi emigrati più di trenta anni fa in molte parti del mondo e anche in Australia.

 

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Per comprendere la trasformazione della ‘ndrangheta degli ultimi anni bisogna analizzare due fatti che segnano una discontinuità con la storia, con la tradizione, con l’antica vocazione a non apparire e ad agire al coperto dei mafiosi calabresi.

Il primo fatto da analizzare è quanto accaduto a Locri il 16 ottobre 2005 con l’omicidio di Francesco Fortugno che all’epoca dei fatti era vice presidente del Consiglio regionale della Calabria; il secondo è la strage di Duisburg in Germania del 15 agosto 2007 ad opera di ‘ndranghetisti giunti apposta da San Luca, il paese di uno dei maggiori scrittori calabresi, Corrado Alvaro, e della Madonna di Polsi il santuario venerato da tutti i reggini e che la ‘ndrangheta ha preso a simbolo della propria potenza.

Quel delitto è stato un messaggio politico-mafioso e certo non può essere maturato e deciso solo a Locri. Perché è stato ucciso in modo tale da richiamare l’immediata attenzione nazionale?

Considerare la ’ndrangheta, come ha sottolineato il procuratore Pignatone, un grande fatto unitario permette «di evitare il grave rischio di una visione parcellizzata, frammentaria e localistica», cioè «una visione che non ne ha fatto apprezzare la reale forza complessiva in termini di legami e connessioni con il mondo “altro”, sia che si tratti di pezzi delle istituzioni, sia che si tratti di settori dell’imprenditoria, sia infine che si tratti di appartenenti al mondo della pubblica amministrazione o della politica». C’è una forza e una consistenza dell’arcipelago di protezione che circonda la ’ndrangheta.

In una economia infiltrata dalle mafie la concorrenza viene distorta, per molte vie: un commerciante vittima del racket può finire con il considerare il “pizzo” come il compenso per un servizio di protezione contro la concorrenza nel suo quartiere; il riciclaggio nell’economia legale di proventi criminali impone uno svantaggio competitivo alle imprese che non usufruiscono di questa fonte di denaro a basso costo; i legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la fornitura di beni e servizi pubblici. […]

È significativo il fatto che Draghi abbia detto che il riciclaggio di denaro proveniente da attività criminali è uno dei più insidiosi canali di contaminazione fra il lecito e l’illecito. Per i criminali è un passaggio essenziale, senza il quale il potere d’acquisto ottenuto con il crimine resterebbe solo potenziale, utilizzabile all’interno del circuito illegale ma incapace di tradursi in potere economico vero.

 

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L’arcipelago che protegge la ’ndrangheta. Attorno alla ’ndrangheta ruotano personaggi di vario tipo. È come se fosse in mezzo ad un cerchio di protezione che la tiene al riparo e che a sua volta ripara. È qualcosa di più e di diverso della zona grigia e della borghesia mafiosa ed è qualcosa di indefinibile, che non è facile da indicare con un nome preciso.

Eppure c’è, esiste e se ne avverte la presenza. Del resto non è pensabile che solo uomini violenti e dotati militarmente abbiano potuto tenere sotto scacco per un tempo così lungo la Calabria, interloquire con forze politiche, istituzionali, economiche, con pezzi dello Stato, con imprenditori, professionisti, con il modo della sanità pubblica e privata, con prelati e con tanti altri ancora, e svilupparsi ben oltre i confini tradizionali.

Per fare tutto ciò hanno avuto bisogno di un blocco sociale di interessi cementato su solide basi economiche e culturali; e nello stesso tempo occorreva un livello diverso di direzione e di orientamento delle politiche mafiose.

La ’ndrangheta in quest’inizio di millennio non è formata solo da picciotti che sparano. Dentro oramai ci sono, e in funzione apicale, uomini appartenenti al mondo delle professioni – tutte, nessuna esclusa.

La scala gerarchica ai primi posti non è occupata da uomini d’arme, ma da quelli che sanno di «politica e falsa politica» come c’è scritto nei rituali, che sanno muoversi nei marosi della società odierna e tessere rapporti con il mondo politico, istituzionale e della finanza.

S’avverte anche il peso d’una certa massoneria, non quella ufficiale, ma quella che gioca in proprio, e il ruolo di uomini dei servizi, che giocano in proprio anche loro, e non si sa bene a chi rispondano e perché tengano certi rapporti e abbiano determinate frequentazioni.

Ci sono finalità che appartengono a settori di questi ambienti che sembrano muoversi lungo una logica propria, lontana da quelli di provenienza.

L’insieme di queste figure e ambienti costituisce l’arcipelago dentro il quale gli uomini d’onore calabresi sono potenti e sono forti.

È dentro l’arcipelago che ci sono le figure adatte a stabilire rapporti, legami, frequentazioni, cointeressenze con il mondo politico, con pezzi di istituzioni, con poteri economici e finanziari; lo possono fare perché hanno la statura e la forza per farlo, perché non appartengono alla categoria dei picciotti con la mano sempre pronta a correre alla pistola.

È nei meandri più reconditi dell’arcipelago che si può decidere, quando è necessario, di sacrificare un po’ di manovalanza, di eliminare qualche pezzo, anche pregiato, appartenente all’ala militare perché il resto – il vertice, cioè chi decide le politiche e le scelte strategiche – rimanga intatto.

Un tempo questo era il compito e il mestiere della Santa, oggi quel compito è stato assunto da altri gradi apicali, di conio più recente.

La ’ndrangheta è potere, un corposo, antico, stabile, riconosciuto e riconoscibile potere territoriale capace di produrre consenso, linguaggi, cultura, di governare segmenti della società, di dare risposte alle insufficienze dello Stato, a volte appositamente create perché possa funzionare l’azione di supplenza.

In Calabria i confini tra lecito ed illecito sono labili, come labili sono i confini tra mafia, politica ed imprenditoria. A volte si recitano più parti in commedia: imprenditore, ’ndranghetista, uomo politico o uomo delle istituzioni.

È stupefacente come gli ’ndranghetisti rimangano ancora così ferocemente abbarbicati a paesi abitati da poche migliaia di persone, che offrono poco o nulla in termini di servizi e di opportunità di vita, ma molto in termini di potere e di comando.

Con i soldi che hanno accumulato, molti di loro potrebbero andare via a godersi altrove il frutto di quanto hanno realizzato con la malavita. E invece no; la testa e il cuore sono ben piantati sempre lì, nei luoghi dove sono nati, dove c’è la scaturigine del loro potere.

Non bisogna mai dimenticare tutto ciò, se si vuole cogliere l’essenza e la natura del potere territoriale ’ndranghetista in epoca contemporanea.

Le vecchie generazioni di malandrini sono sopravvissute così; dei nuovi rampolli ancora non è chiaro quanti seguiranno questo esempio oppure sceglieranno altre strade. Dalle scelte di costoro, in definitiva, dipenderà il futuro della ’ndrangheta.

È probabile che molti di loro tenteranno di riemergere nella legalità al nord Italia o all’estero, mentre alcuni stanno tentando di portare a compimento questa operazione anche in Calabria. Già adesso ci sono discendenti di importanti mafiosi che hanno redditizie attività economiche in Europa e probabilmente continueranno a mandarle avanti; possono farlo perché non sono attivi nelle azioni criminali ed illegali dei familiari.

La direzione di marcia comincia ad essere segnata ed è quella che contempla la riemersione nella legalità, la legittimazione delle loro ricchezze, la consacrazione che i loro “sacrifici” – i morti nelle famiglie, gli anni di galera scontati o da scontare, una parte dei beni persi con le confische da parte dello Stato – possano servire, se non per i padri almeno per i figli o per i nipoti.

Qualcuno, tra i professionisti e tra le classi dirigenti più spregiudicate, potrebbe assecondare questa tendenza pensando agli affari che si potrebbero fare e all’apporto di capitali freschi.

Non calcolano costoro che uomini di tal fatta, seppure ripuliti e con abiti all’ultima moda, difficilmente dimenticano la loro origine e se ne fossero costretti non esiterebbero a ricorrere alla violenza potendo utilizzare uomini violenti che sono sempre sul mercato e ben disposti a servire chi ne abbia bisogno.